La complessità della controversia non giustifica la compensazione delle spese di lite da parte del giudice. Tale consolidato principio trova un’ulteriore conferma nell’assai recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 8458 del 6 aprile 2018.
Occorre preliminarmente rilevare che, come noto, l’ordinamento processuale civile prevede, quale principio generale all’esito del processo, la regola della soccombenza, per la quale addebitare alla parte non vittoriosa in giudizio le spese legali sostenute dalla controparte. Infatti, a norma dell’art. 91 del Codice di Procedura civile “il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte”. La ratio di una simile disposizione parrebbe individuarsi, sulla base delle elaborazioni dottrinali, nella finalità di indurre le potenziali parti processuali ad un’attenta valutazione circa l’opportunità di adire l’Autorità giudiziaria ai fini di una tutela, nonché come deterrente all’instaurazione di procedimenti del tutto pretestuosi e infondati. Invero, nella sua originaria formulazione, l’articolo seguente prevedeva la possibilità per il giudice di addivenire ad una compensazione di dette spese tra le parti ogniqualvolta la soccombenza fosse reciproca nonché per il concorso di “altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione”.
Alla luce dell’incertezza interpretativa scaturente dalla genericità del riferimento alle “gravi ed eccezionali ragioni”, nonché dell’eccessiva, a dire di taluno, discrezionalità attribuita al giudice nella valutazione dell’opportunità di compensare le spese, il Legislatore è intervenuto, piuttosto recentemente, a dettare una nuova disciplina. Invero, alla nuova formulazione dell’art. 92 c.p.c., operata dal D.L. n. 132 del 12 settembre 2014 (art. 13 comma 1), si deve, di fatto, una tipizzazione delle ipotesi di compensazione. In particolare, continua a trovare applicazione la regola per la quale, indipendentemente dalla soccombenza, può condannarsi al rimborso la parte vittoriosa in caso di “trasgressione al dovere di cui all’art. 88” (trattasi del dovere di lealtà e probità gravante sulle parti processuali). Quanto ai nuovi requisiti per la compensazione, gli stessi constano (oltre all’ipotesi della soccombenza reciproca) nel caso “di assoluta novità della questione trattata” ovvero di “mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”. Astenendosi, in questa sede, dal richiamare i numerosi dubbi interpretativi che dalla nuova formulazione sono scaturiti nei dibattiti dottrinali, giova, quanto meno, sottolineare come ci si interroghi sull’esatto significato da attribuire al concetto di novità e di mutamento di giurisprudenza e se, in particolare, la regola riguardi esclusivamente questioni di diritto sostanziale ovvero anche processuale. In questo senso, la tesi più accreditata individua quale oggetto del mutamento la questione principale del giudizio o, quanto meno, la questione fondante la decisione, sia essa di natura sostanziale o processuale.
Orbene, la pronuncia in commento, nella cui controversia trova ancora applicazione la formulazione originaria dell’art. 92 c.p.c., si presta ad offrire spunti di riflessione in merito all’effettiva opportunità dell’intervento legislativo in oggetto e all’eccessiva discrezionalità precedentemente attribuita all’Autorità giudiziaria nel riscontrare “gravi ed eccezionali ragioni” fondanti la compensazione.
Nel caso di specie, in merito ad una controversia relativa ad un verbale della polizia municipale, il giudice di pace disponeva il pagamento delle spese a carico di entrambe le parti adducendo in motivazione una pretesa “complessità della problematica sollevata”. Il tribunale di Catania, chiamato a pronunciarsi nell’ambito del procedimento di secondo grado, ne confermava la decisione, affermando come sussistesse un ampio “potere discrezionale del giudice di merito” esplicabile con riferimento alla compensazione; potere che, a dire del tribunale, era stato “correttamente e motivatamente” esercitato.
Investita della questione, la Suprema Corte ha avuto modo di specificare che, affinché possa operarsi una deroga al principio della soccombenza, la motivazione deve contenere un’indicazione delle gravi ed eccezionali ragioni in maniera quanto più esplicita. In particolare, continua la Corte, dette ragioni devono riguardare “specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa”, risultando per converso del tutto insufficiente il “mero riferimento” alla peculiarità della materia del contendere (tale principio è, altresì, rinvenibile in Cassazione, sentenza n. 11217 del 2016). Il Collegio ha, quindi, rilevato come nel disporre la compensazione in nome di una presunta complessità della fattispecie, il giudice sia, invero, incorso in un vizio di motivazione e, nello specifico, nella sua manifestazione di “motivazione apparente”, riscontrabile ogniqualvolta una sentenza individui gli elementi da cui sia desunto il convincimento, ma non proceda “ad una loro approfondita disamina logico-giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito” (si veda, in questo senso, anche Cassazione, sentenza n. 16762 del 2006, nonché sentenza n. 2114 del 1995).
Invero, si rileva una certa opportunità dell’impianto argomentativo della Corte, posto che, al netto della possibilità di attribuire un potere di mero arbitrio in capo al giudice, alla genericità della previsione legislativa non può seguire, altresì, un’assoluta genericità di motivazione. Peraltro può dirsi, in definitiva, come il riferimento alla “complessità di una questione giuridica” si presti a varie e differenti interpretazioni e, in ogni caso, risulti tendenzialmente inappropriato in ragione dell’oggetto della controversia (riguardante, come detto, l’opposizione ad una modesta sanzione amministrativa).