Il contratto di somministrazione di lavoro – come noto – consiste nel rapporto che intercorre tra una azienda (detta utilizzatrice) e una Agenzia del lavoro la quale procura alla prima dipendenti qualificati in base alle necessità di questa, così da evitarle costi e responsabilità nei confronti dei lavoratori stessi. Si ricordi, peraltro, che oltre al lavoro a tempo indeterminato, il tipo di contratto che può definirsi di staff leasing può avere ad oggetto anche un apprendistato professionalizzante.

Tale contratto, come qualsiasi contratto di lavoro tipico, può essere concluso prevedendo un tempo determinato o indeterminato: è quest’ultimo caso quello previsto dal c.d. staff leasing. In esso vengono coinvolti tre diversi soggetti: una Agenzia per il lavoro, una azienda che sia cliente della prima (detta utilizzatrice), e i lavoratori. Il tutto si sviluppa secondo uno schema in cui l’azienda utilizzatrice, che ha bisogno di personale qualificato per la conclusione di un lavoro o per la realizzazione di un’opera o la messa a disposizione di un servizio, si rivolge all’Agenzia del lavoro, che può essere a carattere privato o pubblico, la quale fornisce all’azienda cliente la tipologia di lavoratore più indicata per le esigenze richieste. Solitamente si fa riferimento a questo genere di rapporto così da evitare i costi di assunzione, nonché le responsabilità che derivano dalla gestione del rapporto lavorativo. L’azienda cliente, infatti, non ha particolari doveri nei confronti del lavoratore: il suo unico rapporto intercorre con l’Agenzia del lavoro, con la quale conclude un contratto commerciale che ha come oggetto, appunto, la somministrazione della forza lavoro. Il vero contratto lavorativo, tuttavia, intercorre tra il dipendente e l’Agenzia del lavoro, che agisce quale datore della manodopera che poi invierà al proprio cliente.

Nello specifico, i dipendenti saranno assunti dall’Agenzia del lavoro e, al momento del bisogno, saranno assegnati alla “missione” specifica per il proprio campo di competenza. Durante il periodo in cui non prestano attività presso i clienti dell’Agenzia del lavoro che li hanno assunti, i dipendenti in costanza di staff leasing hanno diritto a percepire una indennità di disponibilità, che consente loro di ricevere un assegno mensile in attesa di incarichi per determinate missioni, le quali comporteranno l’inizio del lavoro vero e proprio presso il cliente del proprio datore effettivo. L’importo di detta indennità è generalmente fissato all’interno del Contratto collettivo nazionale del lavoro di riferimento per ciascuna categoria di lavoratori, ma è bene chiarire che esso non potrà mai essere inferiore ad un certo quantum, fissato con decreto ministeriale dai Governi in carica. Il contratto di staff leasing può essere posto in essere per ciascun tipo di attività lavorativa ed in ogni ambito senza alcun tipo di limitazione, se non quella di tipo quantitativo: solo il 20% della totalità dei lavoratori assunti all’interno di una azienda o impresa può infatti essere titolare di un rapporto definito dalla somministrazione a tempo indeterminato e dunque avere come datore di lavoro un soggetto diverso dall’effettivo beneficiario della propria attività lavorativa. Detta limitazione percentuale deve essere calcolata sui lavoratori in forza per ciascun anno della azienda utilizzatrice (dal 1° gennaio al 31 dicembre), ma può essere soggetta a modifiche: ancora una volta, ad essere in grado di effettuarle sarà il solo Contratto collettivo nazionale del lavoro di riferimento per ciascuna categoria. Si ricordi, poi, che il lavoratore assunto a tempo indeterminato in regime di staff leasing può essere inviato in missione per l’esecuzione di uno specifico compito anche a tempo parziale presso le aziende clienti delle Agenzie del lavoro, senza l’obbligo di indicare una causale o limiti di durata che di norma sono invece previsti per il contratto di somministrazione a tempo determinato. Tale disposizione è contenuta in una circolare del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, la n. 17 del 31 ottobre 2018, in conseguenza alle modifiche apportate a detto istituto dal c.d. Decreto Dignità, che si approfondiranno in seguito. Ovviamente, una tale previsione comporta delle conseguenze in positivo anche per il lavoratore il quale, piuttosto che prestare la propria attività per diversi clienti – spesso dovendoli cercare autonomamente – ha una maggiore tutela: l’indennità di disponibilità, infatti, gli permette di attendere senza pressioni l’arrivo di un successivo impegno lavorativo, il quale gli verrà proposto dall’Agenzia per il lavoro, alla quale il cliente in necessità si andrà a rivolgere direttamente.

I vantaggi per le aziende utilizzatrici Dal punto di vista delle aziende, assumere dei lavoratori tramite lo strumento dello staff leasing comporta dei vantaggi non indifferenti.

