Con l’avvento della pandemia globale lo scorso marzo 2020, molte cose sono cambiate in diversi ambiti della quotidianità. Il mondo del lavoro, naturalmente, non è rimasto lontano dagli effetti travolgenti dell’epidemia da Coronavirus.

In particolare, gli eventi dell’ultimo anno hanno avuto conseguenze anche su una dipendente di una Società che si occupava di imprese di pulizia e servizi integrati. Alla stessa, veniva intimato licenziamento disciplinare per giusta causa a seguito di una serie di contestazioni ricevute precedentemente e relative alla mancata prestazione lavorativa da parte di questa per un periodo totale di due mesi.

Le assenze venivano giustificate dalla lavoratrice, per le prime due settimane, dalla costanza delle ferie di cui si era avvalsa, salvo poi prolungare tale situazione per quasi tre ulteriori settimane in forza del c.d. “congedo Covid”. La dipendente, infatti, aveva trascorso le proprie vacanze in Albania, che all’epoca dei fatti (estate 2020) era considerata luogo a rischio e, difatti, il Ministero della Salute aveva stabilito, proprio in quei mesi, che chiunque facesse ritorno in Italia da determinati Paesi (tra cui, appunto, l’Albania), avrebbe dovuto affrontare una ulteriore quarantena al fine di scongiurare possibili contagi. Inoltre, la dipendente continuava ad assentarsi dal luogo di lavoro giustificandosi con permessi ex L. n. 104/1992, permessi relativi alla malattia del figlio minore, giorni di malattia personale e quarantena.

Il Tribunale adito, esaminata la questione, aderiva a quanto contestato dalla Società datrice di lavoro, la quale lamentava la negligenza della dipendente che, nonostante i divieti e le restrizioni che ben le erano noti, e pur sapendo che ciò le avrebbe comportato un periodo di quarantena/isolamento fiduciario che l’avrebbero tenuta lontana dal luogo di lavoro impedendole così di prestare la propria attività, comunque sceglieva di partire verso una meta a rischio. Così facendo, la stessa altresì deliberatamente decideva di mettere a rischio l’organizzazione interna e la produttività dell’azienda. Inoltre, si paventava la possibilità che l’assenza fosse stata premeditata e, pertanto, la Società datrice lamentava una gravissima malafede da parte della dipendente.
Pertanto, confermandone il contenuto, il Tribunale di Trento (con sentenza del 21 gennaio 2021) rigettava le domande della lavoratrice ricorrente, sussistendo secondo lo stesso una giusta causa sulla quale il licenziamento non poteva che essere fondato.

La questione appare rilevante e merita una riflessione soprattutto laddove si consideri l’interferenza del datore di lavoro nelle decisioni personale della dipendente, a prescindere dal rispetto dei principi di correttezza e buona fede che, di norma, parte datrice di lavoro e dipendente dovrebbero rispettare in costanza di rapporto.
La decisione del Tribunale di merito (che, a parere di chi scrive, risulta assolutamente corretta), apre la discussione relativa a quanto le condotte dei dipendenti poste in essere fuori dalla loro vita lavorativa abbiano poi impatto su quest’ultima e, dunque, quanto possano limitarle in suo favore.
È giusto tenere in considerazione azioni che, seppur relative alla sfera privata dei lavoratori, finiscono per inficiare l’intuitus personae su cui il rapporto di lavoro si basa, ma si tratta di una pratica anche pericolosa: data la generalità delle pratiche che un datore potrebbe ritenere scorretta – e, ancora, giova ripetere che quello citato all’inizio non si ritiene essere il caso – il privato potrebbe abusare di questo potere e sfruttarlo per raggiungere facilmente l’extrema ratio del licenziamento anche quando l’altra parte non se lo meriti.
Come è noto, si tratta di un problema che da molto coinvolge il giurista che si confronti con la vaghezza del concetto di “giusta causa”, facilmente manipolabile ed adattabile alle esigenze del momento.

Per tale motivo, ed in considerazione del favor lavoratoris che dal 1970 caratterizza le decisioni del legislatore nell’ambito del giuslavorismo, non si può che auspicare ad una serie di pronunce, come quella in esame alla presente trattazione, che riescano a modellare il concetto di giusta causa, e renderlo sempre più aderente a quei principi di buona fede e correttezza di cui supra e dai quali sarebbe bene non prescindere mai.