La CORTE DI CASSAZIONE con Sentenza 27 aprile 2023, n. 11174, ha giudicato che il lavoratore non può essere licenziato nemmeno per scarso rendimento in caso di plurime e reiterate assenze dal lavoro, prima che sia decorso il periodo di comporto
La Suprema Corte in merito ha così giudicato, nel caso specifico, confermando ed esplicitando interessanti principi:
“Secondo il costante insegnamento di questa Corte, dal quale non vi è ragione di discostarsi, quando, come nel caso in esame, vi sia un collegamento tra il licenziamento e le assenze per malattia del lavoratore le regole dettate dall’art. 2110 c.c. del lavoratore prevalgono, in quanto speciali, sulla disciplina dei licenziamenti individuali e si sostanziano nella regola consistente nell’impedire al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cd. comporto) predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice. Nell’ottica di un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro, a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce, e del lavoratore, a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, solo quel superamento è condizione di legittimità del recesso. Lo scarso rendimento e l’eventuale disservizio aziendale, determinato dalle assenze per malattia del lavoratore, infatti, non possono legittimare, prima del superamento del periodo massimo di comporto, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (cfr. Cass. 07/12/2018 n. 31763).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito che il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c. (Cass., SU, 22/05/2018, n. 12568)
il licenziamento per scarso rendimento è riconducibile ad una ipotesi di recesso per giustificato motivo soggettivo che, per essere legittimo, deve connotarsi di una condotta imputabile al lavoratore la quale, complessivamente valutata e sulla base delle allegazioni e delle prove offerte, evidenzi una violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente e determini una rilevante sproporzione tra gli obiettivi fissati e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione con conseguente grave inadempimento del lavoratore dei compiti a lui affidati (in questo senso proprio la sentenza richiamata dalla società ricorrente: Cass. 04/09/2014 n. 18678). La nozione di «scarso rendimento» è legata ad un inadempimento del lavoratore che abbia carattere notevole e sia a lui imputabile e non piuttosto al dato obiettivo della inidoneità della prestazione al conseguimento degli obiettivi aziendali (cfr. Cass. n. 7522 del 2017 con riguardo ad una fattispecie disciplinata dal R.D. n. 148 del 1931).
Il licenziamento connesso all’elevata morbilità del lavoratore è qualificabile invece come un particolare tipo di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Esso si collega da un lato all’esistenza di una o più malattie e dall’altro al fatto oggettivo del tempo complessivamente trascorso in malattia. È l’esaurimento del periodo di comporto che di per sé giustifica la risoluzione del rapporto di lavoro. Le norme speciali che regolano il comporto perseguono il fine preservare il rapporto di lavoro durante la malattia del lavoratore impedendo al datore di lavoro di porvi unilateralmente fine per il tempo – predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice – di tollerabilità dell’assenza.
L’unica condizione di legittimità del recesso è dunque quel superamento del periodo di comporto, espressione del contemperamento degli interessi confliggenti del datore di lavoro e del lavoratore. Né un rendimento inadeguato alle esigenze aziendali né un disservizio cagionato dalle assenze per malattia del lavoratore possono legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di quel lavoratore prima che sia stato superato il periodo massimo di conservazione del posto di lavoro espressione di un bilanciamento degli opposti interessi coinvolti.
Non può essere ragionevolmente invocato il principio della insindacabilità da parte del giudice delle scelte organizzative dell’imprenditore che abbia valutato non utile la prestazione sul rilievo che l’unico controllo possibile sarebbe quello sulla effettività delle ragioni che l’hanno determinata. Il potere organizzativo del datore di lavoro comprende certamente la predisposizione di regole finalizzate ad una migliore efficienza dell’attività produttiva in relazione agli obiettivi economici da perseguire, espressione della libertà di iniziativa economica privata sancita dall’art. 41 Cost., ma non può prescindere da un equo bilanciamento con il diritto del lavoratore alla tutela della sua salute ai sensi dell’art. 32 Cost. ed al lavoro ex art. 4 comma 1 Cost. da conservare per un periodo di tempo ragionevole stabilito dalla legge, dal contratto, dagli usi o in via equitativa dal giudice. Un contemperamento tra gli interessi confliggenti del datore di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi, senza perdere i mezzi di sostentamento”.