Può il lavoratore, che abbia rassegnato le proprie dimissioni al datore di lavoro in un momento di particolare turbamento e stress, ottenere l’annullamento delle stesse e pretendere la riammissione in servizio?

A tale interrogativo ha tentato di offrire una risposta la Suprema Corte di Cassazione, per mezzo della recente sentenza n. 30126 del 21 novembre 2018. In particolare, nel caso di specie, un dipendente comunale (in regime di pubblico impiego) aveva rassegnato le proprie dimissioni nell’ambito di un contesto lavorativo da cui era dipesa una profonda insoddisfazione e uno stato di stress. Peraltro, a detta condizione erano, altresì, conseguite talune patologie successivamente accertate. A dire dei giudici di merito, sulla base delle prime pronunce, l’atto del ricorrente non sarebbe risultato annullabile, posto che, in assenza di denunce relative a possibili comportamenti datoriali mobbizzanti o – in ogni caso – illegittimi, la scelta di recedere dal rapporto di lavoro operata dal lavoratore avrebbe dovuto considerarsi quale “epilogo consapevole di una condizione di malessere lavorativo”. Veniva, con ciò, esclusa qualsivoglia situazione di inconsapevolezza tale da pregiudicare la validità delle dimissioni, poiché, seppur in presenza di effettive patologie, le stesse non potevano dirsi inficianti la capacità di intendere e di volere del dipendente.

Investita della questione, la Cassazione è pervenuta a conclusioni del tutto differenti. Giova preliminarmente rilevare come, a norma dell’art. 428 c.c., devono ritenersi annullabili gli atti compiuti da persona che – seppur non interdetta – “si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti”. Ebbene, il giudice di legittimità ha avuto modo di ribadire come, nella costante interpretazione operata dalla giurisprudenza della Corte con riferimento al citato articolo, non debba ritenersi essenziale (ai fini dell’annullamento) una totale esclusione della capacità psichica e volitiva, essendo per converso sufficiente che si registri un mero “turbamento psichico che menomi la suddetta capacità” e che, nello specifico, condizioni in qualche modo l’autodeterminazione del soggetto, nonché la consapevolezza “in ordine all’importanza dell’atto che sta per compiere” (in senso analogo, si citano Cassazione, sentenza n. 1797 del 22 maggio 1969, sentenza n. 515 del 15 gennaio 2004, sentenza n. 4539 del 28 marzo 2002, nonché sentenza n. 17977 del 1 settembre 2011). In altri termini, ai fini della validità delle dimissioni, è necessario che il lavoratore risulti effettivamente in grado di compiere una serie di opportune valutazioni e ponderazioni. Peraltro, laddove sia stata accertata una patologia psichica di carattere permanente, l’incapacità naturale del soggetto al momento del compimento dell’atto (e, con ciò, la relativa annullabilità) è dimostrabile per mezzo di mere presunzioni, gravando, per converso, in capo alla parte che ne sostiene la validità l’onere di provare “l’esistenza di un eventuale lucido intervallo”, tale da consentire all’autore di rendersi conto della natura e dell’importanza dell’azione posta in essere.

Per di più, al netto delle richiamate considerazioni generali, nello specifico caso del rapporto di lavoro, l’indagine da operarsi in sede giurisdizionale deve intendersi in senso ancor più rigoroso, in ragione della presenza di “beni giuridici primari, oggetto di particolare tutela da parte dell’ordinamento” (si legga, in questo senso, anche Cassazione, sentenza n. 8361 del 9 aprile 2014). Infatti, la rinuncia al proprio posto di lavoro è un atto che incide su un bene dotato di una certa pregnanza nell’ambito della Carta costituzionale e, nello specifico, degli artt. 4 e 36 Cost, cosicché va accertata – senza ragionevoli dubbi – un‘”incondizionata volontà di porre fine al rapporto”, manifestata in modo univoco. Orbene, ove sussistano i presupposti per l’annullamento delle dimissioni, dalla sentenza del giudice deriva indubbiamente il diritto a riprendere il lavoro.

Ulteriori considerazioni meritano di essere mosse con riferimento all’aspetto retributivo. Sulla base della pronuncia in commento, giova rilevare che il diritto a percepire la retribuzione (in caso, ovviamente, di sentenza favorevole) spetta al dipendente solo a partire dalla data del ricorso in sede giurisdizionale, non estendendosi, invero, anche al periodo intercorrente tra le dimissioni rassegnate e l’instaurazione del procedimento. Se così non fosse, a ben vedere, si finirebbe per retribuire il soggetto in “mancanza di attività lavorativa”; in altre parole, “l’efficacia totalmente ripristinatoria dell’annullamento del negozio unilaterale risolutivo del rapporto di lavoro non si estende al diritto alla retribuzione” (vedasi, in tal senso, anche Cassazione, sentenza n. 8886 del 14 aprile 2010).

A tali premesse, è conseguito l’accoglimento del ricorso promosso dal lavoratore e il rinvio in sede d’appello.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU HR ONLINE DI AIDP