Con la sentenza 937 del 10 gennaio 2018, la Corte d’appello di Torino è intervenuta sui premi di risultato, fornendo indicazioni utili in merito al computo delle giornate lavorative in base a cui determinarne l’entità. In particolare, una società si era dotata, in accordo con le rappresentanze sindacali, di un meccanismo di calcolo della quota variabile della retribuzione, volto a dissuadere dall’assenteismo, per il quale attribuire il beneficio in misura decrescente rispetto alle assenze registrate. In altri termini, l’unico presupposto pattuito per ottenere il trattamento accessorio constava nell’effettiva presenza in servizio e, al riguardo, il datore di lavoro aveva omesso di considerare le giornate di assenza per congedo di maternità, congedi parentali e per malattie dei figli.
La Corte d’appello, confermando la decisione di primo grado, ha affermato la discriminatorietà del comportamento datoriale: il parametro adottato dalla società, per quanto “apparentemente neutro”, si prestava a penalizzare in misura rilevante il personale femminile, posto che lo stesso, per ovvie ragioni, tende a fruire “in modo esclusivo e preponderante” di tali congedi.
Va osservato come, adottando i principi generali di matrice anche europea, possa parlarsi di discriminazione se a parità di condizioni sia riscontrabile una differenziazione retributiva di genere. Ebbene, a prescindere dalla mancanza di prova di un intento discriminatorio e per quanto la differenziazione riguardasse esclusivamente un emolumento accessorio quale il premio di risultato, la Corte ha rilevato, in ogni caso, una discriminazione indiretta, anche in considerazione del fatto che la società aveva equiparato la presenza al lavoro con altre tipologie di assenze – e di più frequente fruizione maschile – quali i congedi sindacali e i congedi in base alla legge 104/1992.
A giudizio della Corte, la scelta di simili criteri si poneva, in particolar modo, in contrasto con quanto disposto dall’articolo 25, comma 2 del Dlgs 198/2006, in base al quale si può parlare di discriminazione indiretta ogniqualvolta «una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento» – come, nel caso di specie, i parametri di determinazione del premio – «mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso». Questo vale, a maggior ragione, secondo la Corte, ove la condotta discriminatoria finisca per colpire l’esercizio di funzioni costituzionalmente garantite, quali la gravidanza, la maternità e l’assistenza ai figli. Nessuna valenza poteva, peraltro, attribuirsi ad eventuali finalità legittime della società, posto che in ossequio a quanto recentemente affermato dalla Cassazione, «a prescindere dalla volontà illecita» del datore di lavoro, deve valutarsi la discriminazione in senso obiettivo «in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore» (si veda la sentenza della Cassazione 6575/2016).
A queste premesse è conseguita, nel caso specifico, da un lato la condanna al pagamento delle differenze retributive delle lavoratrici ricorrenti, ricalcolando gli importi spettanti con la dovuta inclusione dei giorni di congedo e, dall’altro, l’obbligo di cessare il comportamento in oggetto, con l’adozione di nuovi criteri che contenessero la equiparazione delle assenze in questione alla presenza in servizio.