All’innegabile mutamento che ha caratterizzato, a partire dal nuovo millennio, la concezione del lavoro in un contesto in evoluzione anche sotto il profilo sociale, si sono negli anni accompagnati i tentativi del legislatore che in maniera, a ben vedere, non sempre del tutto organica ha provveduto a più riprese ad offrire al datore nuove forme contrattuali flessibili, nonché ad incentivare l’accesso ad istituti scarsamente utilizzati nella pratica. In questo senso, in un quadro in cui la disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato, al netto degli interventi legislativi che ne abbiano alleggerito la gravosità per le imprese, mal si presta alla soddisfazione dell’istanza di rilancio del mercato occupazionale, vengono in rilievo due strumenti contrattuali, la cui disciplina in questa sede si intende approfondire.

Per mezzo del c.d. Jobs Act, in un’opera di complessivo riordino della disciplina lavoristica e della quasi totalità delle fattispecie contrattuali, il legislatore è intervenuto a riformare, tra gli altri, il contratto di apprendistato e il c.d. “lavoro somministrato”, ampliandone, da un lato, la portata e chiarendone i presupposti. Tali strumenti si prestano, invero, rispettivamente a conciliare l’esigenza di una maggior occupazione giovanile con la necessità di una sempre più alta qualificazione professionale richiesta dalle aziende e a limitare gli oneri posti in capo al datore che possano, in qualche modo, disincentivarne la scelta di procedere a nuove assunzioni.

Occorre, a tal proposito, procedere ad un attento esame delle norme di riferimento, nonché, da ultimo, del regime giuridico del c.d. “apprendistato in somministrazione”, una figura ancora scarsamente utilizzata nella prassi ma potenzialmente idonea a fungere da punto di incontro tra i due strumenti, massimizzandone, in particolare, i vantaggi.

Il contratto di apprendistato

L’obiettivo di incentivare percorsi formativi in favore dei prestatori di lavoro gode di rilevanza costituzionale all’interno dell’ordinamento, posto che all’art. 35 della Carta fondamentale si evince come la Repubblica curi, appunto, “la formazione e l ’elevazione professionale dei lavoratori”. Tale finalità può ritenersi, per di più, rafforzata dalle generali previsioni ex art. 3 e 4 Cost., che impongono all’iniziativa statale di promuovere le “condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro e, in maniera ancor più generica, di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale. Ebbene, in questo senso, il contratto di apprendistato rappresenta lo strumento emblematico di integrazione tra formazione e lavoro ed ha visto la propria introduzione all’interno dell’ordinamento italiano in epoca assai risalente. Invero, già con la legge n. 25/1955 il legislatore era intervenuto a formularne una compiuta definizione: “l’apprendistato è uno speciale rapporto di lavoro, in forza del quale l’imprenditore è obbligato ad impartire nella sua impresa, all’apprendista assunto, l’insegnamento necessario perché possa conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato, utilizzandone l’opera nell’impresa medesima”. Tralasciando, in questa sede, l’esposizione delle circostanze e degli interventi legislativi che abbiano comportato l’evoluzione storica della fattispecie, giova soffermarsi sulla disciplina offerta dal Jobs Act. In particolare, con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81 del 15 giugno 2015, recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni”, si è inteso superare del tutto quanto disposto dal Testo unico dell’Apprendistato (D.Lgs. n. 167 del 14 settembre 2011), riconducendo l’apprendistato alla disciplina generale dei contratti di lavoro e adottando, peraltro, la definizione di “contratto di lavoro a tempo indeterminato finalizzato alla formazione e alla occupazione dei giovani”.

In fase di stipulazione il Decreto richiede la forma scritta ad probationem. Il contratto deve contenere “in forma sintetica, il piano formativo individuale definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva” (art. 42). Trattasi, in particolare, di un documento all’interno del quale le parti del rapporto individuano espressamente gli obiettivi da raggiungere, il percorso formativo, nonché la ripartizione dell’impegno tra la formazione interna e quella esterna.

Quanto all’elemento temporale del percorso, occorre in primo luogo rilevare come la durata massima dipenda dalla contrattazione collettiva di settore, mentre, con riferimento alla durata minima, la stessa è determinata direttamente dalla legge (art. 43, comma 8) in sei mesi (eccezion fatta per i datori di lavoro che svolgano la propria attività in cicli stagionali). Ebbene, le parti possono decidere di recedere dall’apprendistato, nel termine specificatamente individuato nel contratto, purché con il preavviso di cui all’art. 2118 c.c. durante il quale il rapporto resta disciplinato da detto contratto, ovvero, nel silenzio delle parti, si registra un proseguimento del rapporto lavorativo, assoggettato all’ordinaria disciplina del lavoro subordinato a tempo indeterminato. Invero, la Suprema Corte di cassazione è recentemente intervenuta sul punto, chiarendo, con sentenza n. 17373 del 13 luglio 2017 come con l’apprendistato si configuri una particolare tipologia di contratto a tempo indeterminato a natura bi-fasica, nel quale la seconda fase può ritenersi introdotta, appunto, dal mancato recesso delle parti.

Il termine apposto a livello contrattuale non può, con ciò, permettere di addivenire ad un’assimilazione con il rapporto a tempo determinato, essendo per converso idoneo ad individuare esclusivamente “la scadenza del periodo di formazione”, ossia la conclusione della prima fase. Dal punto di vista della retribuzione spettante all’apprendista occorre fare riferimento – ancora una volta – alla contrattazione collettiva, tenuto, in ogni caso conto, della possibilità per il datore, offerta espressamente dal Decreto, di operare un sotto-inquadramento sino a due livelli inferiori rispetto a quello normalmente spettante. Sono previsti, altresì, dei limiti quantitativi che possono, tuttavia, essere derogati dai Ccnl. Il comma 7, art. 42, infatti, recita testualmente “il numero complessivo di apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione autorizzate, non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro”. Ove, poi, il datore di lavoro abbia alle proprie dipendenze più di cinquanta lavoratori, questi è chiamato a provvedere, in seguito al periodo di formazione, all’effettiva prosecuzione del rapporto con almeno il 20% degli apprendisti inseriti per non vedersi preclusa la possibilità di ricorrere nuovamente a tale figura contrattuale.

Ad ogni modo, ulteriori elementi di specificità, che occorre analizzare singolarmente, possono individuarsi sulla base della scelta della tipologia di apprendistato. In particolare, il legislatore ha consentito il ricorso a tre categorie: apprendistato per la qualifica, il diploma e la specializzazione professionale, apprendistato professionalizzante e apprendistato di alta formazione e ricerca.

Apprendistato per qualifica, diploma e specializzazione professionale

Tale specifica tipologia è principalmente finalizzata a coniugare la formazione sul lavoro che ha luogo in azienda con il sistema di istruzione e formazione offerto dalle istituzioni territoriali ed è rivolta a coloro i quali abbiano un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. La durata del contratto è, con ciò, strettamente legata alla natura della qualifica o del diploma che l’apprendista intende conseguire e non può, in ogni caso, essere prevista in misura superiore a tre anni (quattro in caso di diploma professionale quadriennale). Ai fini del consolidamento delle competenze acquisite durante il percorso è concesso al datore di prorogare il contratto per un ulteriore anno.

Nell’ipotesi considerata, per “formazione esterna all’azienda” deve intendersi quella svolta all’interno dell’istituzione scolastica di riferimento, per la quale il datore di lavoro è, peraltro, esonerato dalla corresponsione di una retribuzione. Quanto alle ore di formazione svolte all’interno dell’impresa, il datore è chiamato a corrispondere un compenso all’apprendista nella misura di un decimo rispetto a quanto normalmente spettante, fatte salve eventuali diverse indicazioni derivanti dalla contrattazione collettiva.

Apprendistato professionalizzante

La fattispecie dell’apprendistato professionalizzante rappresenta, invero, l’ipotesi classica di apprendistato come concepito nell’ordinamento. A ben vedere, il legislatore, con il D.Lgs. n. 81/2015, ha ribadito pressoché integralmente quanto già disciplinato per mezzo del Testo unico dell’apprendistato del 2011. In particolare, tale tipologia è riservata ai giovani di età tra i 18 e i 29 anni per il conseguimento di una qualificazione professionale, determinata per espresso accordo tra le parti sulla base dei profili previsti dai contratti collettivi del settore di riferimento. L’attività di formazione svolta dal datore di lavoro viene, per di più, integrata dalla c.d. “offerta formativa pubblica”, consistente nell’acquisizione, internamente ovvero esternamente all’azienda, di competenze di base e trasversali per un monte ore massimo di 120 a triennio e la cui regolamentazione è di competenza regionale.

Apprendistato di alta formazione e ricerca

L’ultima tipologia di apprendistato, prevista espressamente dal D.Lgs. n. 81/2015 all’art. 45, consente di assumere soggetti di età – ancora una volta – compresa tra i 18 e i 29 anni che abbiano già conseguito il diploma di istruzione secondaria superiore o diploma professionale e che intendano conseguire “titoli di studio universitari e della alta formazione, compresi i dottorati di ricerca, i diplomi relativi ai percorsi degli istituti tecnici superiori di cui all’articolo 7, Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 25 gennaio 2008, per attività di ricerca, nonché per il praticantato per l’accesso alle professioni ordinistiche”.

Ai fini del corretto svolgimento del percorso, è necessaria la sottoscrizione di un apposito protocollo con l’istituzione formativa cui il soggetto in questione risulta iscritto che preveda, tra gli altri, il numero di crediti formativi da riconoscersi, in misura massima di sessanta. Analogamente all’ipotesi dell’apprendistato per qualifica, diploma e specializzazione professionale, il datore è esonerato da qualsivoglia obbligo retributivo nel corso della formazione svolta esternamente all’azienda – e, quindi, all’interno dell’istituzione formativa di riferimento – sussistendo, per converso, l’onere della corresponsione di un decimo di retribuzione rispetto a quanto spettante sulla base del livello di inquadramento per le ore di formazione interna all’impresa. Giova, peraltro, segnalare che il datore che intenda provvedere alla stipula di un contratto di apprendistato della prima e della terza tipologia citate, è chiamato a soddisfare determinati requisiti, introdotti dall’art. 3, Decreto interministeriale del 12 ottobre 2015, ossia:

• capacità strutturali: il datore deve disporre di spazi adeguati che consentano lo svolgimento della formazione interna e, in caso di studenti con disabilità, è chiamato a provvedere al “superamento o abbattimento delle barriere architettoniche”;

• capacità tecniche: il datore deve, altresì, disporre di strumenti tecnici idonei alla formazione – anche se reperiti all’esterno dell’unità produttiva – “in regola con le norme vigenti in materia di verifica e collaudo tecnico”;

• capacità formative: occorre garantire “la disponibilità di uno o più tutor aziendali”.

Mancata formazione e sanzioni per il datore di lavoro

La formazione cui dare luogo in favore dell’apprendista costituisce, senza dubbio alcuno, un elemento essenziale del contratto di apprendistato, tale che, in caso di mancata erogazione, non può evitarsi la conseguenza giuridica della nullità del contratto, nonché dell’automatica trasformazione in ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Nel caso in cui si dimostri l’inadempimento (sotto il profilo formativo), il titolare dell’azienda è chiamato, peraltro, al versamento della differenza tra la contribuzione versata e quella dovuta con riferimento al livello di inquadramento finale (ossia il livello che l’apprendista, in caso di regolarità del percorso, avrebbe raggiunto al termine del periodo), maggiorata del 100%.

Lo stesso datore rischia, altresì, l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria per mancata attuazione del piano formativo. Invero, affinché la condotta datoriale possa considerarsi passibile delle censure richiamate, è indispensabile che l’inadempimento sia di portata tale da compromettere la finalità formativa dell’apprendistato e che lo stesso debba attribuirsi alla sua esclusiva responsabilità, posto che al datore è concesso di liberarsi ove la mancata formazione non sia ad esso imputabile. In particolare, tale imputabilità può escludersi allorquando l’erogazione della formazione sia stata espressamente demandata a strutture esterne all’azienda (in tal caso in capo al datore può ritenersi sussistente un mero obbligo di cooperazione), ovvero il mancato adempimento sia dipeso dalla volontà dell’apprendista. Sul punto la Corte di cassazione ha affermato, all’indomani dell’entrata in vigore del Jobs Act, come in caso di eccezione relativa alla volontà dell’apprendista, idonea all’esonero dalla responsabilità contrattuale, in quanto eccezione “di natura estintiva dell’obbligazione nascente dal contratto di formazione”, gravi sul datore il relativo onere probatorio (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 22624 del 5 novembre 2015).

Occorre, per di più, osservare che le possibili mancanze nell’erogazione della formazione possono essere autonomamente rilevate dal personale ispettivo del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, che, adottando apposito provvedimento di cui all’art. 14, D.Lgs. n. 124/2004, può assegnare un termine congruo al datore perché provveda all’adempimento.

Il lavoro somministrato

La somministrazione è una particolare forma di rapporto di lavoro introdotta con la legge 14 febbraio 2003 n. 30 (legge Biagi), che ha sostituito la previgente disciplina sul lavoro interinale. Orbene, l’impresa c.d. “utilizzatrice”, allo scopo di reperire manodopera per lo svolgimento di attività lavorativa all’interno dell’azienda, si rivolge ad un’agenzia autorizzata (c.d. “somministratore”). Occorre precisare che, ai fini della legittimità del rapporto, il datore è chiamato ad operare esclusivamente con agenzie che siano state preventivamente iscritte all’apposito Albo tenuto presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali.

In particolare, lo strumento in oggetto coinvolge ben tre soggetti: l’agenzia, il lavoratore e l’impresa datrice. Questi risultano legati tra loro da due differenti contratti: da un lato, si dà luogo ad un contratto di somministrazione (la cui natura è di carattere commerciale) sottoscritto dall’utilizzatore e dal somministratore, dall’altro ad un vero e proprio contratto di lavoro tra il lavoratore e il somministratore. Nel corso dello svolgimento delle prestazioni, il lavoratore è assoggettato, “per tutta la durata della missione”, alla direzione e al controllo dell’utilizzatore (art. 30, D.Lgs. n. 81/2015). Giova, a tal proposito, sottolineare come sia il primo che il secondo legame possano avere indifferentemente durata indeterminata ovvero predeterminata, pur con talune differenze in termini di disciplina. Ebbene, ove la somministrazione sia a tempo indeterminato, il legislatore ha provveduto ad introdurre la c.d. “clausola di contingentamento”, in forza della quale la somma dei dipendenti forniti dalle agenzie per il lavoro a tempo indeterminato non può essere superiore al 20% del numero totale di lavoratori assunti dall’utilizzatore (a tempo, ancora una volta, indeterminato).

Quanto ai contratti a termine, va rilevato che è demandata alla contrattazione collettiva la facoltà di stabilirne le circostanze di ammissione e gli eventuali limiti, ben potendosi, tra le altre cose, omettere di prevedere specifiche clausole di contingentamento. Ad ogni modo, il legislatore ha previsto espressamente specifici casi nei quali la possibilità di stipulare un contratto di somministrazione è da considerarsi del tutto preclusa e, più precisamente, a norma dell’art. 32, D.Lgs. n. 81/2015, il predetto contratto è vietato:

• per sostituire lavoratori “che esercitano il diritto di sciopero”;

• presso utilizzatori che nei sei mesi precedenti la stipula abbiano provveduto a licenziamenti collettivi inerenti le “stesse mansioni cui si riferisce il contratto di somministrazione di lavoro”;

• presso utilizzatori che abbiano operato “una sospensione del lavoro o una riduzione dell’orario in regime di cassa integrazione guadagni” con riferimento alle stesse mansioni del contratto di somministrazione;

• presso utilizzatori che abbiano omesso di effettuare la valutazione dei rischi richiesta dalla “normativa di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori”.

È altresì preclusa la via della somministrazione alle pubbliche amministrazioni (art. 31, comma 2); tale divieto viene, invero, in rilievo esclusivamente ove il rapporto abbia durata indeterminata. Gli elementi essenziali relativi all’esecuzione del rapporto sono disciplinati dagli artt. 35 e 36 del richiamato D.Lgs. n. 81/2015, con riferimento, in particolare, agli aspetti di natura economica. Il lavoratore ha diritto alla corresponsione di un compenso, per tutta la durata della missione, complessivamente non inferiore a quello “dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore”. Per quanto lo stesso sia, nella generalità delle circostanze, retribuito direttamente dal somministratore, sussiste un’obbligazione solidale in capo all’utilizzatore comprendente i trattamenti retributivi e contributivi, “salvo il diritto di rivalsa”.

Riguardo agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro, questi sono ripartiti tra somministratore e utilizzatore: il primo è chiamato ad idonea informativa sui rischi “per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive”, mentre all ’utilizzatore compete il generale obbligo di protezione e prevenzione di cui alla legge e alla contrattazione collettiva verso il dipendente, al pari dei colleghi assunti direttamente dall’azienda. Giova evidenziare come, per espresso accordo tra le parti, possa essere demandata all’utilizzatore anche l’informativa di cui sopra (art. 35, comma 4, D.Lgs. n. 81/2015). Il potere disciplinare è esercitato dall’agenzia di somministrazione, competendo all’impresa utilizzatrice esclusivamente l’onere di comunicare alla prima eventuali inadempienze.

L’apprendistato in somministrazione

Il c.d. “apprendistato in somministrazione” rappresenta, come detto, il punto di incontro tra le due discipline analizzate. Taluno ha, in proposito rilevato, come tale particolare forma di rapporto di lavoro possa definirsi come uno strumento di flessibilità evoluta, idoneo a coniugare i vantaggi dell’una e dell’altra fattispecie. Per mezzo dell’apprendistato in somministrazione, in particolare, l’impresa utilizzatrice può godere della presenza di un ’apprendista cui predisporre un piano formativo personalizzato, direttamente legato all’attività espletata in azienda, con un discreto risparmio in termini di costo del lavoro e demandando all’agenzia di somministrazione la totalità degli oneri burocratici.

Con l’entrata in vigore del Jobs Act il legislatore ha provveduto a riconoscere espressamente la possibilità di ricorrere a detta figura. Si legge, infatti, all’art. 47 comma 2, D.Lgs. 81/2015 che “il numero complessivo degli apprendisti che un datore di lavoro può assumere, direttamente o indirettamente per il tramite delle agenzie di somministrazione autorizzate , non può superare il rapporto di 3 a 2 rispetto alle maestranze specializzate e qualificate in servizio presso il medesimo datore di lavoro”. Se non v ’è dubbio circa la relativa applicabilità con riferimento alla tipologia dell’apprendistato professionalizzante, taluno ha osservato come, l’inserimento dell’apposita disciplina all’interno della previsione generale del contratto di apprendistato, consenta di affermarne la legittimità anche per ciò che concerne le altre due ipotesi.

Va, da ultimo, rilevato che la legge fa espresso divieto per l’azienda di ricorrere all’utilizzo di un’apprendista, il cui contratto di somministrazione sia a tempo determinato. Per mezzo di tale preclusione, il legislatore parrebbe aver inteso salvaguardare i lavoratori da un possibile snaturamento della funzione propria dell’apprendistato e dal rischio che l’aspetto formativo del percorso risulti del tutto subordinato rispetto al vantaggio economico conseguito, in un breve arco di tempo, dall’azienda utilizzatrice.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA