Sia l’ordinamento nazionale che le fonti europee e internazionali hanno da tempo apprestato una tutela particolarmente pregnante alla libertà religiosa e alla relativa modalità di esercizio da parte dei singoli individui. I Padri costituenti, nonché il Legislatore con i propri interventi normativi, hanno provveduto a configurare un assetto del tutto garantista nei confronti dei singoli aderenti alle confessioni religiose, i quali non solo possono contare su un generale – e incondizionato – diritto di professare il proprio credo (in termini di mera libertà di culto), ma molto spesso la tutela si estende alla possibile pretesa di comportamenti positivi ovvero negativi da parte di soggetti determinati. In altri termini, l’ordinamento giuridico italiano (a differenza, a titolo meramente esemplificativo, di quello francese e della concezione di laicità dallo stesso abbracciata) non si limita a proteggere le varie confessioni in maniera generale e indiscriminata, ma tende ad esaltarne – e, ancora, ad apprestarne tutela – le differenze e le peculiarità.

A tal proposito, le conseguenze di un simile approccio sul piano giuslavoristico risultano particolarmente rilevanti, posto che il datore di lavoro, seppur soggetto privato, è chiamato a prestare particolare attenzione affinché lo svolgimento del rapporto non tenda ad infirmare la libertà di cui sopra. In particolare, i principali riflessi sul contratto di lavoro del fattore religioso attengono sia a questioni di carattere meramente organizzativo che alla potenziale discriminatorietà di eventuali provvedimenti comminati dal datore. Orbene, in questa sede si intende porre l’accento sui preminenti problemi interpretativi che in materia si pongono, nonché delle soluzioni individuate dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale.

Libertà religiosa tra principi costituzionali e tutela sovranazionale

Giova preliminarmente rilevare come, tra i principi cristallizzati nella Carta costituzionale, rientri il diritto ex art. 19, Cost., per il quale è garantita ad ogni soggetto la possibilità di “professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. Peraltro, il fenomeno è, altresì, regolato dagli artt. 7 (con riferimento alla religione cattolica) e 8 Cost. – limitatamente all’ipotesi di intese tra le confessioni e lo Stato italiano – e, in senso ampio, dal generale principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., che vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra le altre ipotesi, sull’orientamento religioso di un soggetto.

Per di più, la libertà in argomento gode di un ulteriore riconoscimento da parte di fonti internazionali ed europee. Si pensi alla Cedu (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) e al relativo articolo 9, comma 1, a mente del quale ogni persona “ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”. Il comma 2 del predetto articolo, poi, prescrive che il diritto di cui sopra non debba essere soggetto a limitazioni a vario titolo e, in particolare,“non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui”.

Si segnala, ancora, che anche nell’ambito della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/C 364/01) viene ripreso – in maniera sostanzialmente acritica – quanto disposto dall’art. 9, Cedu. Nello specifico, l’art. 10 della Carta prevede, appunto, espressamente che “ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti”.

Orbene, ancora in ambito Ue, a tale previsione la Carta aggiunge un generale divieto di discriminazione che comprende, tra gli altri, anche il fattore religioso (art. 21: “è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza… la religione o le convinzioni personali”). Tale norma assume una significativa rilevanza con riferimento al rapporto di lavoro dell’aderente ad una confessione, posto che i possibili atti o provvedimenti ad opera del datore ben possono prestarsi ad assumere il carattere discriminatorio, come si vedrà in seguito. In tal senso, peraltro, si segnala, altresì, la Direttiva 2000/78/Ce del 27 novembre 2000 che, nel configurare “un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro” e con la finalità di arginare le possibili discriminazioni, fornisce anche un’utile ricognizione delle relative – e possibili – forme, prescrivendo, in particolare che:

• può parlarsi di discriminazione diretta, ogniqualvolta “sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1” (tra cui, appunto, l’appartenenza religiosa del dipendente) una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga (art. 2, par. 2, lett. a);

• si ha, invece, discriminazione indiretta se un atto, in astratto, risulta idoneo a mettere “in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione” (art. 2, par. 2, lett. b).

Da ultimo, può notarsi come, in linea generale, l’approccio pluralistico dell’Ue sia ricavabile, altresì, dall’ulteriore previsione ex art. 22 della Carta (“l’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica”).

Simboli religiosi nei luoghi di lavoro

Premesso il quadro richiamato, risulta utile, in primo luogo, porre l’accento sulla tematica che maggiormente si presta (e si è prestata negli anni) ad essere oggetto di dibattito con riferimento al tema che interessa, in un’ottica di bilanciamento tra le esigenze datoriali e la tutela della libertà religiosa del lavoratore. Trattasi, nello specifico, della sussistenza o meno del diritto di esprimere la propria appartenenza per mezzo di simboli religiosi sul luogo di lavoro e, per converso, della possibilità o meno per il datore di inibire l’utilizzo di tali segni distintivi.

