A quali condizioni l’erede di un lavoratore deceduto – per patologie contratte in ragione dell’attività lavorativa svolta – può ottenere un risarcimento del danno da parte del datore di lavoro?

A tale interrogativo ha fornito una risposta il Tribunale di Venezia (Sezione Lavoro) che, per mezzo della recente sentenza del 2 agosto 2019, ha provveduto a ricostruire la disciplina in materia di risarcimento agli eredi e ai congiunti del de cuius.

Nell’ambito della controversia in commento, un dipendente operante presso stabilimenti chimici contraeva un tumore (e, nello specifico, un mesotelioma pleurico), del quale veniva accertata la riconducibilità all’attività lavorativa svolta. Una volta deceduto, la moglie e il figlio dello stesso agivano in giudizio nei confronti della società datrice di lavoro per vedersi ristorare, da un lato, i pregiudizi patiti personalmente in considerazione della scomparsa del soggetto e, dall’altro, i danni patiti dallo stesso lavoratore prima del decesso.

Investito della questione, il giudice veneziano ha, come detto, richiamato i precedenti del giudice di legittimità in materia.

Occorre, in tal senso, rilevare che per le due tipologie di pregiudizi richiamate i presupposti per un ristoro risultano del tutto differenti.

Quanto ai danni iure proprio (ossia quelli patiti personalmente dai congiunti), non rilevano le particolari condizioni – e sofferenze patite – dal defunto prima di morire e, in caso di prova del danno (nonché del fatto, dell’elemento soggettivo e del nesso di causalità), questi ultimi possono vedersi riconosciute sia le perdite di carattere patrimoniale eventualmente sofferte, sia i pregiudizi non patrimoniali patiti (siano essi di natura biologica, morale o esistenziale). In tale ipotesi, il congiunto della vittima viene a configurarsi quale “vittima secondaria” dell’evento morte altrui.

Tutt’altra natura assumono, invece, i danni iure hereditatis, ossia i pregiudizi che, seppur configurabili nelle stesse forme di cui sopra, non attengono agli eredi personalmente, ma che vengono individuati direttamente nei confronti della vittima primaria e che, in ragione della sua morte, finiscono per essere trasmessi, appunto, ai successori.

Ebbene, in questa seconda ipotesi i limiti per l’ottenimento di un ristoro risultano assai più pregnanti. Da tempo, infatti, la giurisprudenza è giunta ad affermare che un danno biologico della vittima può essere risarcito agli eredi esclusivamente laddove sia intercorso un “apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni… e la morte causata dalle stesse” e che, in tal caso, la quantificazione dell’importo dev’essere effettuata in relazione alla “menomazione dell’integrità psicofisica patita dal danneggiato per quel periodo di tempo” (in questo senso, si vedano Cassazione, sentenza n. 18163 del 28 agosto 2007, sentenza n. 9959 del 18 aprile 2006, nonché sentenza n. 3549 del 23 febbraio 2004). Trattasi, nello specifico, del c.d. “danno biologico terminale” che taluno ha, altresì, provveduto a definire “danno catastrofale”.

Va, invece, del tutto esclusa la risarcibilità del c.d. “danno tanatologico (o “danno da morte), riguardante l’evento morte in sé e per sé; al riguardo il Tribunale di Venezia ha ribadito l’impossibilità di liquidare il pregiudizio in “caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni” (al riguardo, leggasi anche Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015).

Stando alle argomentazioni del giudice di merito, poi, la quantificazione di una simile fattispecie di danno non può essere compiuta “utilizzando il criterio del valore per punto di invalidità, che serve per liquidare il danno da invalidità permanente”, bensì risulta necessario fare riferimento al meccanismo di liquidazione del danno da invalidità temporanea, “tenuto conto della durata della malattia tra insorgenza e decesso”.

Orbene, alla luce delle premesse di cui sopra e nella valutazione del caso concreto, il Tribunale di Venezia ha accertato sia la sussistenza di danni iure proprio che iure hereditatis in favore dei ricorrenti e condannato la società datrice di lavoro al relativo risarcimento. In particolar modo, nel dar luogo alla quantificazione dei primi, il giudice ha preso in considerazione, quali indici presuntivi, la durata del matrimonio con la moglie (oltre 40 anni) e la circostanza per la quale il figlio del lavoratore fosse unico e ha, con ciò, tenuto conto “dell’inevitabile ricaduta sugli stretti congiunti del grave patimento sofferto dal de cuius all’avvicinarsi della morte”. Con riferimento, invece, al c.d. “danno biologico terminale”, lo stesso Giudice ha – in concreto – accertato la sussistenza di un pregiudizio temporaneo nella fase finale della vita caratterizzata dalla consapevolezza circa l’avvicinarsi dell’evento morte in capo al lavoratore deceduto.