Primo fra tutti, non essendo configurabile quale datore di lavoro, il cliente gode soltanto del diritto di ricevere la prestazione per come concordata e, dall’altro lato, il suo unico dovere riguarda il pagamento dell’Agenzia del lavoro che gli ha procurato la manodopera a ciò necessaria. Non vi è nessuna responsabilità in merito, ad esempio, al versamento dei contributi, al rispetto delle norme di cui alla legge n. 300/1970, o alle attività di carattere amministrativo che comporta l’assunzione di lavoratori. Peraltro, è bene sottolineare come i dipendenti assunti tramite detta modalità, non partecipino al computo dei lavoratori totali, sicché – ad esempio – ai sensi dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, essi non comportano modifiche al numero dell’organico dell’azienda, non alterando così la qualificazione di “piccole aziende” per quelle presso le quali siano assunti meno di quindici dipendenti, restando tali anche ai sensi della normativa vigente in caso di licenziamenti. Inoltre, l’inserimento del lavoratore all’interno dell’azienda utilizzatrice può avvenire per qualunque mansione ed a qualunque livello indipendentemente dalla formazione del dipendente: sarà compito dell’Agenzia del lavoro assicurarsi che questi venga adibito a mansioni adeguate alla sua professionalità, ed eventuali problematiche in tal senso potranno esser fatte valere solo nei confronti del soggetto intermediario tra beneficiario della prestazione e lavoratore.

I vantaggi per il lavoratore

Il dipendente assunto tramite un contratto di somministrazione a tempo indeterminato riceve lo stesso trattamento di un qualsiasi altro lavoratore assunto e, quindi, beneficia delle stesse condizioni contrattuali. Egli avrà infatti diritto alla retribuzione, alle festività, malattie ed infortuni, ferie, permessi, straordinari e lavoro notturno riconosciuto come tale, premi di produzioni e di risultato, oltre che a tredicesima e quattordicesima qualora esse siano previste dal Ccnl di riferimento, o laddove la stessa azienda utilizzatrice decida di riconoscerli ai dipendenti così assunti. Ovviamente, il dipendente che presta attività lavorativa secondo le modalità dello staff leasing concorre, con la retribuzione mensile, alla creazione del proprio Tfr, calcolato secondo le disposizioni di legge, a meno che le condizioni previste dal Ccnl di riferimento non finiscano per essere più vantaggiose. Allo stesso, inoltre, potranno essere riconosciute la sicurezza del percorso professionale attraverso un progetto personalizzato di valutazione, gestione, sviluppo e ricollocazione, nonché il welfare attraverso sostegno al reddito, accesso al credito, tutela sanitaria e maternità, trattamento economico aggiuntivo per mobilità territoriale.

L’agenzia per il lavoro

Una Agenzia per il lavoro diventa tale quando essa viene autorizzata alla somministrazione di manodopera ad una azienda, che sia sua cliente. Detta autorizzazione viene concessa da Anpal (Agenzia nazionale politiche attive del lavoro), qualora l’Agenzia richiedente rispetti i requisiti giuridici di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 276/2003 – a titolo meramente esemplificativo, si possono elencare: il raggiungimento di un certo quantum finanziario, comprovate competenze nel settore della richiesta, la regolare contribuzione ai Fondi per la formazione e l’integrazione (perché essa possa mantenere il proprio diritto ad agire con questa qualità, infatti, l’Agenzia è tenuta a versare un contributo che alimenti il c.d. Fondo per la formazione e l’integrazione del reddito). Tale ultimo contributo viene calcolato in percentuale (generalmente definita in sede di Contratto collettivo) alla retribuzione ricevuta dai dipendenti assunti tramite somministrazione a tempo indeterminato. Si tratta di uno strumento bilaterale – che, cioè, viene utilizzato ed in qualche modo gestito sia dal datore di lavoro che dal dipendente in favore del quale esso viene integrato. Si tratta, come si potrebbe evincere dal suo nome, di un Fondo la cui destinazione è quella di essere utilizzato al fine di intervenire in favore dei dipendenti assunti tramite la modalità della somministrazione, prevedendo quale privilegio nei loro confronti percorsi di qualificazione e riqualificazione professionale, nonché specifiche misure di carattere previdenziale. La ratio di una tale previsione va ricercata nella peculiarissima posizione che un lavoratore in costanza di staff leasing occupa.

