Con la recente sentenza n. 1398 del 4 giugno 2019, il Tribunale di Milano (sezione Lavoro) è intervenuto in tema di licenziamento per giustificato motivo soggettivo del lavoratore, comminato in seguito all’assenza ingiustificata dal servizio.

Come è noto, tale specifica ipotesi di recesso riguarda tutti i casi in cui il prestatore di lavoro ponga in essere comportamenti sì rilevanti a livello disciplinare e idonei ad incidere in maniera insanabile sul regolare prosieguo del rapporto, ma non contraddistinti da gravità tale da integrare i presupposti della giusta causa di licenziamento di cui all’art. 2119 del Codice civile (“…qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”). In altri termini, si tratta sempre di un notevole inadempimento contrattuale e, nello specifico, “di entità tale da poter scuotere la fiducia del datore di lavoro” (cfr. Cassazione, sentenza n. 14551 del 2000), che, tuttavia, sia “di per sé capace di consentire la prosecuzione del rapporto” (vedasi, in tal senso, Cassazione, sentenza n. 21 del 2016, sentenza n. 12884 del 2014, sentenza n. 28 del 2003, nonché sentenza n. 6889 del 2002) e che si traduce, quanto a conseguenze giuridiche, nel diritto del lavoratore ad un periodo di preavviso ovvero alla corresponsione di un’indennità sostitutiva di tale preavviso .

Orbene, nel caso oggetto di controversia, un lavoratore ricorreva innanzi al Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, per veder accertata l’illegittimità del recesso per giustificato motivo soggettivo, comminatogli dalla società datrice di lavoro, MM S.p.A., in considerazione dell’assenza ingiustificata dello stesso dal posto di lavoro prolungatasi per 26 giorni. A dire della difesa del ricorrente (peraltro recidivo), questi avrebbe fornito idonee giustificazione per almeno tre delle giornate di assenza contestate, cosicché avrebbe dovuto ritenersi insussistente il requisito della consecutività dei giorni trascorsi lontano dal luogo di lavoro individuato contrattualmente dalle parti sociali. Occorre, infatti, segnalare che, da una lettura del contratto collettivo applicato dall’azienda e, segnatamente, dell’articolo 60, comma, lett. c) del CCNL Federcasa, emerge che, tra le varie ipotesi, “…la sanzione disciplinare del licenziamento con preavviso si applica per… assenza ingiustificata ed arbitraria dal lavoro per un periodo superiore a 10 giorni consecutivi lavorativi”, talché – ancora una volta stando ai rilievi del ricorrente – dall’asserita assenza di consecutività sarebbe dipesa una totale insussistenza del fatto materiale contestato.

Investito della questione, il giudice di merito ha avuto, in primo luogo, modo di negare il pregio delle pretese giustificazioni rese dal lavoratore in merito a talune delle giornate oggetto di contestazione, posto che non risultava in alcun modo dimostrato il corretto esperimento, da parte del dipendente, delle procedure interne – introdotte in via di prassi – di comunicazione delle assenze ai superiori.

In ogni caso, stando alla sentenza in oggetto, quand’anche il ricorrente avesse fornito prova dell’effettuazione delle comunicazioni interne e, quindi si fosse voluto “ritenere giustificata l’assenza per i tre giorni” e “correlativamente insussistente il presupposto della consecutività dei giorni di assenza”, il licenziamento sarebbe stato parimenti legittimo, in ragione della recidività del comportamento assunto dal dipendente. Questi, infatti, con il proprio ripetuto agire avrebbe confermato di “essere aduso ad una grave inosservanza dei doveri di fedeltà tipici del prestatore di lavoro, certamente causativi della recisione del vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro”.

A tali premesse è conseguito il rigetto dell’impugnazione promossa dal dipendente e, quindi, la mancata applicazione di una tutela in suo favore. Si segnala, a tal proposito, che in considerazione della data di sottoscrizione del contratto di lavoro  (1 giugno 2015), la fattispecie de quo rientrava nell’ambito di applicazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al Decreto Legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. Jobs act) e, con ciò, la richiesta di reintegrazione formulata dal ricorrente avrebbe trovato accoglimento esclusivamente in caso di diretta dimostrazione dell’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (vedasi, in tal senso, art. 3, comma 2 del D.Lgs. 23/2015) e non anche, eventualmente, in caso di accertamento della sproporzione della sanzione.