In un giudizio di opposizione ex art. 1 comma 51 della L. 92/2012, il Tribunale di Milano (sezione Lavoro), con la sentenza n. 2876 del 7 novembre 2017, si è pronunciato con riferimento alla legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un lavoratore che aveva rifiutato la sottoposizione all’accertamento tecnico richiesto dal datore, per verificare l’effettiva situazione di impossibilità a svolgere attività lavorativa per malattia.

In particolare, nel caso oggetto di controversia, il dipendente, assunto come guardia giurata con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, si era reso protagonista di un cospicuo numero di assenze per malattia.  I sospetti del datore di lavoro circa la correttezza del relativo comportamento trovavano fondamento nell’eccessiva sproporzione tra le giornate di astensione e la durata della prestazione (il periodo di congedo riguardava, infatti, ben sessantatré giorni nell’arco di un periodo di otto mesi). Per di più, tale diffidenza vedeva ragione nella scelta operata dal prestatore di usufruire puntualmente del congedo in stretta concomitanza con il fine settimana, servendosi, altresì, di certificati di malattia prodotti da undici medici differenti.

La società datrice di lavoro aveva, pertanto, depositato ricorso ex art. 696 c.p.c. (ai sensi del quale, giova precisare, “chi ha urgenza di far verificare, prima del giudizio, lo stato di luoghi o la qualità o la condizione di cose può chiedere… che sia disposto un accertamento tecnico o un’ispezione giudiziale”) per addivenire ad un accertamento tecnico preventivo, potenzialmente idoneo alla verifica dell’effettiva sussistenza, tramite perizia medico-legale, della malattia denunciata, nonché del relativo carattere impeditivo allo svolgimento delle proprie mansioni. In particolare, il datore mirava, per mezzo dell’esperimento dell’azione sopra citata, ad ottenere una compiuta descrizione dell’infermità dichiarata dal soggetto, con specifica rappresentazione delle terapie necessarie e delle relative tempistiche di recupero.

In seguito al negato consenso del lavoratore alla consulenza tecnica d’ufficio disposta dall’autorità giudicante nel predetto procedimento e alla successiva – ed inevitabile – pronuncia di non luogo a procedere, il datore aveva provveduto nei confronti del dipendente dapprima con una contestazione disciplinare e successivamente con l’intimazione del recesso per giusta causa.

Giova, in primo luogo, premettere come, in tema di efficacia delle prove, la giurisprudenza sia pressoché unanime nel negare ai certificati medici, così come ai referti ospedalieri, una forza probatoria privilegiata. Tali documenti, infatti, costituirebbero, a dire del giudice adito, “sempre il risultato di un apprezzamento valutativo” da parte del professionista sanitario e, stante una simile condizione, finirebbero per costituire una prova sottoposta al prudente apprezzamento del giudice di merito (in tal senso, si legga anche, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 1750 del 1990, nonché sentenza n. 10695 del 1999). Le diagnosi, infatti, non possono, per loro natura, definirsi come “un fatto”, ma rappresentano un vero e proprio giudizio, di conseguenza per i certificati medici deve escludersi l’attributo di piena prova.  Ciò detto, stando alla pronuncia in oggetto, non osta all’applicazione di quest’ultimo principio nemmeno il fatto che l’attestazione provenga da una struttura sanitaria pubblica.

Il giudice ha, inoltre, avuto modo di ribadire come il rifiuto di sottoporsi a perizia medico-legale da parte del lavoratore integri “una rilevante violazione dei doveri di correttezza e buona fede” gravanti sul prestatore in forza del rapporto di lavoro (artt. 1175 e 1375 c.c.), costituendo ciò “una notoria giusta causa di licenziamento del lavoratore”. Il Tribunale, con la citata sentenza, effettua le medesime considerazioni anche  con riferimento ai controlli a vario titolo disposti dal datore di lavoro per l’accertamento di circostanze di fatto che escludano la sussistenza della malattia, ovvero la relativa idoneità “a determinare uno stato di incapacità lavorativa”, purché, occorre precisare, tali verifiche siano rispettose dei limiti posti dall’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei Lavoratori) e non finiscano per caratterizzarsi in un vero e proprio controllo sanitario, che la legge riserva “ai servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti” (quest’ultimo passaggio argomentativo si pone in stretta continuità con quanto già affermato dalla Suprema Corte di Cassazione in più di un’occasione: sentenza n. 25162 del 2014, sentenza n. 20433 del 2016).

Sulla base delle richiamate argomentazioni, il giudice del lavoro ha optato per il rigetto dell’opposizione all’ordinanza n. 18590/2017, precedentemente resa dal Tribunale, confermando, perciò, la sussistenza della giusta causa e la legittimità del licenziamento comminato al lavoratore.

Contributo pubblicato sul sito di “VARIAZIONI SU TEMI DI DIRITTO DEL LAVORO” di GIAPPICHELLI EDITORE