Evoluzione normativa

Inizialmente, il c.d. staff leasing trovava la propria disciplina all’interno del pacchetto dei Decreti del Jobs Act posti in essere nel 2015. In particolare, inizialmente considerato quale tipologia di lavoro alla quale ricorrere in via residuale, la somministrazione a tempo indeterminato è stata liberata, grazie ai pacchetti del 2015, da una lunga serie di costrizioni alle quali la previgente disciplina ex D.Lgs. n. 276/2003 l’aveva condannata: non è più necessario indicare una specifica causale laddove se ne voglia fare ricorso, né essa è ancora relegata a particolari categorie di lavoro, ma viene estesa a qualunque ambito. L’unica “catena” che resta in vigore è quella del tetto massimo di lavoratori per l’azienda utilizzatrice, venendo mantenuto il 20% dei dipendenti totali assumibili tramite contratto di staff leasing. Peraltro, si ricordi che questa tipologia di contratto era stata, ad un dato periodo storico, dapprima abolita dall’art. 1, comma 46, legge 24 dicembre 2007, n. 247 e poi reintrodotta dall’art. 2, comma 143, legge 23 dicembre 2009, n. 191 (legge finanziaria per il 2010). La normativa appena esposta non è stata oggetto di particolari modifiche, se non fosse per un particolare elemento di cui attualmente si discute non poco. Il recente decreto “Dignità” ha innovato il mondo lavorativo inserendo, quale dovere del datore di lavoro, l’obbligo di assunzione su questi gravante superato il termine di 24 mesi che, eventualmente, il dipendente, in costanza di rapporto di lavoro a tempo determinato, abbia raggiunto prestando attività presso il proprio datore. Sulla questione si è aperto un ampio dibattito, anche e soprattutto in considerazione del fatto che il citato Decreto n. 87/2018 ha reintrodotto il reato di somministrazione fraudolenta, la quale si verifica precisamente ogni volta che un datore di lavoro voglia aggirare le previsioni di tutela dei dipendenti assunti a tempo determinato che abbiano raggiunto il limite temporale previsto per detto contratto. La conseguenza principale, ai danni del lavoratore, dall’“abuso” di tale strumento contrattuale, può essere ravvisata dal fatto che la sua anzianità retributiva venga completamente meno, agevolando finanziariamente il datore.

Pronunce rilevanti e casi di interesse

Da un punto di vista prettamente processuale, alcune vicende si prestano ad una riflessione di particolare interesse. Il Tribunale di Milano, sezione lavoro, si è recentemente espresso sull’argomento in questione (sentenza del 14 febbraio 2017), e, in modo particolare, sulle caratteristiche dell’onus probandi relativo alla prova dell’esistenza di un contratto di somministrazione a tempo indeterminato. Nel caso di specie, si discuteva se esso fosse da ascrivere alla persona del datore e, soprattutto, in che misura. La sentenza di merito, nel caso specifico, si è espressa in senso positivo, chiarendo, appunto, che fosse compito dell’Agenzia del lavoro, in qualità di datore, dimostrare l’esistenza dei limiti e delle condizioni necessarie a che l’applicazione del contratto di somministrazione a tempo indeterminato fosse lecita. Si trattava, in modo particolare, dell’onere di fornire una prova particolarmente chiara e rigorosa non solo “inerente all’effettiva sussistenza delle ragioni enunciate in contratto, anche il nesso causale tra le stesse e il ricorso alla somministrazione”: con quest’ultima frase, il Tribunale di Milano riprendeva una parte della motivazione esposta dalla Suprema Corte di Cassazione relativa alla sentenza n. 1630 del 23 gennaio 2013. Il principio di diritto espresso e sopra citato, naturalmente, ha un grande impatto sulla valutazione della legittimità ed efficacia del ricorso alla somministrazione e del giudizio in merito all’interpretazione dei presupposti giuridici affinché il ricorso alla somministrazione possa dirsi legittimo. Nello specifico, infatti, si chiarisce che il controllo giudiziario sulle ragioni che consentono lo staff leasing è limitato all’accertamento della loro esistenza, “non potendosi esso estendere […] al sindacato sulle valutazioni tecniche ed organizzative dell’utilizzatore, il quale è tenuto a dimostrare in giudizio l’esigenza alla quale si ricollega l’assunzione del lavoratore, instaurandosi, ove tale onere sia soddisfatto, un rapporto a tempo indeterminato con l’utilizzatore della prestazione”. Ciò vuol dire che, non dimostrandosi l’effettiva sussistenza di tutti quei requisiti che consentono il ricorso da parte di una azienda utilizzatrice ad una Agenzia del lavoro che a questa fornisca la manodopera che le risulta necessaria, allora il rapporto lavorativo così instaurato si trasformerà automaticamente in uno a tempo indeterminato tra detta azienda ed il lavoratore, escludendo così ogni responsabilità in merito dell’Agenzia del lavoro, che verrà esclusa dal rapporto, a discapito della cliente di questa. Prosegue, infatti, la Corte: “risulta che in sede giudiziaria, non è certamente consentito il sindacato sulle valutazioni tecniche ed organizzative dell’utilizzatore, però il giudice deve poter accertare la esistenza delle ragioni che consentono la somministrazione di manodopera e, a tal fine, l’utilizzatore medesimo è tenuto a dimostrare in giudizio l’esigenza alla quale si ricollega l’assunzione del lavoratore, instaurandosi, ove tale onere non sia soddisfatto, un rapporto a tempo indeterminato tra il prestatore di lavoro e l’utilizzatore della prestazione (Cass. 15 luglio 2011, n. 15610). La ratio della disciplina, infatti, è quella di escludere il rischio di ricorso abusivo a forme sistematiche di sostituzione del personale atte a mascherare situazioni niente affatto rispondenti a quelle contemplate dal D.Lgs. n. 276/2003 se non addirittura il rischio del superamento del limite rappresentato dalla necessità che non siano perseguite finalità elusive delle norme inderogabili di legge o di contratto collettivo atte ad integrare l’ipotesi, sanzionata, della somministrazione fraudolenta”. Un ulteriore passo della sentenza in esame, che qui può dirsi certamente interessante, è quello in cui la Suprema Corte lega il concetto della somministrazione di lavoro a quello dell’appalto. Essa, infatti, sostiene che “alla stessa logica risponde la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 276/2003, art. 29, in materia di appalto. Il comma 1 del suddetto art. 29, stabilisce, infatti, che: “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 c.c., si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”. Inoltre, il successivo comma 3-bis dello stesso articolo dispone che: “Quando il contratto di appalto sia stipulato in violazione di quanto disposto dal comma 1, il lavoratore interessato può chiedere, mediante ricorso giudiziale a norma dell’art. 414 c.p.c., notificato anche soltanto al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione, la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo. In tale ipotesi si applica il disposto dell’art. 27, comma 2”.

Appare, inoltre, rilevante sottolineare alcune considerazioni di carattere generale proposte dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 1630/2013. Infatti, la stessa Suprema Corte, ha giudicato: “che, in particolare, il Collegio, anche alla luce della giurisprudenza di questa Corte intervenuta medio tempore in materia, ritiene opportuno sottolineare altresì, come considerazioni di carattere generale, che: 1) se un contratto di lavoro viene stipulato utilizzando un tipo contrattuale particolare in assenza dei requisiti specifici richiesti dal legislatore e la legge prevede come conseguenza dell’utilizzazione irregolare del tipo la costituzione di un rapporto di lavoro, senza precisare se a termine o a tempo indeterminato, nel silenzio del legislatore non può che valere la regola per cui quel rapporto di lavoro è a tempo indeterminato (Cass. 8 maggio 2012, n. 6933); 2) se il datore di lavoro convenuto sostiene che l’attività descritta nel ricorso introduttivo e la sua difformità rispetto alla causale indicata nel contratto di somministrazione non sussistono e non corrispondono alla realtà dei fatti, ha l’onere di contestare specificamente tali affermazioni e di provare le circostanze di segno contrario da lui indicate, cosa che nel caso specifico, non risulta essere stato fatto (Cass. 8 maggio 2012, n. 6935); 3) ai fini della liceità o meno di un contratto di appalto di manodopera – prima dell’intervenuta abrogazione ad opera del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, art. 85, comma 1, lett. c), legge 23 ottobre 1960, n. 1369 – ciò che rileva è la natura delle prestazioni appaltate che deve essere indicata nel contratto stesso, stante la specificità del suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi (Cass., S.U., 26 ottobre 2006, n. 22910); che, inoltre, il Collegio sottolinea come non debba essere dimenticato, proprio tenendo conto del richiamato del D.Lgs. n. 276/2003, art. 29 (nel testo applicabile ratione temporis), il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (di cui alla legge n. 1369/1960, art. 1), in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (vedi Cass. 28 marzo 2011, n. 7034; Cass. 9 marzo 2009, n. 5648; 30 agosto 2007, n. 18281; 5 ottobre 2002, n. 14302); che, pertanto, ferma la ratio della disciplina di cui al D.Lgs. n. 276/2003 (il cui art. 85, comma 1, lett. c, ha abrogato la su richiamata legge n. 1369/1960) e l’autonomia e la specificità degli istituti ivi previsti, rispetto alle disposizioni previgenti abrogate dal medesimo decreto e alle disposizioni del codice civile, l’interprete può, tutt’ora, rinvenire nei principi sopra richiamati alcuni parametri significativi al fine della verifica della ricorrenza o meno di un contratto di appalto attraverso il quale si intenda eludere le norme che disciplinano il mercato del lavoro (Cass. 15 luglio 2011, n. 15615)”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA