La circostanza per la quale il datore di lavoro decida di comminare un licenziamento ad un lavoratore in ragione del lungo periodo di malattia appena trascorso, anche a prescindere dal mancato superamento del periodo di comporto, non rappresenta affatto un’ipotesi infrequente.
Nonostante, infatti, tra le possibili, e lecite, condizioni previste per il recesso datoriale che, come è noto, risiedono nella sussistenza di una giusta causa ovvero di un giustificato motivo (soggettivo o oggettivo), non possa certamente ricomprendersi l’esercizio di un vero e proprio diritto da parte del dipendente (quale è, appunto, il diritto di astenersi dal rendere la prestazione lavorativa per malattia e di continuare a percepire la retribuzione), accade molto spesso che, pur asserendo in maniera totalmente fittizia e pretestuosa la sussistenza di una ragione che in astratto legittima l’allontanamento, la scelta datoriale nasconda intenti ritorsivi o discriminatori.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri che l’ordinamento appresta una particolare tutela avverso possibili licenziamenti nei confronti del lavoratore in periodo di malattia. Durante tale arco temporale, infatti, il prestatore gode, tra gli altri, del diritto alla conservazione del posto di lavoro (ciò, naturalmente, soltanto entro il periodo di comporto previsto dai contratti collettivi), cui consegue l’illegittimità di qualsivoglia provvedimento espulsivo che sia intimato in assenza di una giusta causa o ragioni aziendali collegate alla sopravvenuta impossibilità della prestazione o a cessazione totale dell’attività di impresa.
Sul punto è recentemente intervenuta la Corte di Cassazione, offrendo spunti alquanto interessanti in materia (Cass. 23 settembre 2019 n. 23583).
Nel caso posto all’attenzione della Corte, un lavoratore agiva avverso il recesso comminatogli da una società al rientro da un lungo periodo di malattia. Stando alle pretese motivazioni indicate nella lettera di licenziamento, l’allontanamento sarebbe stato giustificato alla luce della chiusura di un settore produttivo e conseguente soppressione della posizione lavorativa del prestatore. Ebbene, nell’accertare l’illegittimità del provvedimento espulsivo, la Cassazione ha colto l’occasione per effettuare una generale ricognizione dei principi rilevanti nell’ipotesi de quo.
L’intento discriminatorio
Occorre preliminarmente rilevare come un recesso intimato nei termini di cui sopra possa essere ritenuto discriminatorio a seconda della valutazione giurisdizionale. Ciò accade laddove allo stato di malattia relativo al periodo di astensione dal lavoro consegua la disabilità del lavoratore. In questo caso, fatta salva l’ipotesi (legittimante l’allontanamento) in cui la situazione di handicap richieda al datore di lavoro oneri finanziariamente sproporzionati (art. 5 Dir. CE 2000/78) per il mantenimento del lavoratore all’interno dell’azienda, se il reale motivo del licenziamento comminato al rientro della malattia risieda nella conoscenza della disabilità stessa del prestatore questo è a tutti gli effetti nullo.
A tale proposito, giova sottolineare che, innanzi ad un motivo discriminatorio, nessun rilievo può attribuirsi ad eventuali altre ragioni comunque sussistenti. In altri termini, se, in concreto, con riferimento allo stesso provvedimento, concorrono sia ragioni legittime di recesso che un intento discriminatorio, il licenziamento dovrà considerarsi sempre e comunque affetto da nullità, diversamente dal licenziamento ritorsivo. Nella controversia in esame, ad ogni modo, non sono stati ritenuti integrati i presupposti per la discriminazione, in quanto non era stato provato lo stato di disabilità del lavoratore (Dir. CE 2000/78; Cass. 23 settembre 2019 n. 23583; App. Firenze 28 novembre 2017 n. 1196).
L’intento ritorsivo
Più frequentemente, la scelta di licenziare il dipendente rientrato dalla malattia – soprattutto se lunga – nasconde intenti non discriminatori, bensì ritorsivi. In linea generale, può parlarsi di recesso per ritorsione nelle ipotesi in cui lo stesso rappresenti una “ingiusta e arbitraria reazione del datore di lavoro ad un comportamento legittimo del lavoratore” (Cass. 17 gennaio 2019 n. 1195). Come anticipato, nonostante l’estensione del regime di tutela previsto per i licenziamenti di natura discriminatoria anche a questa fattispecie, si tratta, ad ogni modo, di casi del tutto differenti.
In particolare, può notarsi come, ai fini della nullità del provvedimento espulsivo de quo, è necessario, al contrario delle ipotesi di discriminatorietà, che il motivo illecito sia determinante, ossia rappresenti “l’unica effettiva ragione di recesso”, nonché sia esclusivo, “nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale” (Cass. 4 aprile 2019 n. 9468).
Ciò significa che, nella valutazione da operarsi in sede giurisdizionale, il primo elemento da prendere in considerazione risiede nella sussistenza o meno delle ragioni formalmente richiamate e, solo in un secondo momento, può indagarsi sull’eventuale intento ritorsivo del datore.
Stando a quanto affermato nell’ambito della sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha, in primo luogo, escluso la bontà delle ragioni oggettive di recesso individuate dalla società datrice. Infatti, nonostante quest’ultima adducesse la necessità di chiudere un settore produttivo cui risultava addetto il ricorrente, nel corso dei giudizi di merito era stata esclusa l’esistenza (e, di conseguenza, la chiusura) di un vero e proprio settore/reparto, essendo venute meno, per converso, soltanto alcune lavorazioni (peraltro marginali rispetto al complesso della produzione aziendale), dacché è stato giudicato il giustificato motivo oggettivo “solo formale e apparente”. Ciò premesso, la stessa Corte ha avuto modo di valutare la possibile ritorsività del provvedimento e, nel ribadire la necessità a detti fini della prova che “il licenziamento non sarebbe stato intimato se ” il motivo illecito “non ci fosse stato”, ha accolto le istanze del dipendente.
L’onere probatorio
Un tema dirimente che si pone, con riferimento all’ipotesi in oggetto, attiene alla ripartizione dell’onere della prova. In proposito, va rilevato come sul lavoratore incomba un onere particolarmente gravoso. Infatti, già da tempo la giurisprudenza di legittimità è giunta ad affermare come, in materia di recesso ritorsivo, il prestatore di lavoro sia chiamato a dimostrare, da un lato, ”l’esistenza di un motivo di ritorsione del licenziamento” e, dall’altro, il “suo carattere determinante la volontà negoziale”; ciò, peraltro, non può dirsi sufficiente, in quanto lo stesso è, altresì, onerato di provare la “ inesistenza del diverso motivo addotto a giustificazione del licenziamento o di alcun motivo ragionevole” (Cass. 8 agosto 2011 n. 17087).
Ebbene, risulta del tutto evidente l’assoluta difficoltà che incontra il lavoratore nella dimostrazione degli elementi di cui sopra, dacché è pacificamente ammesso il ricorso a presunzioni, purché, come affermato nella sentenza in commento, queste ultime siano idonee a far ritenere “con sufficiente certezza l’intento di rappresaglia”.
Nel caso specifico, la Corte ha così avuto modo di valorizzare elementi indiziari che, applicando le regole di esperienza poste alla base del ragionamento presuntivo, hanno condotto alla conclusione che il licenziamento intimato al rientro dalla malattia non presentasse altra spiegazione che il collegamento causale con l’assenza per malattia stessa.
In particolare, è stato posto prioritariamente l’accento anche sull’assoluta contiguità temporale tra il termine del periodo di astensione (e il conseguente rientro sul luogo di lavoro) e la data di comminazione del provvedimento espulsivo, che, unita alle ulteriori prove circa l’inesistenza della ragione oggettiva addotta, ha consentito di confermare la tesi dell’intento ritorsivo.
Conclusione
Premesso quanto esposto, occorre concludere come il datore di lavoro debba prestare particolare attenzione ogniqualvolta la decisione di licenziare il dipendente coincida con un periodo di astensione per malattia. Infatti, posto che, come detto, tra gli indizi che consentano di presumere l’intento di rappresaglia da parte dell’imprenditore rientra anche la contiguità temporale con il rientro sul luogo di lavoro, quest’ultimo può dirsi agevolmente al riparo da sentenze a sé sfavorevoli soltanto a fronte di ragioni giustificatrici il recesso che risultino palesemente sussistenti e, soprattutto, dimostrabili compiutamente in giudizio.
Ciò vale, a maggior ragione, ove si consideri che, in caso di accertamento della natura ritorsiva dell’allontanamento, le conseguenze sul piano sanzionatorio risultano particolarmente gravose.
D’altra parte, analogamente all’ipotesi di un licenziamento a tutti gli effetti discriminatorio, nonché a quella per cui venga intimato in concomitanza con il matrimonio o con la maternità, innanzi ad un recesso “determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile” (art. 18 L. 300/1970), qual è l’intento ritorsivo del datore, trova applicazione la c.d. tutela reintegratoria piena.
Infatti, ancorché con l’approvazione della c.d. Legge Fornero (L. 92/2012) e del c.d. Jobs Act (D.Lgs. 23/2015) si sia provveduto a rivedere le conseguenze sul piano sanzionatorio dell’illegittimità del licenziamento, l’ipotesi considerata non è stata oggetto di modifiche sostanziali, dacché il datore può essere condannato alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, nonché alla corresponsione di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione maturata dal giorno del provvedimento espulsivo sino a quello della effettiva reintegrazione.