La particolare delicatezza della questione – su cui, a più riprese sono intervenute le corti sovranazionali risiede nella natura sostanzialmente sui generis del luogo di lavoro che, di fatto, si connota per rappresentare una sorta di via intermedia tra spazio privato e spazio pubblico. Ebbene, in proposito occorre osservare che, in linea di principio, non esiste una soluzione univoca. La legittimità della scelta di introdurre un divieto in tal senso (ovvero di comminare qualsivoglia provvedimento in ragione dell’appartenenza ad una confessione manifestata tramite simboli) da parte del datore di lavoro va valutata, in concreto, caso per caso. Rappresenta, al riguardo, una pratica indubbiamente discriminatoria (e, quindi, illegittima) quella per cui, nell’ambito del rapporto e con riferimento a più lavoratori, il datore preveda un divieto limitatamente ad una particolare confessione (diversamente dalle altre) e la scelta non sia sorretta da un obiettivo legittimo ovvero sia sproporzionata rispetto a quest’ultimo.

Così, a titolo meramente esemplificativo, con sentenza 15 gennaio 2013 (causa Eweida vs. UK) la Corte europea dei diritti dell’uomo (IV Sezione) si è espressa in merito alla controversia relativa alla hostess di una compagnia aerea cui era stato comminato un licenziamento poiché la stessa indossava (in maniera visibile) una catenina con il crocifisso durante lo svolgimento dell’attività lavorativa. L’azienda aveva, infatti, precedentemente adottato un c.d. dress code, con divieto di indossare gioielli ed esibire simboli religiosi. In detta circostanza, la Corte ha ritenuto leso il diritto della lavoratrice a manifestare il proprio credo religioso. Infatti, ancorché sussista un interesse del datore di lavoro a tutelare la propria immagine e il proprio marchio tramite l’imposizione di un’uniforme di servizio, la sentenza ha operato un bilanciamento tra tale esigenza e il diritto della hostess, rilevando la discriminatorietà della scelta datoriale, in quanto la stessa compagnia aveva in precedenza concesso l’“adattamento dell’uniforme di servizio per impiegati di altre fedi religiose, ovvero a personale di religione Sikh di indossare il turbante o personale femminile di religione islamica di indossare il velo o hijab, senza che questo avesse avuto un impatto negativo sull’immagine della compagnia”. Più recentemente, invece, la Corte di Giustizia Ue (Grande sezione) è pervenuta a conclusioni differenti con sentenza del 14 marzo 2017 (causa C-157/15), attribuendo prevalenza agli interessi economici dell’imprenditore. Il giudice europeo, nello specifico, era chiamato ad esprimersi in merito alla legittimità della scelta datoriale (e della normativa interna del Belgio che ne garantiva la liceità) di un’impresa privata, la cui attività consisteva nella fornitura di servizi di ricevimento e accoglienza ai clienti. L’azienda, in particolar modo, dapprima aveva adottato una prassi (non cristallizzata in provvedimenti o regolamenti) che inibiva ai lavoratori di indossare – durante l’esecuzione della prestazione – segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche e religiose e, in seguito all’intenzione manifestata da una dipendente di indossare in futuro il velo islamico, aveva immediatamente provveduto ad inserire il divieto di cui sopra nel proprio regolamento interno e, conseguentemente, a licenziare la lavoratrice musulmana. Orbene, all’esito dell’instaurazione di un contenzioso innanzi all’Autorità giudiziaria belga, proseguito sino in Cassazione, il giudice di ultima istanza aveva ritenuto opportuna una sospensione del procedimento per proporre alla Corte di Strasburgo la seguente questione pregiudiziale: “se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della Direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che il divieto per una donna musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro non configura una discriminazione diretta qualora la regola vigente presso il datore di lavoro vieti a tutti i dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni esteriori di convinzioni politiche, filosofiche e religiose”. Investita della questione, la Corte ha avuto modo, in primo luogo, di affermare che, nella definizione di “religione”, debba rientrare non soltanto la mera circostanza di avere delle convinzioni, bensì anche “la manifestazione pubblica della fede religiosa”.

Ciò premesso, lo stesso giudice ha escluso che dal comportamento datoriale potesse configurarsi una discriminazione in forma diretta, posto che il divieto di indossare simboli religiosi riguardava qualsiasi manifestazione di convinzioni e si prestava, quindi, a trattare “in maniera identica tutti i dipendenti dell’impresa”, nell’ottica di un’indiscriminata neutralità. Allo stesso tempo, sono stati, altresì, negati eventuali profili di discriminazione indiretta. Infatti, continua il giudice europeo, la volontà di un datore di lavoro “di dare ai clienti un’immagine di neutralità” rientra nella libertà di impresa e integra il requisito dell’esistenza di una finalità legittima, ancorché – entro certi limiti – si dia luogo ad una restrizione della libertà di religione. Ciò vale, tuttavia, purché la scelta coinvolga soltanto i lavoratori “che si suppone entrino in contatto con i clienti” del datore, nonché a condizione che la politica di neutralità sia “realmente perseguita in modo coerente e sistematico”.

