La circostanza per la quale il lavoratore si renda protagonista dell’utilizzo di espressioni diffamatorie nei confronti del proprio datore di lavoro ovvero superiore gerarchico si presta astrattamente – e senza dubbio alcuno – a costituire una possibile giusta causa di licenziamento. Infatti, un comportamento atto a denigrare l’immagine e il ruolo del titolare risulta, in linea generale, idoneo a lederne irrimediabilmente la fiducia e a costituire un “inadempimento talmente grave” da rendere qualsivoglia altra sanzione del tutto “insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro” (detta definizione di “giusta causa” è rinvenibile, tra le altre, in Cassazione, sentenza n. 11516 del 24 luglio 2003).

Ciò premesso, tale assunto trova delle precise e consistenti deroghe in ragione del necessario bilanciamento da operarsi con riferimento ad altri principi rilevanti per l’ordinamento italiano. In questo senso, a ben vedere, vengono in rilievo, ai fini di una valutazione da effettuare sulla base del caso concreto, ulteriori elementi strettamente legati alle modalità con cui la richiamata condotta viene posta in essere. Con la recente pronuncia n. 21965 del 10 settembre 2018 la Suprema Corte, intervenendo sul tema in oggetto, ha avuto modo di offrire una ricognizione puntuale ed esaustiva dei principali limiti (previsti a vari livelli nell’ordinamento) alla licenziabilità del lavoratore che insulti il proprio superiore.

In primo luogo, giova sottolineare che, con l’evoluzione tecnologica e l’incremento esponenziale dell’utilizzo dei social media da parte della generalità dei consociati, se, da un lato, si pone una pregnante esigenza di tutela inerente le potenziali vittime di attacchi, minacce, insulti e offese a vario titolo (qual è, nel caso che interessa, il datore di lavoro), dall’altro non può infirmarsi la necessaria garanzia di segretezza delle comunicazioni
prevista esplicitamente nel dettato costituzionale. Allo stesso tempo – e a prescindere dalle modalità di realizzazione e dagli strumenti effettivamente utilizzati – non può ritenersi sussistente in capo al dipendente un dovere assoluto di astensione dal muovere qualsivoglia rilievo o censura relativa ai comportamenti del proprio superiore. Come si dirà in seguito, infatti, in favore del lavoratore è riconosciuto un generale diritto di critica, il cui corretto esercizio – non privo di rilevanti limiti – dev’essere oggetto di un’adeguata valutazione ancorata al caso concreto in sede giurisdizionale. Ebbene, la sentenza in commento si segnala per l’apprezzabile chiarezza con la quale affronta i due profili sopra richiamati e che, in questa sede, giova esaminare distintamente.

Nel caso oggetto di controversia, in particolare, una guardia giurata alle dipendenze di una società (nell’ambito della quale, peraltro, rivestiva la carica di rappresentante sindacale) aveva attribuito una serie di inopportuni appellativi all’amministratore delegato della stessa all’interno di un gruppo di un noto social network aperto con i colleghi sindacalisti. La società era venuta a conoscenza dell’episodio in ragione di una segnalazione anonima, effettuata con la trasmissione della stampa della schermata in oggetto e aveva, con ciò, optato per l’irrogazione della massima sanzione, poi impugnata dal soggetto in questione. Orbene, nell’ambito del giudizio di appello, la Corte di secondo grado aveva dichiarato l’illegittimità dell’allontanamento, attribuendo un’assoluta rilevanza, in particolar modo, al diritto di critica ed evidenziando, nello specifico, che le espressioni utilizzate dal lavoratore dovessero intendersi quali “coloriture, ormai entrate nel linguaggio comune, tese a rafforzare il dissenso dai metodi” del superiore e fosse conseguentemente necessario negare che “la libertà di critica e, ancor prima, di opinione, possa essere esercitata solo manifestando idee favorevoli o inoffensive o indifferenti” (si legga, in questo senso, Corte d’Appello di Lecce, sentenza 18 maggio 2016, n. 73).

