Il datore di lavoro che, in seguito alla chiusura di un reparto, provveda al recesso dal contratto di lavoro di una dipendente in stato di gravidanza viola l’art. 54, co. 1 del D.lgs. 151/2001. Ad affermarlo è la Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 22720 del 28 settembre 2017, ha dichiarato l’illegittimità di un licenziamento intimato durante il congedo di maternità.

Nel caso di specie, alla lavoratrice veniva comunicato il recesso durante il periodo di gravidanza, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, in virtù della chiusura di un reparto di “contact center”. Nei primi due gradi di giudizio veniva dichiarata l’inefficacia dell’allontanamento, alla luce della mancata soddisfazione del presupposto della “cessazione di attività aziendale” idoneo a costituire una deroga al generale divieto di licenziamento.

La Corte di Cassazione, confermando la valutazione sull’illegittimità, ne ha, tuttavia, convertito la qualificazione da inefficacia a nullità. Il datore, a ben vedere, aveva utilizzato un espediente al fine di eludere il divieto ex art. 54, comunicando, durante lo stato di gravidanza, la scelta di recedere dal rapporto, ma differendone l’efficacia al giorno successivo il compimento di un anno di età del bambino.  Secondo il giudice di legittimità una simile condotta può ritenersi parimenti antigiuridica e vede, come inevitabile conseguenza, l’atto viziato da nullità assoluta. Si tratterebbe, infatti, di una tecnica di intimazione in grado di frustrare “lo scopo di tutelare il diritto alla serenità della gestazione”, incompatibile con quanto affermato dalla Corte costituzionale che, con la sentenza n. 61 del 1991, aveva ritenuto il differimento dell’effetto risolutorio come compromettente la “condizione di tranquillità necessaria affinché la madre possa provvedere alla cura propria e a quella del figlio, con ogni prevedibile conseguenza negativa sullo svolgimento fisiologico della gestazione e dell’allattamento”.

La pronuncia si pone in continuità con l’indirizzo maggioritario ormai formatosi in giurisprudenza che interpreta la norma – e le relative deroghe – in maniera talmente rigorosa da escludere ogni criterio interpretativo estensivo o analogico. Rappresentando un’eccezione al principio generale, affinché la condizione della “cessazione dell’attivita’ dell’azienda” possa ritenersi soddisfatta è richiesta la sussistenza di un’effettiva chiusura dell’”intero” esercizio (lo stesso tenore caratterizza le sentenze della Suprema Corte n. 18810 e n. 18363 del 2010) .

Per quanto prevalente, tale orientamento non può definirsi univoco. In senso minoritario, infatti, la sentenza della Corte di Cassazione n. 23684 del 2004 aveva statuito come risultasse sufficiente ai fini dell’applicazione della deroga che ad essere interessato alla chiusura fosse anche solamente il singolo reparto di riferimento della dipendente, allorché dotato “di autonomia strutturale e funzionale”. Il datore non sarebbe, tuttavia, risultato liberato in assenza dell’assolvimento dell’onere di “dimostrare l’impossibilità di occupare la stessa lavoratrice presso altra unità produttiva dell’azienda, dopo la soppressione dello stabilimento di appartenenza” (in senso analogo, si leggano le sentenze della Cassazione n. 3620 del 2007 e n. 14583 del 2009).

Le pronunce richiamate ineriscono al più ampio tema del licenziamento durante la gravidanza, del cui divieto la cessazione dell’attività aziendale rappresenta soltanto una delle possibili deroghe. Risulta, in questo sede, opportuno segnalare sinteticamente quali siano le altre fattispecie prese in considerazione dal legislatore per escludere l’illegittimità del licenziamento nella situazione in oggetto.

Ai sensi dello stesso art. 54 co. 3 del D.lgs. 151/2001, la madre può in ogni caso ritenersi soggetta all’eventualità di una risoluzione del rapporto di lavoro, se licenziamento viene intimato per giusta causa a fronte di colpa grave. La giurisprudenza ha, tuttavia, chiarito come, in considerazione della particolare fase della vita nella quale la lavoratrice si trovi e delle possibili ripercussioni sul piano personale, psicologico, familiare e organizzativo, la deroga debba valutarsi come applicabile “solo quando sia accertata in concreto la sussistenza di una colpa qualificata”, che attiene a situazioni più gravi “rispetto alle comuni ipotesi previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento” (Cassazione, sentenza n. 2004 del 26 gennaio 2017). Parte della dottrina, esprimendosi sull’inopportunità di un simile orientamento, ha messo in luce come possa risultare concretamente difficoltoso accertare una gravità maggiore rispetto al già perentorio tenore dell’art. 2119 c.c. (recesso per giusta causa), laddove prevede tra i requisiti l’impossibilità di prosecuzione del rapporto.

Carattere residuale rivestono le ulteriori fattispecie della “risoluzione per scadenza del termine”, dell’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice era stata assunta e dell’assunzione in prova con esito negativo della prova, anch’esse idonee a giustificare, al netto della dimostrazione dell’eventuale natura discriminatoria, il licenziamento da parte del datore di lavoro.