Com’è noto, alle parti del contratto di lavoro è concessa la facoltà – da esercitarsi, in ogni caso, per iscritto – di pattuire, in fase di assunzione, che la definitiva stabilizzazione del rapporto del lavoratore sia subordinata all’espletamento di un periodo di prova, nel corso del quale il prestatore stesso possa dimostrare la propria idoneità allo svolgimento delle mansioni per le quali (eventualmente) sarà definitivamente assunto (art. 2096 c.c.). Se, tuttavia, detta norma trova piena applicazione laddove il lavoratore miri all’assunzione da parte di un datore di lavoro privato, nel caso in cui si tratti di un contratto alle dipendenze di una Pubblica Amministrazione il discorso muta, come si vedrà, in maniera considerevole.

L’inapplicabilità dell’art. 2096 c.c.
Giova preliminarmente rilevare come, nonostante non si rinvenga nella disposizione di cui all’art. 2096 c.c. sopra citata alcun riferimento testuale esplicito che escluda la sua applicabilità alle ipotesi di rapporti di lavoro pubblico contrattualizzato, per costante orientamento giurisprudenziale lo stesso articolo si limita a disciplinare il periodo di prova del lavoratore nei confronti del datore di lavoro privato.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, a più riprese affermato che “l’assunzione in prova alle dipendenze delle amministrazioni… non è mai stata disciplinata dall’art. 2096 c.c., che presuppone il carattere facoltativo e non obbligatorio del patto” (Cass. 19 dicembre 2018 n. 32877; Cass. 2 agosto 2010 n. 17970; Cass. 16 gennaio 2015 n. 655; Cass. 11 aprile 2017 n. 9296; Cass. 29 agosto 2018 n. 21376).  A ben vedere, con svariati interventi normativi, il legislatore ha da tempo provveduto a disciplinare taluni aspetti della prova nel lavoro pubblico in maniera speciale e ciò, segnatamente, con:

  • artt. 9,10 DPR 3/57;
  • art. 20 L. 93/83 (abrogato);
  • DPR 487/94.

Ad oggi, invero, occorre fare riferimento a quanto disposto dal D.Lgs. 165/2001 (“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”). In particolare, prescrivendo che “…i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del Capo I, Titolo II, del Libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, l’art. 2, c. 2, D.Lgs. 165/2001 fa salve le diverse disposizioni previste dallo stesso decreto e viene, con ciò, in rilievo l’art. 70, c. 13, D.Lgs. 165/2001. Quest’ultimo, in materia di reclutamento da parte delle P.A., richiama la disciplina di cui al DPR 487/94 che, con riferimento al periodo di prova, prevede che, una volta dichiarati vincitori di un concorso, i candidati siano invitati “…a mezzo assicurata convenzionale, ad assumere servizio in via provvisoria, sotto riserva di accertamento del possesso dei requisiti prescritti per la nomina…” (art. 17, c. 1, DPR 487/94).

L’obbligatorietà del periodo di prova
Come sopra evidenziato, la principale differenza tra i due regimi risiede, rispettivamente, nella facoltatività della previsione di un periodo di prova in ambito privato e, invece, nell’obbligatorietà alle dipendenze della P.A.
La Pubblica Amministrazione, quindi, non gode di alcuna discrezionalità in tal senso, posto che dalla lettura del citato DPR 487/94 emerge come l’esperimento del periodo di prova debba avvenire ex lege, al netto di qualsivoglia pattuizione individuale. D’altra parte, il regime di obbligatorietà si giustifica sulla base del fatto che il valore della prova non può ritenersi strettamente limitato, in questo caso, alla valutazione “circa l’idoneità allo svolgimento delle mansioni da parte del lavoratore”, bensì vengono, altresì, in rilievo “ulteriori motivazioni strettamente connesse alla natura del rapporto” di lavoro pubblico (Trib. Milano 26 gennaio 2012).
Ciò comporta, tra gli altri, che, nel corso di un eventuale contenzioso sul punto, al lavoratore non è concesso far valere in giudizio la nullità per eventuali carenze del regolamento contrattuale – relative, a titolo esemplificativo, alla mancata o insufficiente indicazione delle mansioni oggetto di prova – poiché le potenziali lacune in tal senso devono intendersi sopperite (art. 1339 c.c.) dalle previsioni di legge ovvero della contrattazione collettiva (Cass. 19 dicembre 2018 n. 32877). Peraltro, se, nell’ambito del lavoro alle dipendenze di un privato l’esigenza di specificazione si giustifica “oltre che in ragione della non obbligatorietà del patto, perché il prestatore deve essere posto in condizione” di conoscere con precisione “le mansioni alle quali verrà assegnato e sulle quali si svolgerà l’esperimento”, ciò non può valere per il lavoro pubblico, nell’ambito del quale la sottoscrizione del contratto di lavoro presuppone che sia stata espletata una procedura concorsuale e, quindi, nel bando fosse compiutamente indicato lo specifico profilo professionale ricercato che, a propria volta, trovasse una “definizione nella contrattazione collettiva, dalla quale il datore di lavoro non può discostarsi, sicché quelle esigenze… sono già assicurate dalle regole che necessariamente governano l’instaurazione e la gestione del rapporto” (Cass. 19 dicembre 2018 n. 32877).

La discrezionalità del datore nel recesso e i suoi limiti
Un punto sul quale, al contrario, la disciplina della prova in ambito privato e nel lavoro pubblico convergono è rappresentato dalle condizioni per l’allontanamento del dipendente. Ebbene, in tal senso, ciò che caratterizza entrambi i regimi è la sostanziale discrezionalità nella scelta espulsiva garantita al datore di lavoro.
Quest’ultima trova, nel rapporto di lavoro privato, la propria fonte direttamente nella norma codicistica, ove è prescritto che, durante il periodo di prova, “ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o indennità” (art. 2096, c. 3, c.c.) ed è stata autorevolmente ribadita dalla Corte costituzionale. La Corte, in particolar modo, ha confermato l’aderenza della norma citata alla Costituzione. Può, con ciò, dirsi che il datore di lavoro goda, appunto, di un potere discrezionale di allontanamento del lavoratore in prova e possa legittimamente esercitarlo a prescindere dalla sussistenza o meno di qualsivoglia giusta causa o giustificato motivo.
Orbene, tale assunto vale anche, come detto, per i “rapporti di lavoro privatizzati alle dipendenze di pubblica amministrazione”, dacché anche la P.A. va ritenuta dispensata dall’onere di dimostrare la giustificazione del recesso (Cass. 13 agosto 2008 n. 21586).
Ciò premesso, occorre, altresì, considerare che, seppur discrezionale, tale potere non può certo ritenersi arbitrario, in quanto risulta, comunque, soggetto a rilevanti limiti. Infatti, la P.A. datrice risulta, in ogni caso, onerata di recedere dal rapporto in maniera “coerente con la causa del patto di prova” (Cass. 13 settembre 2006 n. 19558) che, come è noto, risiede nel consentire ad entrambe le parti contrattuali di verificare la convenienza dell’assunzione. Ne consegue che il lavoratore non sia del tutto privo di garanzie e possa comunque, in ipotesi determinate, adire l’Autorità giudiziaria per l’ottenimento di una tutela.
Quest’ultimo, in particolare, ha sempre modo di agire in tutti i casi in cui:

  • le effettive modalità dell’esperimento non risultino adeguate “ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova”;
  • la scelta espulsiva sia determinata – in concreto – da “finalità discriminatorie o altrimenti illecite” (Cass. 13 settembre 2006 n. 19558).

Per di più, in tutti i casi in cui la contrattazione collettiva imponga, come soventemente accade, un obbligo di motivazione del recesso (che, comunque, non comporta in nessun caso l’applicazione del regime della L. 604/66), in sede giurisdizionale è concesso al giudice dar luogo ad una verifica che non riguardi il merito della valutazione discrezionale operata dalla parte datoriale, ma che, però, attenga alla “coerenza delle ragioni del recesso rispetto, da un lato, alla finalità della prova e, dall’altro, all’effettivo andamento della prova stessa” (Cass. 13 agosto 2008 n. 21586).
Appare del tutto evidente come, nelle ipotesi considerate, l’onere della prova gravi interamente sul lavoratore che agisce in giudizio.

La ripetizione del periodo di prova
Un ulteriore tema su cui, in questa sede, giova porre l’accento è rappresentato dalla possibilità o meno di dar luogo ad una ripetizione del periodo di prova – ove ciò si renda necessario – nei confronti di uno stesso lavoratore che sia già stato oggetto di esperimento. Si può citare il caso, a titolo esemplificativo, in cui il prestatore abbia precedentemente svolto la propria attività in favore della stessa Pubblica Amministrazione, ma con una forma contrattuale differente.
Orbene, sul punto è intervenuta la giurisprudenza di merito che, in astratto, non ha precluso al datore di lavoro pubblico tale facoltà di ripetizione e, anzi, ha confermato la piena legittimità di una simile scelta.
In particolare, il Tribunale di Udine (Trib. Udine 16 maggio 2003) ha, infatti, affermato che “…sussiste la facoltà per la Pubblica Amministrazione di reiterare il periodo di prova nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato” in tutte le ipotesi in cui il vincitore “di un concorso – il cui bando prevedeva un iniziale periodo di prova – abbia in precedenza superato, positivamente, altro periodo di prova afferente ad un contratto” di lavoro a termine. Ciò vale, secondo lo stesso giudice friulano, anche laddove i due contratti di lavoro susseguitisi abbiano ad oggetto analoghe mansioni.

Conclusione
Come si è avuto modo di esaminare, seppur disciplinato da fonti normative differenti, il periodo di prova nel lavoro pubblico soggiace a regole pressoché assimilabili a quelle stabilite per il lavoro alle dipendenze di privati, fatto salvo, in particolare, il regime di obbligatorietà che lo caratterizza.
Orbene, se tale fattore non si presta – in astratto – all’insorgenza di profili particolarmente problematici, maggiori dubbi di opportunità si pongono con riferimento all’estensione alla P.A. dell’ampia discrezionalità nell’allontanamento del lavoratore. Premesso che, in ambito privato, la pressoché libera recedibilità garantita in questa fase trova valida ragione negli spazi di autonomia contrattuale da riconoscersi alle parti e risulta in linea con le prerogative dell’ordinamento, cui non può certo dirsi estraneo l’interesse (privato) del datore a valutare adeguatamente le abilità del dipendente (del quale, solitamente, è a conoscenza soltanto delle esperienze pregresse) prima di procedere all’assunzione; nell’ambito della Pubblica Amministrazione le garanzie nei confronti dei lavoratori dovrebbero caratterizzarsi, in astratto, in senso differente. Se, invero, in caso di allontanamento del prestatore privato in prova, ad essere, in qualche misura, “lesa” è una mera aspettativa di definitiva assunzione, in ambito pubblico tale aspettativa parrebbe sorretta da una maggior pregnanza e rilevanza giuridica, posto che trattasi di soggetti risultati vincitori di una procedura concorsuale. Ciononostante, una seppur minima forma di maggiore tutela può dirsi offerta dalla necessaria motivazione del provvedimento espulsivo.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU LAVOROPIU’ DI GIUFFRE’