Diffamazione, ingiuria e giusta causa

Occorre preliminarmente rilevare come, analizzando taluni dei precedenti del giudice di legittimità, ove dal comportamento del lavoratore siano effettivamente accertati gli estremi della diffamazione ovvero dell’ingiuria – al netto delle ulteriori e diverse conseguenze giuridiche – può dirsi certamente individuabile un inadempimento grave degli obblighi contrattuali che renda del tutto proporzionata la comminazione della massima sanzione.

Come è noto, una definizione legislativa dei concetti di “diffamazione” e “ingiuria” cui riferirsi per identificare le condotte affette da illiceità è rinvenibile in materia penale e, in particolare, a norma dell’art. 595, Codice penale è punito chiunque “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione” (diffamazione) e, ai sensi dell’ormai abrogato art. 594 c.p., l’ingiuria veniva ricondotta ad un’offesa dell’onore o del decoro di una persona (presente all’atto della condotta). Ebbene, con specifico riferimento a quest’ultima, la Suprema Corte ha avuto modo di fornire un’interpretazione strettamente legata al rapporto di lavoro, riconducendola al concetto di insubordinazione. Infatti, con sentenza n. 9635 dell’11 maggio 2016, lo stesso giudice ha ribadito come detta nozione non possa ritenersi “limitata al rifiuto di adempiere alle disposizioni impartite dai superiori”, ma debba, invece, estendersi a “qualsiasi altro comportamento atto a pregiudicarne l’esecuzione nel quadro dell’organizzazione aziendale”; e, quindi, una critica che si caratterizzi in senso ingiurioso e lesivo per il superiore, “oltre a contravvenire alle esigenze di tutela della persona umana di cui all’art. 2 Cost.” può essere “di per sé suscettibile di arrecare pregiudizio all’organizzazione aziendale”. Di fronte ad un’ingiuria, infatti, l’efficienza dell’azienda sarebbe posta in serio pericolo, posto che, a dire della Corte, la stessa “riposa in ultima analisi sull’autorevolezza di cui godono i suoi dirigenti” e tale autorevolezza “non può non risentire un pregiudizio” (vedasi, ancora, Cassazione, sentenza n. 9635 dell’11 maggio 2016) laddove il lavoratore attribuisca loro qualità manifestamente disonorevoli.

Risulta, ad ogni modo, necessaria ai fini di cui sopra – e come anticipato – una compiuta analisi del caso concreto e, altresì, di vari aspetti inerenti la figura del lavoratore e il grado di serietà nell’esecuzione della prestazione dello stesso nel corso di tutto il rapporto. In tal senso, si segnala a titolo meramente esemplificativo la sentenza n. 3042 dell’8 febbraio 2011, per mezzo della quale il giudice di legittimità, seppur innanzi all’utilizzo di espressioni irriguardose e potenzialmente lesive verso il proprio dirigente da parte di una dipendente, ha negato la bontà del recesso per giusta causa comminatole (in quanto sproporzionato), in ragione dell’assenza di precedenti analoghi in tutta la carriera professionale della donna e, quindi, del carattere episodico della condotta.

Quanto alla diffamazione – nel cui ambito, occorre ribadire, si registra l’assenza della persona oggetto dell’offesa e la presenza di altri soggetti giova richiamare, a titolo ancora una volta esemplificativo, la pronuncia n. 10280 del 27 aprile 2018, con cui la Suprema Corte ha affermato la legittimità del recesso intimato ad un lavoratore che, utilizzando lo stesso social network di cui alla sentenza in commento (ma all’interno della propria bacheca pubblica e non in un gruppo ristretto) aveva manifestato il proprio disprezzo per l’azienda, pur senza riferirsi a persone determinate. “La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook”, ha affermato in tale occasione lo stesso giudice, “integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone”, peraltro “apprezzabile per composizione numerica” e, come tale, valutabile in termini di giusta causa di licenziamento.

Segretezza delle comunicazioni

Passando all’esame della pronuncia su cui, in questa sede, si intende porre l’accento (Cass. n. 21965/2018), occorre in primo luogo rilevare come, investita della questione, la Suprema Corte abbia dichiarato l’illegittimità del provvedimento espulsivo. Orbene, tra le motivazioni fondanti la decisione, un assoluto rilievo è attribuito al principio di segretezza delle comunicazioni. A ben vedere, infatti, un aspetto dirimente preso in considerazione in sede di giudizio è stata la circostanza per la quale le frasi “incriminate” siano circolate, appunto, all’interno di un gruppo ristretto di persone (con i rispettivi account) e, segnatamente, del lavoratore e degli altri rappresentanti sindacali afferenti ad un’associazione.

Invero, la Costituzione italiana, nell’ambito del proprio articolo 15, afferma che “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per un atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge…”. Detta tutela risulta, per di più, accentuata se si considera che, con sentenza n. 81 del 1993, la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che la riservatezza tutelata dall’art. 15 – oltre che a riguardare la segretezza del contenuto – si estende, altresì, “all’identità dei soggetti e ai riferimenti di tempo e luogo della comunicazione stessa”.

Orbene, appare estremamente evidente che, alla data di stesura della Carta, i costituenti non avessero avuto modo di prevedere la misura del futuro sviluppo tecnologico e dell’evoluzione degli strumenti e dei sistemi di comunicazione, cosicché la generica disposizione di cui all’art. 15 dev’essere oggetto di adattamento al contesto attuale e interpretata in senso estensivo. In questo senso, occorre prestare particolare attenzione alla formula aperta adottata dal costituente: “e di ogni altra forma di comunicazione”, che consente all’interprete di applicare il principio anche alle nuove tecnologie.

Quali devono essere, dunque, gli effettivi strumenti di comunicazione da ritenere “coperti” dalla richiamata garanzia di segretezza?

In primo luogo, giova prendere in considerazione, quale elemento fondamentale di valutazione, la personalità della comunicazione, ossia la “predeterminazione dei destinatari” (vedasi, in tal senso, Tribunale di Milano, sentenza n. 66631/02 del 5 giugno 2007), siano essi una pluralità ovvero un singolo soggetto. Parimenti, un ulteriore e decisivo aspetto è rappresentato dall’idoneità di per sé dello strumento di comunicazione a garantire la segretezza del relativo contenuto e, nello specifico, deve trattarsi di strumenti “tipicamente preordinati a realizzare comunicazioni interpersonali e non a diffondere messaggi alla generalità” (cfr., a tal proposito, Corte costituzionale, sentenza n. 1030 del 15 novembre 1988). Ciò vale, peraltro, a prescindere dal relativo grado di sicurezza; il fatto che la comunicazione possa anche agevolmente (si pensi ad un mero screenshot di una conversazione privata) essere “per ragioni tecniche, captabile da terzi … non giova a mutarne l’essenziale destinazione” (vedasi, ancora, Corte costituzionale, op. cit.).

Ebbene, in considerazione di tali aspetti, possono dirsi certamente ricompresi nella garanzia di segretezza ex art. 15 Cost. le e-mail personali (ivi comprese quelle trasmesse nell’ambito delle c.d. mailing list, poiché i destinatari, seppur numerosi, risultano predeterminati), i messaggi privati trasmessi via telefono cellulare (sms) e, allo stesso tempo, le chat e conversazioni personali nei social network. In questo senso, nel caso oggetto di controversia, gli insulti nei confronti del dirigente dell’azienda avevano avuto luogo, come detto, non in una chat, bensì in un gruppo ristretto di account, di cui non può in alcun modo porsi in discussione né la presenza di destinatari predeterminati, né l’idoneità a garantire la citata segretezza. E, infatti, esprimendosi sulla questione, la Suprema Corte ha correttamente affermato che “i messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto nelle chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa e inviolabile”.

A tale premessa, consegue una logica illiceità – integrante talune fattispecie delittuose – di qualsivoglia atto finalizzato a violarne o rivelarne il contenuto da parte di estranei. Il lavoratore in oggetto, nello specifico, non aveva fatto altro che avvalersi della libertà, “costituzionalmente garantita”, di comunicare riservatamente (e da ciò dipende un’assoluta inutilizzabilità in giudizio) opinioni nell’ambito di una conversazione del cui contenuto il datore – per mano di un anonimo – è entrato in possesso. Peraltro, la circostanza per la quale le critiche e gli insulti fossero rinvenibili nell’ambito di una conversazione riservata assume altrettanto rilievo per un secondo ordine di ragioni. Infatti, come osservato dalla stessa Cassazione, quanto sopra esclude del tutto – perché logicamente incompatibile – la ravvisabilità dei profili della diffamazione, posto che, come già argomentato, la condotta diffamatoria “presuppone la destinazione delle comunicazioni alla divulgazione nell’ambiente sociale”.

Nel caso di specie, i lavoratori avevano escluso la possibilità che “quanto detto in quella sede potesse essere veicolato all’esterno”, con ciò escludendosi “qualsiasi intento o idonea modalità di diffusione denigratoria”. Appare quasi superfluo osservare che i limiti di cui sopra non possono dirsi in alcun modo sussistenti, nel caso in cui, a mezzo social network, le eventuali offese vengano trasmesse ad una generalità di soggetti con appositi post o condivisioni ad altro titolo (vedasi la già richiamata Cassazione, sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018).

Diritto di critica

Come anticipato, in materia di ingiurie e frasi diffamatorie nei confronti del datore di lavoro al netto di quanto già ampiamente rilevato in merito alla segretezza della corrispondenza e alle modalità e strumenti utilizzati – a venire in rilievo è, altresì, il tema del diritto di critica del lavoratore, il cui corretto esercizio, a seconda delle circostanze, può portare ad affermare l’illegittimità dei provvedimenti espulsivi.

Con particolare riferimento all’ordinanza in commento, i giudici di legittimità hanno ritenuto l’elemento della segretezza della conversazione “incriminata” assorbente rispetto all’ulteriore analisi circa l’esercizio del diritto di critica e senza, quindi, esprimersi sull’eventualità che gli insulti al superiore potessero ascriversi al diritto richiamato e, nello specifico, al diritto di critica sindacale. Appare, in ogni caso, utile richiamarne gli elementi fondamentali e l’interpretazione giurisprudenziale in materia.

Si rileva, in primo luogo, che se, da un lato, l’art. 21 della Carta costituzionale consente a chiunque – e in linea generale – “di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto o ogni altro mezzo di diffusione” e la sussistenza dello stesso diritto è stata ribadita anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (25 maggio 1993, Serie A n. 260-A) e, altresì, nell ’art. 1 del c.d. Statuto dei lavoratori, dall’altro occorre operare un attento bilanciamento con altri principi rilevanti nell’ambito dell’ordinamento. Ebbene, in tal senso – e con specifico riguardo al rapporto di lavoro – giova porre in evidenza che, all’art. 2105 Codice civile, è prescritto un obbligo di fedeltà in capo al dipendente che, sulla base della lettera della norma, parrebbe riferito esclusivamente al tema della concorrenza, ma che assume, invero, portata generale. Orbene, trattasi di un bilanciamento che solo un’attenta analisi in sede giurisdizionale è idonea ad operare.

Una delle prime pronunce rilevanti sul tema è rappresentata dalla sentenza n. 1173/1986, per mezzo della quale la Suprema Corte di cassazione aveva avuto modo di attribuire particolare pregnanza al dovere di fedeltà. Esprimendosi sul caso di un lavoratore che aveva mosso pesanti accuse nei confronti del datore e valutandone l’obiettiva idoneità “a ledere l’onore o la reputazione del datore di lavoro”, la Cassazione aveva confermato la bontà del licenziamento alle stesse conseguente, nonostante l’accertamento circa la veridicità dell’oggetto delle accuse. A dire della Corte, infatti, il comportamento del lavoratore integra un’ipotesi di giusta causa di recesso qualora sia imputabile “a titolo di dolo o di colpa” e laddove “non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione”. Negli anni, poi, la stessa giurisprudenza ha individuato – con maggior grado di precisione – dei vincoli definiti all’esercizio del diritto e consistenti, segnatamente, in limiti esterni e in limiti interni. Rispetto ai primi, va detto che, per costante orientamento e come sopra richiamato, la condotta del lavoratore è da ritenersi legittima ove la relativa critica sia finalizzata in concreto alla salvaguardia di un diritto, di un bene ovvero di un interesse che sia, da un lato, giuridicamente riconosciuto e, dall’altro, che goda di dignità pari o superiore rispetto all’interesse del datore alla propria reputazione. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla circostanza per la quale si registrino veri e propri reati, ad opera del titolare, in ambito aziendale. In questo caso, per quanto un’eventuale denuncia effettuata dal dipendente sia a tutti gli effetti idonea a ledere l’immagine, l’onore e la reputazione del datore, l’interesse che il lavoratore intende salvaguardare attiene alla necessaria repressione dei fatti illeciti da parte dell’ordinamento (trattasi di un interesse pubblico superiore) e, quindi, il diritto di critica può ritenersi correttamente esercitato. Numerose sono, peraltro, le pronunce che si sono espresse in tal senso. La Cassazione è persino giunta ad affermare come ciò valga anche nell’ipotesi in cui la denuncia o la segnalazione effettuata dal lavoratore si riveli – al netto di intenti volutamente calunniosi – successivamente infondata (si veda, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 22375 del 26 settembre 2017).

Quanto ai limiti interni, suole riferirsi ai concetti di continenza formale e continenza sostanziale. Nello specifico, si parla di continenza sostanziale per definire la necessaria veridicità ed obiettività di quanto affermato, nella critica, dal lavoratore e di continenza formale con riferimento alle forme linguistiche delle espressioni utilizzate, che devono sempre risultare conformi ai parametri di correttezza e civiltà.

Diritto di critica del rappresentante sindacale

I suesposti limiti alle condotte del lavoratore subiscono una tendenziale mitigazione allorquando lo stesso ricopra funzioni di rappresentanza sindacale. Occorre, in proposito, sottolineare che, ai sensi dell’art. 39 Cost., l’ordinamento riconosce il principio di libertà sindacale. Peraltro, a mente dell’art. 14 del c.d. Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) è prescritto un generale diritto di associazione e di attività sindacale che, nello specifico, comporta la possibilità per “tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro” di “costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale”.

Trattasi di un diritto da cui discendono rilevanti conseguenze. Infatti, al fine di garantire l’effettività della libertà sindacale riconosciuta dalla legge, la giurisprudenza ha da anni operato una differenziazione, a seconda che il lavoratore svolga o meno attività sindacale, nella valutazione circa il corretto (o meno) esercizio del diritto di critica. Al riguardo, giova porre l’accento su una risalente pronuncia del 1995 (Cassazione, sentenza n.
11436 del 3 novembre 1995), per mezzo della quale, per la prima volta, la Suprema Corte si è spinta sino ad affermare che il dipendente sindacalista sia, nello svolgimento delle proprie funzioni, su un piano paritario rispetto al datore di lavoro. In altri termini – e nello specifico – detto lavoratore sarebbe sottoposto a due differenti regimi all’interno dell’azienda: da un lato, quale mero lavoratore subordinato, “è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti” e, dall’altro, in relazione alla propria attività sindacale, si pone “su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione”.

A ben vedere, la tutela costituzionale di cui gode la richiamata attività comporta, tra gli effetti, che la stessa non sia in alcun modo subordinata alla volontà del datore, in quanto appositamente preordinata a tutelare gli “interessi collettivi dei lavoratori”, per l’appunto “contrapposti” a quelli del titolare. Ebbene, in ragione di quanto sopra, al sindacalista è concesso di contestare a vario titolo l’“autorità e la supremazia del datore”, dato che detta attività rappresenta una “caratteristica” tipica “della dialettica sindacale” e non può, in quanto tale, costituire la base giuridica per l’irrogazione di una sanzione disciplinare (vedasi, ancora, Cass. n. 11436/1995). Questi può dunque spingersi sino all’utilizzo di un linguaggio particolarmente “colorito”, servendosi, altresì, della satira senza che la propria condotta sia affetta da illegittimità.

Tuttavia – e da ultimo – si rileva che lo stesso lavoratore sindacalista non può ritenersi libero in senso assoluto di utilizzare qualsivoglia termine o locuzione; il giudice, in un eventuale contenzioso sul punto, è in ogni caso chiamato a valutare, in concreto, se le espressioni utilizzate rappresentino “la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata” in relazione al contesto specifico (cfr., in questo senso, Cassazione, sentenza n. 9743 del 5 luglio 2002).

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA