In questa sede si intende porre l’accento sugli effetti che conseguono alla comminazione di un licenziamento disciplinare che abbia luogo all’esito di un periodo di sospensione cautelare del lavoratore. Occorre, in particolare, interrogarsi sulla possibilità o meno che all’estromissione temporanea dall’impresa che coinvolge il dipendente sospeso si aggiunga, altresì, la necessità che, in caso di successivo provvedimento espulsivo, quest’ultimo possa essere chiamato a restituire quanto percepito a titolo di retribuzione durante il periodo de quo.

Giova preliminarmente rilevare che, come osservato dalla più autorevole giurisprudenza, in materia di sospensione cautelare un ruolo assolutamente preminente è attribuito alle disposizioni della contrattazione collettiva, in assenza di una compiuta disciplina legislativa. Se, stando alle argomentazioni della Corte di Cassazione, con sentenza n. 89 del 8 gennaio 2003, l’articolo 7 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) regola e “procedimentalizza” l’esercizio del potere disciplinare della parte datoriale e, con esso, anche la possibilità di comminare le c.d. sospensioni disciplinari, la sospensione di natura cautelare non può dirsi rientrare nell’ambito di applicazione della disposizione. Essa trova, per converso, la propria fonte legittimante nei principi costituzionali a garanzia della posizione dell’azienda e, in particolare, la sua adozione, “anche se non prevista dalla specifica disciplina legale o contrattuale del rapporto”, costituisce “legittima espressione del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro” ricavabile ex art. 41 Cost..

Orbene, in considerazione di quanto sopra, le parti sociali godono di un’assoluta libertà nella configurazione di limiti e condizioni e, tra gli aspetti oggetto di possibile accordo in sede di contrattazione, vi è senz’altro l’effetto della sospensione sull’obbligazione retributiva che grava in capo al datore. Si è, al riguardo, argomentato – in sede di giudizio di legittimità – che, ove l’impresa sospenda unilateralmente il dipendente e la disciplina contrattuale non disponga alcunché in materia di retribuzione, l’adozione della misura “non priva il lavoratore del diritto alla retribuzione”. Per converso, alle parti collettive è pacificamente concesso pervenire a conclusioni differenti ed estendere – espressamente – l’“effetto sospensivo” anche all’“obbligazione retributiva” (in questo senso, Cassazione, sentenza n. 3209 del 26 marzo 1998, sentenza n. 12631 del 15 novembre 1999, nonché Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 4955 del 3 giugno 1997).

Ciò premesso, un’analoga libertà di contrattazione è attribuita alle parti con riferimento alla possibile retroattività del provvedimento espulsivo che venga intimato all’esito di un periodo di sospensione. Infatti, nonostante tale misura cautelare e il licenziamento per giusta causa debbano intendersi quali “provvedimenti diversi per natura e disciplina” e tale autonomia non venga meno neanche “nel caso che tra i due atti sussista un collegamento funzionale”, ciò non esclude che i CCNL possano legittimamente prevedere, appunto, l’efficacia retroattiva del secondo “fino a saldarsi con la sospensione cautelare dal servizio”, cui consegue la perdita ex tunc del diritto alle retribuzioni, a far tempo “dal momento della sospensione stessa” (si veda Cassazione, sentenza n. 22863 del 9 settembre 2008, nonché la più risalente Cassazione, sentenza n. 624 del 23 gennaio 1998).

Appare estremamente evidente come un simile assunto si presti al venire in rilievo di conseguenze particolarmente gravose in capo al prestatore di lavoro, il quale risulta onerato di restituire quanto corrisposto medio tempore dal datore di lavoro. In questo senso, per mezzo della sentenza n. 9681 del 12 maggio 2015, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto del tutto lecita la valutazione operata dalle parti collettive che avevano inteso negare “un trattamento economico vantaggioso per chi” era “fuoriuscito dall’area occupazionale non certo per volontà o colpa del datore di lavoro”. Per di più, è stata affermata la piena legittimità della scelta del datore di lavoro di dar luogo a compensazione c.d. “impropria” o “atecnica” (configurabile ogniqualvolta diverse ragioni di credito scaturiscano dal medesimo rapporto giuridico e, in questo caso, dal rapporto di lavoro) di tali importi con altre spettanze eventualmente incombenti sull’impresa. Cosicché può concludersi che, al fine di vedersi restituite le retribuzioni corrisposte, allo stesso datore di lavoro è concesso scomputare dette somme, a titolo meramente esemplificativo, dall’importo totale del trattamento di fine rapporto dovuto al lavoratore.

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