Approccio dell’ordinamento italiano: la sentenza n. 3416/2016

Come anticipato, l’approccio adottato dall’ordinamento italiano nei confronti della libertà religiosa e, in generale, dell’appartenenza alle varie confessioni dei cittadini, può definirsi alquanto garantista. Infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale, posto che il concetto di “laicità” si presta ad assumere svariate forme a seconda della sua esplicazione concreta, va detto che esso non implica una generale “indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni”, ma – a differenza, come detto, dell’ordinamento francese in cui, di fatto, “laicità” coincide con “assoluta neutralità dello spazio pubblico” – comporta una vera e propria “garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (vedasi Corte costituzionale, sentenza n. 203/1989). Tra i risvolti concreti di una simile ottica, rientra, senz’altro, la necessità di riconoscere le confessioni religiose nella loro diversità, apprestando strumenti differenziati a seconda delle esigenze richieste dalle stesse. Ciò comporta, tra gli altri, che il datore di lavoro non può, in linea generale (e sempre nell’ottica di un corretto bilanciamento con le proprie esigenze economico-produttive), non tener conto delle specifiche istanze dei dipendenti in ragione della fede cui aderiscano. Rappresenta, in questo senso, un autorevole esempio, la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, n. 3416 del 22 febbraio 2016.

Nel caso di specie, il giudice di legittimità era chiamato a pronunciarsi in merito alla legittimità delle sanzioni disciplinari comminate ad un lavoratore di fede cattolica, il quale si era più volte astenuto dal rendere la prestazione lavorativa durante il turno domenicale di lavoro e aveva, successivamente, compensato (autonomamente e senza autorizzazione) tali assenze, presentandosi al lavoro durante il giorno di riposo settimanale. Orbene, senza spingersi sino ad affermare la legittimità dell’astensione da parte del lavoratore, che costituisce, in ogni caso, un inadempimento del contratto, la Corte ha, tuttavia, avuto modo di prendere in considerazione la “religiosità” del soggetto nell’ambito della valutazione sulla proporzionalità della sanzione. Invero, a dire del supremo giudice, non può considerarsi soltanto “l’illiceità in senso oggettivo della condotta”, ma anche l’intensità o la tenuità dell’“elemento psicologico del lavoratore”. La Corte ha confermato, nella controversia in esame, la sproporzione delle sanzioni come deciso dai giudici di merito, tenendo adeguatamente conto anche del fatto che il dipendente avesse inteso esercitare il proprio “diritto di culto”, nonché della circostanza per la quale lo stesso avesse preventivamente – e senza successo – formulato una richiesta individuale di “non assegnazione a turni domenicali per motivi religiosi”.

Licenziamento discriminatorio per motivi religiosi e conseguenze

Come è noto, lo Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) prevede espressamente, all’art. 15, la sanzione dell’assoluta nullità di qualsiasi atto o patto diretto a “licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti… a causa della sua affiliazione o attività sindacale”. Ebbene, in forza dell’intervento legislativo di cui all’art. 4, comma 1, D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216 (che ha aggiunto un ulteriore comma all’articolo citato), la stessa sanzione si applica, altresì, “ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”.

Occorre, con ciò, interrogarsi su quale sia il regime di tutela applicabile nel caso in cui il giudice accerti la discriminatorietà del recesso comminato in ragione dell’appartenenza religiosa del lavoratore. In tal senso, viene in rilievo l’art. 3, legge 11 maggio 1990, n. 108, a mente del quale è prescritto che il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie è nullo “indipendentemente dalla motivazione addotta e comporta, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le conseguenze prescritte” dall’articolo 18, Statuto dei lavoratori. Rispetto a tali conseguenze, si segnala che, con la sentenza con la quale il giudice accerti la discriminatorietà (e la nullità) del provvedimento espulsivo, questi ordina al datore “la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro”, a prescindere, appunto, dai motivi addotti e dai requisiti dimensionali dell’impresa, oltre a condannarlo al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del recesso all’effettiva reintegra, non “inferiore a cinque mensilità”.

