Per mezzo della sentenza n. 4223 del 2018 la Suprema Corte di Cassazione è intervenuta in tema di lavoro intermittente, così come disciplinato dal D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, richiamando, in particolare, i rilievi mossi dalla Corte di Giustizia europea in merito alla pretesa discriminatorietà della disposizione.
Nello specifico, un giovane lavoratore alle dipendenze di una nota società ricorreva avverso il licenziamento allo stesso comminato in ragione del raggiungimento del venticinquesimo anno di età, o meglio, della cessazione automatica del rapporto registratasi in forza di tale presupposto. Invero, il dipendente era stato assunto ai sensi dell’art. 34 della predetta norma e, quindi, con un contratto di lavoro intermittente a tempo determinato. Occorre preliminarmente rilevare come, in forza di tale articolo, sia concesso al datore di lavoro di assumere “per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente” e secondo specifiche esigenze predeterminate dalla contrattazione collettiva nazionale e territoriale, dipendenti con contratto, appunto, di lavoro intermittente. La predetta possibilità è, altresì, ammessa senza particolari limitazioni ovela prestazione lavorativa sia resa da un soggetto che si ritrovi “in stato di disoccupazione” e “con meno di 25 anni di età” (art. 34, comma 2, D.Lgs. n. 276/2003).
Ebbene, nei primi due gradi di giudizio, l’Autorità Giudiziaria aveva accertato l’illegittimità sia del contratto di lavoro stipulato nelle modalità di cui sopra, sia, conseguentemente, del recesso intimato dal datore di lavoro. Si sarebbe registrata, a dire dei giudici di merito, una violazione del principio di non discriminazione di matrice europea (si veda, in questo senso, l’art. 6 comma 1 della Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000, c.d. “Direttiva Quadro”, nonché l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) che vieta, tra le altre, discriminazioni in ambito lavorativo basate sull’età del lavoratore. A tale premessa erano conseguite la conversione del rapporto di lavoro in un contratto subordinato a tempo indeterminato, la reintegrazione del soggetto nel posto di lavoro, nonché la condanna in suo favore di un risarcimento dei danni patiti.
Orbene, riformando le decisioni dei giudici di prime cure e recependo buona parte delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza europea, (in particolare, si legga la pronuncia della Corte di Giustizia Europea nella causa C-143/16 del 19 luglio 2017) la Suprema Corte ha affermato la legittimità del contratto stipulato e del conseguente licenziamento al compimento dell’età in oggettoe ha colto l’occasione per fornire spunti interessanti atti a legittimare la scelta del legislatore di attuare detta “disparità” di trattamento. In particolare, per quanto sia da ritenersi sussistente un’effettiva sperequazione, ciò non toglie, a dire della Corte, che tale opzione sia “coperta” da una finalità legittima e, quindi, “oggettivamente e ragionevolmente giustificata”. Infatti, il Legislatore italiano avrebbe inteso perseguire specifici obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, approntando mezzi, quale la disposizione di cui all’art. 34 del D.Lgs. 276/2003, “appropriati e necessari”, esercitando, peraltro, il proprio ampio margine di discrezionalità offerto dall’ordinamento europeo nella definizione delle misure di cui sopra.
La norma si presterebbe, seppur nell’ottica di un’inevitabile instabilità della propria posizione, a riconoscere ai giovani tra i 15 e i 25 anni una prima possibilità di accedere al mercato del lavoro e, utilizzando le espressioni della Corte, “una prima esperienza che possa successivamente metterli in una situazione di vantaggio concorrenziale sul mercato del lavoro”. Ciò varrebbe, in particolare, in virtù del rilievo che la generazione in una simile fascia di età costituisca una “delle categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale”. Allo stesso modo, le aziende sarebbero incentivate all’assunzione, potendo godere di uno strumento contrattuale “poco vincolante e meno costoso” rispetto all’ordinario contratto di lavoro e, quindi, del tutto idoneo ad “assorbire maggiormente la domanda di impiego proveniente da giovani lavoratori”.
In definitiva, la bontà della scelta legislativa in oggetto – e con essa, la relativa non discriminatorietà -, continua la Cassazione, risulta confermata dall’ulteriore previsione di cui all’art. 38 del D.Lgs. 276/2003 che impone al datore di lavoro, nell’ambito delle assunzioni effettuate con la tipologia contrattuale del lavoro intermittente, di garantire al giovane dipendente un trattamento economico che, a parità di mansioni svolte, non sia complessivamente meno favorevole “rispetto al lavoratore di pari livello” con contratto “canonico”.