Durante il congedo per malattia il dipendente è chiamato ad evitare lo svolgimento di attività che possano, in qualche modo, causare un peggioramento delle condizioni di salute ovvero rallentare il processo di guarigione. Tale assunto trova una nuova conferma nella recente sentenza n. 6047 del 13 marzo 2018, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha provveduto a ribadire il proprio orientamento prevalente– se non unanime – in tema di condotte tenute in periodo di malattia.

Nel caso di specie, un lavoratore aveva visto irrogarsi la massima sanzione del licenziamento per giusta causa, dopo aver fatto pervenire al datore un certificato con prognosi di quattro giorni per dolori lombari (in particolare, con diagnosi di lombosciatalgia) ed essersi, al tempo stesso e durante tale intervallo di tempo, esibito in un concerto insieme alla propria band. Il datore di lavoro era, peraltro, venuto a conoscenza di quanto sopra in virtù della pubblicizzazione dell’evento sulla stampa locale.

Orbene, occorre preliminarmente rilevare come, in caso di svolgimento di altra attività lavorativa – che può senz’altro configurarsi in una prestazione da concertista –  durante il congedo, non debba ritenersi automatica la legittimità del recesso datoriale (si legga, in questo senso, Corte di Cassazione, sentenza n. 21667 del 2017). Seppur in periodo di astensione, al lavoratore è, infatti, astrattamente concesso di dar luogo a prestazioni a vario titolo anche – appunto – a carattere lavorativo, senza che a ciò consegua automaticamente una violazione degli obblighi scaturiti con il contratto di lavoro, né, come detto, l’inevitabile irrogazione di un provvedimento espulsivo. Facendo applicazione di tale principio, la Corte aveva in passato, a titolo esemplificativo, dichiarato l’illegittimità del recesso comminato ad una lavoratrice che, in malattia, aveva prestato la propria attività nel ristorante del compagno (si legga, in tal senso, Cassazione, sentenza n. 15982 del 2016). In più occasioni la giurisprudenza di legittimità ha, per di più, del tutto escluso che al dipendente debba imporsi l’astensione da qualsivoglia attività anche ludica e di intrattenimento, posto che ciò rappresenta una libera “espressione dei diritti della persona”. Invero, anche sotto tale profilo, la Cassazione era giunta a negare la bontà del licenziamento intimato ad un prestatore che, usufruendo del congedo a causa di una distorsione, non si era astenuto da una – seppur moderata – attività fisica (vedasi Cassazione, sentenza n. 1173 del 2018).

Ciò non toglie, sulla base della pronuncia in commento, che un accertamento fattuale possa svelare la sussistenza, nello svolgimento della predetta attività, di una “violazione dei generali doveri di correttezza e buona fede”nonché degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà che caratterizzano il rapporto di lavoro e, in particolare, dell’onere di adottare “ogni cautela idonea perché cessi” lo stato patologico. Infatti, ove dall’attività del prestatore emerga una presumibile inesistenza della malattia e, con ciò, una “fraudolenta simulazione” della stessa, per la Corte non può negarsi la bontà del recesso. Allo stesso tempo, il giudice può giungere ad analoghe conclusioni allorquando il comportamento tenuto dal lavoratore si presti a “pregiudicare o ritardare la guarigione” e, con essa, il suo rientro in servizio (in senso analogo, si veda Corte di Cassazione, sentenza n. 24812 del 2016, sentenza n. 16465 del 2015,nonché sentenza n. 17625 del 2014). Con riferimento a detto profilo, poi, va affermato che l’orientamento pressoché maggioritario tende a non attribuire alcun rilievo all’effettivo verificarsi di un ritardo nella ripresa, essendo per converso sufficiente che la condotta sia astrattamente idonea a generare pregiudizi, con una valutazione da effettuarsi ex ante.

In ogni caso, ai fini della legittimità o meno della massima sanzione disciplinare, il Supremo Collegio richiede la sussistenza di una contestazione che, sotto il profilo della ricostruzione fattuale, specifichi con estrema chiarezza gli addebiti mossi al dipendente, cosicché sia reso effettivamente possibile al giudice compiere una concreta valutazione delle condizioni richiamate e, in particolare, della tipologia e della natura della prestazione resa in favore in terzi.

Quanto all’onere probatorio, la Corte ha, altresì, ritenuto necessario il relativo soddisfacimento in capo al lavoratore che risulta, per l’appunto, chiamato a dimostrare la compatibilità dell’attività extra-lavorativa posta in esserecon la patologia documentata. In altri termini, occorre provare che il comportamento tenuto al di fuori del contesto lavorativo e, in costanza di malattia, sia ex sè privo di qualsivoglia rischio di pregiudizi conseguibili. In assenza di tale ardua dimostrazione, la Corte ha coerentemente negato l’illegittimità del licenziamento in oggetto.

In conclusione, può affermarsi come l’orientamento richiamato residui di intrinseci caratteri di incertezza, posto che, nella difficoltà di individuare un preciso confine tra le condotte che possano o meno causare un ritardo nella guarigione, l’assoluta priorità da attribuirsi, nella genericità del principio, ad accertamenti fattuali si presta senza dubbio alcuno al venire in rilievo di interpretazioni contrastanti.