Licenziamento “ideologico” nelle organizzazioni di tendenza

Merita, da ultima, di essere trattata la peculiare ipotesi delle c.d. organizzazioni di tendenza e delle regole particolari che disciplinano il licenziamento nell’ambito delle stesse. Il tema, infatti, è stato a più riprese affrontato, sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina giuslavoristica, con conclusioni non sempre univoche. Come è noto, per “organizzazione di tendenza” si intende qualsivoglia ente che abbia natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto,nell’ambito del quale vengano offerti servizi a vario titolo esclusivamente agli iscritti alla categoria tutelata dall’organizzazione stessa (cfr., ex multis, Cassazione, sentenza n. 13721/2001). L’ipotesi “classica”, con riferimento alla natura religiosa, è rappresentata dagli istituti scolastici privati o paritari gestiti da enti ecclesiastici.

Ebbene, può dirsi che, in materia di organizzazioni di tendenza, la disciplina della discriminatorietà dei licenziamenti subisce una significativa mitigazione. Si è da tempo argomentato che un recesso da parte dell’ente sia discriminatorio soltanto se il motivo di discriminazione sia estraneo all’ideologia di cui lo stesso si faccia portatore. Invero, a norma del D.Lgs. n. 216/2003, non costituiscono atti discriminatori:

• quelle differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione qualora, “per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività medesima” (art. 3, comma 2);

• le differenze di trattamento basate sulla professione di una determinata religione, qualora tale religione, “per la natura delle attività professionali” svolte da detti enti o organizzazioni o per il contesto in cui esse siano espletate, costituisca un requisito “essenziale, legittimo e giustificato ai fini dello svolgimento delle medesime attività” (art. 3, comma 5).

In altri termini, sussiste la piena legittimità di un licenziamento (o altro provvedimento) fondato su motivi ideologici (si pensi al caso del dipendente di un ente cattolico che decida di cambiare religione o di farsi portatore di idee contrastanti con i principi religiosi dello stesso), proprio in ragione della peculiarità dell’organizzazione, la quale gode del diritto di esigere dai propri dipendenti un atteggiamento in linea con le proprie convinzioni.

A ben vedere, il principale contrasto interpretativo che negli anni è emerso con particolare insistenza, riguarda le tipologie di lavoratori cui applicare la disciplina speciale di cui sopra. Ci si è chiesti, nello specifico, se la legittimità del licenziamento ideologico debba riguardare la totalità dei lavoratori alle dipendenze dell’organizzazione (al netto delle relative mansioni) ovvero sia, a tal fine, necessario che le mansioni espletate dal dipendente siano ideologicamente qualificate. Secondo un primo orientamento, sarebbe legittimo (e non discriminatorio) il recesso per motivi ideologici comminato a qualsivoglia lavoratore dell’ente “senza possibilità di distinguere tra dipendenti che svolgono mansioni ‘neutre’ e quello che invece espletano mansioni connesse all’ideologia dell’organizzazione di tendenza” (in questo senso, si cita Cassazione, sentenza n. 9237 del 16 settembre 1998). Altre pronunce, invece, hanno abbracciato una nozione del tutto restrittiva di “mansione di tendenza”, escludendo la discriminatorietà del recesso soltanto ove l’adesione ideologica del soggetto sia requisito essenziale della prestazione.

Quanto sopra è agevolmente individuabile nell’ambito dell’assai discussa pronuncia n. 5832 del 16 giugno 1994 della Suprema Corte. Nel caso di specie, il supremo collegio era chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento espulsivo comminato ad un docente di educazione fisica, alle dipendenze di un istituto scolastico cattolico, il quale aveva contratto matrimonio con rito civile. La scuola aveva motivato il licenziamento sulla base del contrasto di tale scelta con l’indirizzo educativo dalla stessa abbracciato. Investita della questione, la Corte ha avuto modo di affermare che “il licenziamento ideologico, collegato cioè all’esercizio, da parte del prestatore di lavoro, di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di opinione, la libertà di religione e, nel campo scolastico la libertà di insegnamento, è lecito negli stretti limiti in cui esso sia funzionale a consentire l’esercizio di altri diritti costituzionalmente garantiti”, con ciò escludendosi un eccessivo sacrificio di coloro i quali svolgano mansioni neutre. Pertanto, continua il giudice di legittimità, con specifico riferimento alle scuole a tendenza confessionale, l’esigenza di tutela di detta tendenza “si pone solo in relazione a quegli insegnamenti” che la caratterizzano, cosicché se la materia insegnata “prescinde completamente dall’orientamento ideologico del docente ed è indifferente rispetto alla tendenza della scuola”, il licenziamento non può che ritenersi affetto da illegittimità (cfr., ancora, Cass. n. 5832/1994). Quest’ultimo approccio parrebbe potersi definire preferibile, sia perché tendenzialmente in linea con il dato testuale della normativa, sia in quanto maggiormente incline ad una valorizzazione di altri principi costituzionalmente rilevanti.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA