E’ affetto da nullità il patto di riscatto di un bene immobile se stipulato quale costituzione di garanzia in favore del creditore. Tale principio è stato di recente affermato dalla Suprema Corte di Cassazione che, per mezzo dell’ordinanza n. 4514 del 26 febbraio 2018, ha offerto spunti interessanti circa l’illiceità dei patti commissori e delle fattispecie agli stessi assimilabili.

In particolare, nel caso oggetto della citata pronuncia, si era registrato da parte di un soggetto il trasferimento di proprietà di un immobile ad un altro, il quale aveva provveduto all’assunzione dei debiti del primo. La cessione di detto bene, quindi, era avvenuta a scopo di garanzia, posto che era stato espressamente previsto un impegno da parte del creditore alla retrocessione dello stesso in favore della famiglia del debitore una volta onorati i propri obblighi. Ebbene, in primo grado il Tribunale si era espresso per la nullità del contratto, in quanto la richiamata pattuizione in merito alla retrocessione del bene  pareva assimilarsi ad un vero e proprio patto commissorio. Tale decisione veniva, tuttavia, riformata in sede di appello. La Corte di secondo grado, infatti, pur ritenendo la piena sussistenza  di un trasferimento a scopo di garanzia, ne negava la natura di patto commissorio e, con ciò, l’invalidità.

Ciò detto, occorre preliminarmente rilevare come il c.d. patto commissorio sia definito a livello legislativo come un patto “col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecaria o data in pegno” venga trasferita al creditore (art. 2744 del Codice civile); è la stessa norma, peraltro, a prevederne l’assoluta nullità. In altri termini, si registra un trasferimento sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore dell’obbligazione. Trattasi di un divieto pressoché “storico”, posto che i primi fondamenti legislativi in materia risalgono al diritto romano e la cui ratio può, secondo taluni, ricondursi all’esigenza di un’effettiva tutela in favore del debitore che, trovandosi in uno stato di difficoltà, possa esserne indotto alla stipula accettando condizioni inique. Giova, peraltro, osservare come tale tesi non rappresenti un indirizzo totalmente univoco. Infatti, per altra dottrina, la finalità del divieto consterebbe nell’apprestare idonee garanzie non tanto al debitore, quanto più agli altri creditori dello stesso estranei alla pattuizione (c.d. “tutela della par condicio creditorum”).  Altri commentatori, ancora, individuano quale scopo del legislatore il rispetto del principio di tipicità delle garanzie reali che richiederebbe, in tale ottica, la previsione di rilevanti limiti in capo all’autonomia negoziale delle parti.

A prescindere da tali contrasti, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte è giunta ad affermare che qualsivoglia schema contrattuale che, di fatto, sia idoneo a perseguire gli stessi risultati sostanziali del patto commissorio risulta parimenti affetto da nullità. Un elemento, in questo senso, fondamentale ai fini di detta valutazione è rappresentato, a dire del Collegio, dall’assenza “di una reale funzione di scambio” nel rapporto instauratosi tra le parti, come, a ben vedere, avvenuto nel caso di specie. Infatti, le operazioni concluse complessivamente dai soggetti di cui sopra costituivano, utilizzando i termini della Corte, “parte di un più ampio disegno volto ad innestare una sequenza alienativa in una ad uno scopo di garanzia con verifica dell’adempimento al fine di stabilizzare la cessione in proprietà del bene”.

Gli assunti richiamati non rappresentano, invero, un’assoluta novità nell’ambito degli orientamenti giurisprudenziali, posto che, per converso, già con la risalente pronuncia n. 1657 del 1996 la Corte di Cassazione aveva statuito che, nonostante l’avvenuto trasferimento di un bene, qualsivoglia vendita che preveda un “patto di retrovendita” è da ritenersi nulla, a condizione che sia stipulata per causa di garanzia. Dalla stessa citata sentenza emerge, peraltro, come simili pattuizioni, pur non integrando direttamente un patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c., rappresentino invero un meccanismo di elusione della norma imperativa citata, esprimendo, con ciò, “una causa illecita che rende applicabile, all’interno del contratto, la sanzione dell’art. 1344 c.c.” (si legga, in senso pressoché analogo, Corte di Cassazione, sentenza n. 8957 del 2014).

A tali premesse, è inevitabilmente conseguito l’accoglimento del ricorso del debitore e la declaratoria di nullità dell’accordo contrattuale in oggetto.