In questa sede si intende approfondire una tematica a più riprese dibattuta in ambito giuslavoristico: la specialità del rapporto di lavoro dirigenziale, nonché i presupposti per addivenire alla comminazione di un recesso. Si avrà modo, in particolare, di riflettere sulla possibile sussistenza di ragioni oggettive legittimanti il licenziamento e sulle differenze esistenti con il “canonico” licenziamento per giustificato motivo oggettivo nell’ambito del lavoro subordinato, anche – e soprattutto – in virtù dell’assai recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 20876/2018.

La specialità del rapporto di lavoro dirigenziale

Come anticipato, lo spazio riservato dall’ordinamento giuridico alla figura del dirigente (e al relativo rapporto di lavoro) assume tratti pressoché peculiari, rispetto al concetto di subordinazione in senso stretto. A ben vedere, infatti, pur rientrando a tutti gli effetti tra le categorie di inquadramento dei lavoratori subordinati, unitamente ai quadri, agli impiegati e agli operai, i dirigenti sono chiamati allo svolgimento delle proprie funzioni operando con una particolare autonomia e discrezionalità. Ciò non toglie che gli stessi siano soggetti ad un rapporto di dipendenza gerarchica con il datore di lavoro, che si sostanzia, tuttavia, in istruzioni segnatamente generali.

In altri termini, nel rispetto delle prerogative individuate solitamente in sede di Consiglio di Amministrazione, il lavoratore in oggetto gode di ampi e svariati poteri di iniziativa, di disposizione, di coordinamento e di controllo, cui consegue spesso una connessa responsabilità in prima persona. Taluno, in proposito, non si è astenuto dal rilevare come, in ragione della richiamata discrezionalità, detto rapporto di lavoro possa risultare maggiormente assimilabile – al netto di qualsivoglia qualificazione legislativa – alle collaborazioni a carattere autonomo. E, invero, anche la stessa Corte di cassazione ha provveduto ad individuarne la natura autonoma ogniqualvolta siano del tutto assenti gli elementi “indefettibili del rapporto di lavoro subordinato”, consistenti, appunto, in un seppur labile “vincolo di soggezione personale del prestatore al potere direttivo del datore di lavoro, che inerisce alle intrinseche modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative e non già soltanto al loro risultato” (si legga, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 12335 del 18 maggio 2018). In capo al Consiglio d’Amministrazione (o ad altro organo o figura apicale) deve, quindi, sempre essere ravvisabile un benché minimo esercizio dei “poteri di controllo, comando o disciplina tipici del datore di lavoro” (Cassazione, cit.).

Dirigenti, provvedimenti espulsivi e regole ad hoc

Con specifico riferimento alle vicende estintive del rapporto dirigenziale, occorre sin da subito rilevare come la legislazione nazionale sia assai parca (quanto meno in ambito privato) nel regolarne esplicitamente il licenziamento e i relativi presupposti. Infatti, contrariamente a quanto prescritto rispetto ai livelli di inquadramento inferiore, non possono trovare applicazione, in primo luogo, le tutele di cui all’art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei lavoratori) e successive modificazioni. Ciò vale, invero, a meno che si tratti di un licenziamento nullo, qual è, a titolo esemplificativo, il recesso per motivi discriminatori, ritorsivi ovvero a causa di matrimonio; parimenti, analoghe considerazioni possono essere svolte per i provvedimenti espulsivi in forma orale.

Allo stesso tempo, può dirsi altresì esclusa l’applicabilità delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, posto che, a norma dell’art. 10 dello stesso provvedimento legislativo, la norma appresta una disciplina esclusivamente “nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio”. Detta esclusione, ritenuta da taluni irragionevole, è stata, peraltro, oggetto di una risalente pronuncia della Corte costituzionale che ne ha confermato l’aderenza al dettato della Carta fondamentale (vedasi, in tal senso, Corte costituzionale, sentenza n. 121 del 6 luglio 1971).

Ebbene, già in considerazione delle richiamate esclusioni, giova sin d’ora osservare come per il datore di lavoro addivenire all’intimazione di un provvedimento espulsivo verso il manager sia maggiormente agevole rispetto a qualsivoglia altro livello di inquadramento. Tale assunto si giustifica, tra gli altri motivi, sulla base della delicatezza del ruolo rivestito e del più alto grado di danni potenziali arrecabili all’azienda. Tuttavia, ogni superficiale conclusione in merito alla pretesa assenza di tutele per la figura dirigenziale dev’essere disattesa. Nel frequente silenzio della legge sul punto, infatti, l’ordinamento è ad ogni modo giunto alla configurazione di una disciplina particolare, per mezzo dell’assai vasta elaborazione giurisprudenziale e degli accordi raggiunti in sede di contrattazione collettiva anche in materia di recesso. In tal senso può prendersi in considerazione, a titolo meramente esemplificativo, l’art. 22 del Ccnl Dirigenti aziende industriali che impone, in luogo della legge, il basilare obbligo da parte del titolare di fornire, al momento della comminazione, un’adeguata e contestuale specificazione della motivazione. Allo stesso tempo, è sempre grazie allo stesso contratto collettivo che è stato possibile determinare il necessario periodo di preavviso (al netto dell’ipotesi di un licenziamento per giusta causa) nei seguenti termini:

• otto mesi di preavviso se “il dirigente ha un’anzianità di servizio non superiore a due anni”;

• “un ulteriore mezzo mese per ogni successivo anno di anzianità con un massimo di altri quattro mesi di preavviso” (art. 23, Ccnl Dirigenti aziende industriali).

Il licenziamento ex art. 2119 c.c. per giusta causa

La specialità del rapporto dirigenziale viene tendenzialmente meno con riferimento all’ipotesi del licenziamento per giusta causa. Anche al manager, infatti, è applicabile il disposto di cui all’art. 2119, Codice civile che consente di recedere dal contratto a tempo indeterminato senza preavviso allorquando “si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Come è noto, la giusta causa di recesso è ravvisabile ogniqualvolta si registrino fatti imputabili al lavoratore – ivi compreso il dirigente – idonei ad infrangere in linea generale il vincolo fiduciario con il datore di lavoro ovvero che non consentano allo stesso di considerare affidabile il dipendente in vista delle future prestazioni lavorative. Appare del tutto evidente come, in considerazione della richiamata pregnanza che riveste l’elemento fiduciario nell’ambito del rapporto dirigenziale, varie siano le potenziali condotte (addebitabili a tale particolare figura) idonee ad integrarne i presupposti. In tal senso, rappresenta una logica conseguenza della peculiarità del rapporto un maggior rigore e severità da parte della giurisprudenza nella valutazione dei comportamenti del manager e, così, può senza dubbio configurarsi la situazione per la quale condotte astrattamente non integranti la giusta causa di recesso per la generalità delle figure lavorative, si pongano invero in senso contrario con riferimento al livello dirigenziale. Tale considerazione si giustifica, per di più, sulla base del maggior rischio di produzione di danni economici – anche ingenti – arrecabili alla propria azienda.

D’altra parte, tra i criteri adottati dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nella valutazione della sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento devono ritenersi comprese anche le circostanze relative alla posizione delle parti e, soprattutto, “al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente” (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 2168/2013). Ne consegue, peraltro, che, al netto della stessa qualifica dirigenziale idonea di per sé a connotare un alto grado di responsabilità, la maggiore o minore severità da parte dell’Autorità giudiziaria nella considerazione dei fatti dipenderà anche dalle specifiche incombenze predeterminate contrattualmente e se, quindi, il dirigente in questione possa ritenersi un vero e proprio alter ego dell’imprenditore ovvero un mero soggetto inquadrato nella categoria dal punto di vista retributivo, ma privo di un’effettiva autonomia (il c.d. “pseudo-dirigente”).

In ogni caso, la sussistenza o meno di una giusta causa di recesso comporta significativi risvolti economici, posto che, ove il datore di lavoro ne dimostri la bontà, il licenziamento va considerato in tronco e, quindi, senza la necessaria corresponsione di un’indennità sostitutiva del preavviso.

La “giustificatezza” del licenziamento del dirigente

Come precedentemente rilevato, il licenziamento del dirigente è sottratto a buona parte delle disposizioni riguardanti la generalità dei lavoratori subordinati e, in questo senso, assume un’assoluta rilevanza l’inapplicabilità dei vincoli sostanziali del giustificato motivo soggettivo e giustificato motivo oggettivo. Nello specifico, per espressa previsione del legislatore, non può trovare applicazione l’art. 1, legge 15 luglio 1966, n. 604 che subordina la legittimità del provvedimento espulsivo comminato al lavoratore (oltre all’ipotesi ex art. 2119 c.c.) alla sussistenza “di un giustificato motivo”, consistente in “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ” ovvero, in alternativa, in ragioni “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” (art. 3, legge n. 604/1966).

Ebbene, stante la richiamata esclusione, un ruolo fondamentale ai fini della configurazione di principi validi in materia è attribuito all’opera degli interpreti. A tal proposito, la giurisprudenza (di legittimità e di merito) ha provveduto all’elaborazione di criteri che ben si conciliano con la peculiare figura lavorativa in oggetto e con le relative specificità. Ci si riferisce, in particolar modo, all’oramai cristallizzata nozione di “giustificatezza del licenziamento” cui occorre ricondurre qualsivoglia motivo posto alla base dell’allontanamento che si differenzi dalla suesposta giusta causa.

Il concetto di “giustificatezza” ha trovato la propria preminente ragion d’essere (individuata dagli stessi arresti giurisprudenziali) nel “rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro”, da un lato, e nello sviluppo “delle strategia d’impresa” che possano rendere nel tempo “non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda”, dall ’altro (vedasi, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 25145 del 13 dicembre 2010). Ciò premesso, la nozione contrattuale di giustificatezza che, appunto, “si discosta, sia nel piano soggettivo che su quello oggettivo, da quella di giustificato motivo ex art. 3, legge n. 604/1966 e di giusta causa ex art. 2119 c.c.”, consta di qualsiasi motivo che possa ritenersi apprezzabile dal punto di vista del diritto e purché sia idoneo a turbare “il legame di fiducia con il datore, nel cui ambito rientra l’ampiezza dei poteri attribuiti al dirigente” (in tal senso, Cassazione, sentenza n. 4614 del 2 marzo 2006).

Tralasciando per il momento l’esame delle possibili ragioni oggettive legittimanti il recesso, giova muovere talune considerazioni in merito a quelle soggettive. Al riguardo, a poco parrebbe rilevare, sulla base di tale interpretazione, l’effettiva gravità della circostanza su cui si basa il recesso. Infatti, come ha avuto modo di osservare a più riprese la Suprema Corte, il rapporto di fiducia intercorrente tra le parti del contratto di lavoro deve ritenersi suscettibile di essere leso “anche da mera inadeguatezza rispetto ad aspettative riconoscibili ex ante” o, in altre occasioni, da eventuali deviazioni “dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro” ovvero, ancora, da comportamenti tenuti in ambito extralavorativo, purché “incidente sull’immagine aziendale a causa della posizione rivestita” (cfr., ex multis: Cassazione, sentenza n. 2205 del 4 febbraio 2016). Sulla scorta di un simile orientamento, taluno in dottrina si è spinto sino ad affermare come, per il dirigente licenziato, il provvedimento espulsivo non debba nemmeno intendersi quale extrema ratio.

Ad ogni modo, seppur in un regime di particolare tenuità dei fatti legittimanti il recesso, l ’onere probatorio sull’effettiva sussistenza delle circostanze addotte grava comunque sul datore di lavoro. Infatti, già con sentenza n. 12184 del 10 dicembre 1993, la Cassazione ha prescritto – analogamente al caso degli altri lavoratori subordinati – che il datore è tenuto, “in applicazione dei principi generali sull’onere della prova, a dimostrare in caso di controversia la veridicità e la fondatezza dei motivi addotti, nonché la loro idoneità a giustificare il recesso”.

Licenziamento del dirigente e ragioni oggettive

Considerazioni a parte meritano di essere svolte con riferimento alla sussistenza di possibili motivi di natura oggettiva posti alla base del recesso comminato al manager. Occorre, sin da subito, rilevare come le nozioni elaborate dalla giurisprudenza siano apparentemente assimilabili ai caratteri del licenziamento per giustificato motivo oggettivo come configurato dal legislatore, ma gli obblighi e i limiti posti in capo all’impresa nell’effettuazione della scelta sono da ritenersi assai meno garantisti nei confronti del lavoratore in oggetto. In un’opera di bilanciamento di principi, infatti, i giudici hanno teso ad attribuire una particolare pregnanza, in materia di rapporto dirigenziale, alle prerogative di cui all’art. 41 Cost. che eleva a rango costituzionale la libera”iniziativa economica privata“.

Si è già avuto modo di osservare come, nell’ambito del concetto di “giustificatezza” di matrice totalmente giurisprudenziale, possano rientrare anche ragioni legate alla gestione economica dell’azienda. Che livello di gravità o serietà devono rivestire dette ragioni oggettive ai fini della legittimità del provvedimento? Per mezzo dei propri orientamenti, la Suprema Corte di Cassazione si è spinta sino ad affermare che, con riferimento al licenziamento per motivi economici, allorquando l’imprenditore adduca la sussistenza di “esigenze di riassetto organizzativo” che siano finalizzate ad una gestione dell’azienda più economica (o, comunque, ad una un’opera di razionalizzazione dei costi in linea generale), “può considerarsi licenziamento ingiustificato del dirigente solo quello non sorretto da alcun motivo” (vedasi, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 13918 del 3 luglio 2013). Sotto tale profilo, è da intendersi non sorretto da alcuna ragione il recesso “meramente arbitrario” ovvero quello basato su un motivo di cui si dimostri, poi, la totale pretestuosità e, quindi, “non corrispondente alla realtà, ma finalizzato unicamente a liberarsi della persona del dirigente” (Cassazione, op. cit.). In altri termini, di fronte all’ipotesi considerata, il giudice è chiamato esclusivamente a valutare l’effettività delle scelte dell’imprenditore e non anche il merito delle stesse.

La stessa Autorità non è, al contempo, chiamata a verificare l’osservanza da parte del datore di lavoro dell’obbligo di repêchage, la cui applicazione, come è noto, è del tutto esclusa – in quanto, ancora una volta, incompatibile con la peculiarità della figura – in materia di rapporto dirigenziale (cfr. ex multis: Cassazione, sentenza n. 14193 del 12 luglio 2016); ne consegue che il titolare non è onerato di provare l’impossibilità di ricollocare il manager all’interno dell’azienda, anche per lo svolgimento di mansioni diverse rispetto a quelle precedentemente svolte. Peraltro, ai fini del sindacato sulla legittimità, non risulta affatto dirimente la circostanza per la quale le concrete attività lavorative a questi attribuite “vengano affidate ad altro dirigente in aggiunta a quelle sue proprie” (cfr. Cassazione, sentenza n. 20856 del 26 novembre 2012, nonché sentenza n. 21748 del 22 ottobre 2010), né possono ovviamente rilevare le eventuali assunzioni poste in essere dall’impresa nei periodi precedenti.

Orbene, in tale quadro si inserisce l’assai recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 20876 del 21 agosto 2018 che, nell’ammettere al netto dell’ipotesi del venir meno della fiducia dell’imprenditore – il recesso anche sulla base di “ragioni oggettive concernenti esigenze di riorganizzazione aziendale”, ha colto l’occasione di ribadire che i motivi di recesso non devono coincidere necessariamente “con l’impossibilità della continuazione del rapporto” ovvero con una situazione di crisi “tale da rendere particolarmente onerosa detta continuazione”, posto che, come detto, il principio di correttezza e buona fede (“che costituisce parametro su cui misurare la legittimità del licenziamento”) va, appunto, coordinato con la libertà di iniziativa economica, garantita dall’art. 41 Cost. (in tal senso, anche Cassazione, sentenza n. 3628/2012, n. 21748/2010 e n. 17013/2006).

Tuttavia, l’idea che ciò basti ad affermare un’assoluta presunzione di liceità di qualsiasi provvedimento espulsivo fondato su ragioni economiche va, in ogni caso, disattesa. Il datore non è, infatti, libero da qualsivoglia onere di allegazione. Risulta pur sempre necessario che il giudice abbia modo di verificare in concreto l’effettiva sussistenza dei motivi, oltre, naturalmente, al relativo nesso di causalità con la scelta di risolvere il rapporto di lavoro ed una – seppur tenue – idoneità a giustificare l’allontanamento. Ebbene, nel caso oggetto del giudizio della Corte, la Cassazione ha censurato le pronunce di merito poiché non era stata effettuata alcuna verifica di ordine sostanziale sulle ragioni di recesso.

In particolare, è stato ritenuto non sufficiente il mero richiamo all’avvio della procedura di cui alla legge n. 223/1991 (peraltro, inapplicabile alla figura del manager) per dimostrare la sussistenza dei motivi legittimanti il licenziamento, posto che, per converso, è stato giudicato che è altresì necessario valutare in concreto se le ragioni poste alla base della procedura richiamata abbiano, in concreto, “avuto riflessi sulla posizione” del dirigente.

Licenziamento per ragioni economiche e preventiva procedura conciliativa: è applicabile al dirigente?

Giova, da ultimo, segnalare come, all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92), taluni interpreti avessero ipotizzato una possibile applicabilità, anche alla figura del dirigente, del disposto di cui all’art. 7 della legge n. 604/1966, a norma del quale è prevista una procedura conciliativa preventiva, prevista a totale garanzia del lavoratore che sia oggetto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, al ricorrere di determinati requisiti dimensionali dell’impresa. A ben vedere, detta eventualità deve ritenersi palesemente – e in ogni caso – esclusa. Come precedentemente rilevato, invero, l’art. 10, stessa legge n. 604/1966 (“… le norme della presente legge si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell’articolo 2095, Codice civile …”) non prevede tra i destinatari del provvedimento legislativo la figura dirigenziale e non si registrano, in tal senso, modifiche ad opera della richiamata legge Fornero.

Peraltro, tale assunto, trova una definitiva conferma nella circolare n. 3 del 16 gennaio 2013 del Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Per mezzo della predetta comunicazione, infatti, il Ministero, nel fornire i primi chiarimenti operativi agli interpreti ed operatori in merito al corretto espletamento della procedura obbligatoria ex art. 7, legge n. 604/1966, ha preso in considerazione esclusivamente l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo riservato al personale non dirigenziale, senza considerare, in alcun modo, il manager tra i possibili destinatari delle misure.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA