La recente pronunciadella Suprema Corte di Cassazione n. 31159 del 3 dicembre 2018, che in questa sede si intende analizzare, assume una discreta rilevanza – e fornisce elementi utili all’interprete – sotto un duplice profilo: le possibili ipotesi di illegittimità del licenziamento comminato al dipendente in periodo di prova da un lato e, dall’altro, le conseguenze di una pronuncia sfavorevole al datore di lavoro.
Come è noto, il Legislatore ha inteso prevedere idonee garanzie in favore del titolare e una tutela pressoché attenuata al lavoratore durante tale fase del rapporto di lavoro. Trattasi di un arco temporale pattuito contrattualmente all’atto dell’assunzione (e la cui durata è stabilita nell’ambito della contrattazione collettiva) che consente al datore di lavoro di effettuare idonee valutazioni in merito alla convenienza o meno dell’instaurazione del rapporto, con riferimento, in particolare, alle capacità professionali del soggetto. Ebbene, in termini di effetti giuridici, può dirsi come la scelta di prevedere un periodo di prova comporti, in linea generale, una libera recedibilità della parte datoriale all’esito della valutazione o durante la stessa. Infatti, a norma dell’art. 2096 c.c., “… ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità” (e in maniera pressoché discrezionale), a meno che queste non abbiano espressamente pattuito un tempo minimo necessario di esecuzione della prestazione, posto che in tal caso “la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”. A ciò si aggiunga che, in forza dell’art. 10, L. 604/1966 (“Norme sui licenziamenti individuali”), le disposizioni di detto provvedimento legislativo trovano applicazione esclusivamente “dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva…”. Occorre, peraltro, segnalare che il principio di libertà del recesso è stato oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale, che ne ha confermato l’aderenza al dettato della Carta per mezzo di un’assai risalente pronuncia (Corte costituzionale, sentenza n. 189 del 22 dicembre 1980).
Orbene, ciò non significa che il lavoratore sia del tutto privo di garanzie avverso possibili comportamenti illeciti e ad uno scorretto utilizzo dello strumento da parte del titolare. Invero, la giurisprudenza ha individuato più ipotesi in cui apprestare una tutela al dipendente: si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla nullità del patto di prova per mancanza della forma scritta, alla sottoscrizione di un patto successiva all’effettiva instaurazione del rapporto e, nelle ipotesi maggiormente frequenti, al recesso comminato per motivi estranei alla prova, per motivi discriminatori e al caso in cui il dipendente dimostri di avere superato positivamente il periodo.
Peraltro, tra le possibili circostanze fondanti l’impugnazione del licenziamento, vi è, altresì, la mancata – e specifica – indicazione delle mansioni cui adibire il prestatore, posto che la valutazione del datore sulle competenze del soggetto e, con essa, l’eventuale mancato superamento del periodo non possono che basarsi su compiti predeterminati e identificati con precisione (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 11722 del 20 maggio 2009) ed è proprio in tale quadro che si inserisce la recente pronuncia in commento.
Nel caso di specie, un lavoratore impugnava il recesso intimatogli, poiché le effettive mansioni dallo stesso concretamente svolte nel corso dell’arco temporale erano risultate del tutto diverse rispetto a quelle pattuite per iscritto, a ciò conseguendo una valutazione datoriale sulle relative capacità professionali non riconducibile all’effettivo contenuto del patto.
Investita della questione, la Suprema Corte, nel richiamare il quadro normativo di riferimento e, nello specifico, le disposizioni sopra citate, ha avuto modo di affermare che l’esercizio del potere di recesso da parte dell’imprenditore “deve essere coerente con la causa del patto di prova” che va individuata “nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro” (in senso analogo, anche Cassazione, sentenza n. 8934 del 2015, nonché sentenza n. 15960 del 2005) e, quindi, non può in alcun modo configurarsi un esito negativo della prova (e, con ciò, un valido recesso) se “le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova”. In tal senso, si desume dalle parole della Corte, è indubbiamente inadeguata – con conseguente “violazione del patto” – una valutazione fondata sullo svolgimento di mansioni diverse.
Ciò premesso, giova interrogarsi sulle effettive conseguenze di un’accertata illegittimità per l’ipotesi considerata. Può il lavoratore vedersi riconosciuta una tutela di tipo reintegratorio?
La Cassazione ha negato, in linea con una oramai consolidata giurisprudenza di legittimità, tale possibilità. Occorre, in tal senso, distinguere il caso di licenziamento invalido per illegittima apposizione del patto di prova al contratto, per il quale la conseguenza è rappresentata dalla “conversione (in senso atecnico) del rapporto di prova in rapporto ordinario”, dall’ipotesi in cui oggetto di giudizio non sia un “difetto genetico del patto” bensì da un vizio funzionale come quello in esame. In questo caso, infatti, una tutela reintegratoria non è configurabile, avendo, per converso, il lavoratore diritto “al ristoro per il pregiudizio sofferto” ovvero, a seconda dei casi, alla“prosecuzione – ove possibile – della prova”. Tale assunto si giustifica sulla base del fatto che – ancorché ritenuto illegittimo – il recesso intimato durante il periodo indicato nel patto non incide, in ogni caso, su un rapporto di lavoro “stabilmente costituito”.