Con sentenza n. 509 dell’11 gennaio 2018, la Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di congedo parentale, ove a fruirne sia il padre del minore, chiarendo le conseguenze del relativo abuso.

In particolare, nel caso di specie un dipendente del settore metalmeccanico, nel beneficiare di dieci giorni di congedo INPS al fine di occuparsi del minore di otto anni, aveva invero utilizzato il tempo a disposizione per dedicarsi ad altro, prendendosi cura del figlio in maniera del tutto residuale. Venendo a conoscenza dei fatti richiamati, per mezzo dell’ausilio dell’investigazione di un agente privato, il datore di lavoro aveva provveduto a comminare al lavoratore la massima sanzione del licenziamento per giusta causa. Sia in primo grado che in appello (Corte d’Appello di L’Aquila), i giudici avevano ritenuto legittimo il licenziamento, essendo dagli atti emerso come il soggetto in questione si fosse dedicato ad altre attività – non legate alla cura del bambino – “per oltre metà del tempo”.

Orbene, occorre preliminarmente osservare come, a norma dell’art. 32 del D.Lgs 151/2001 (in attuazione dell’art. 1 della L. 53/2000), sia concessa facoltà ai genitori lavoratori “di astenersi dal lavoro”, sino ad un limite complessivo di dieci mesi, per ogni figlio “nei primi suoi otto anni di vita”. Oltre all’ipotesi di fruizione del congedo da parte della madre – invero più frequente – il legislatore ha inteso, in ossequio alle pronunce della Corte costituzionale (C. cost., sentenza n. 1 del 1987, nonché C. cost., sentenza n. 179 del 1993) che avevano sancito la necessaria garanzia di una “paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed educazione della prole”, prevedere l’applicazione del beneficio predetto anche al padre del minore “per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi” (comma 1, lettera b) della citata disposizione). Ebbene, a sostegno del proprio ricorso innanzi alla Suprema Corte, il lavoratore adduceva come l’interpretazione delle norme richiamate, finalizzata alla valutazione della correttezza della fruizione del congedo, non potesse basarsi su criteri puramente matematici. In particolare, lo stesso negava la necessaria sussistenza di una garanzia per il minore di una propria presenza temporalmente “prevalente”.

Investita della questione la Corte ha avuto modo, nel ribadire come la tutela legislativa assolva la funzione di soddisfare anche le “esigenze di carattere relazionale ed affettivo… collegate allo sviluppo della personalità del bambino”, di chiarire come la facoltà di richiedere il congedo si configuri come un diritto potestativo. Da tale qualificazione discende, in particolare, la relativa idoneità di creare, modificare o estinguere situazioni giuridiche per mezzo di “una manifestazione unilaterale di volontà”, senza la partecipazione di colui – in questo caso trattasi del datore di lavoro – che deve subirne gli effetti. A ciò consegue che il datore sia totalmente privo di facoltà in ordine alla verifica del corretto utilizzo del beneficio? A dire della Corte la risposta deve intendersi negativa. Invero, per quanto il potere del titolare incontri, nell’ipotesi considerata, dei limiti, questi non possono permettere di configurare una vera e propria “discrezionalità e arbitrio” nell’esercizio del diritto, ben potendo il datore provvedere a verificarne le concrete modalità, così come non può ovviamente escludersi la “sindacabilità e il controllo degli atti da parte del giudice”.

Al netto di tali premesse, il Supremo Collegio ha ritenuto – confermando quanto rilevato dai giudici di merito – la condotta del padre lavoratore contraria a buona fede, nonché integrante un vero e proprio abuso del diritto di congedo. Ciò detto, la massima sanzione comminata è parsa legittima in virtù della “lesione”, patita dall’azienda, “dell’affidamento riposto” nel dipendente. In particolare, il datore si sarebbe visto privare ingiustamente della prestazione lavorativa del soggetto, il quale, per converso, ha percepito indebitamente l’indennità prevista dalla legge. Risultano, sulla base della sentenza in commento, irrilevanti le attività svolte dal padre nel periodo oggetto di beneficio, posto che a venire in luce è esclusivamente l’omissione della cura del figlio. Infatti, le già citate pronunce della Corte costituzionale avevano sancito come la ratio della tutela della paternità consti nella soddisfazione dei “bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell’armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia”. Tale obiettivo sarebbe logicamente impossibile da salvaguardare ove al dipendente fosse concesso di dedicarsi ad altre attività – ivi compresa altra prestazione lavorativa – risultando, per converso, indispensabile “la presenza del padre accanto al bambino”.

La decisione in oggetto si pone in assoluta continuità con quanto già precedentemente affermato dalla stessa Cassazione che, in particolare per mezzo della sentenza n. 16207 del 2008 (si leggano, in senso pressoché analogo, anche Cassazione, sentenza n. 4984 del 2014, sentenza n. 8784 del 2015, sentenza n. 5574 del 2016, nonché sentenza n. 9749 del 2016), aveva affermato la legittimità del licenziamento del padre lavoratore che, usufruendo del congedo di paternità, realizzi “un’accudienza” del minore “soltanto indiretta”, integrandosi con ciò un significativo abuso per sviamento della funzione propria del diritto in oggetto.