Come è noto, la condotta per la quale un soggetto, comunicando con più persone, “offende l’altrui reputazione”, servendosi del “mezzo della stampa”, è punita dal Codice Penale con reclusione da sei mesi a tre anni (art. 595 c.p.). Ebbene, tale comportamento, oltre a venire in rilievo in sede penale e, altresì, in sede civile per il risarcimento dei danni patiti dalla vittima, si presta ad assumere una discreta importanza anche nell’ambito del rapporto di lavoro. Ciò vale, nello specifico, allorquando un lavoratore, tramite appunto l’utilizzo di mezzi di informazione, si renda protagonista di affermazioni denigratorie nei confronti del proprio datore di lavoro. Giova, a questo proposito, verificare in concreto se – e a quali condizioni –  sia possibile dar luogo, in ragione di una simile condotta, alla comminazione della massima sanzione disciplinare. Sul punto è, peraltro, intervenuta piuttosto recentemente la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 1379 del 18 gennaio 2019, di cui si dirà in seguito.

Occorre preliminarmente rilevare come, al netto dell’eventualità (comunque verificatasi) che le offese alla reputazione dell’azienda siano perpetrate per mezzo di una vera e propria testata giornalistica (si pensi al caso del dipendente che rilasci un’intervista ai media), la casistica più frequente sia rappresentata dall’utilizzo dei social network e dai relativi meccanismi di diffusione. Al riguardo (e per costante giurisprudenza), non v’è dubbio che, in linea generale, la pubblicazione di post denigratori nei confronti di un soggetto rientri nell’ambito di applicazione dell’aggravante ex art. 595, comma 3 (e, quindi, sia da intendersi avvenuta “a mezzo stampa”), in quanto “condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone” (si veda, in questo senso, Cassazione, Sezione Penale, sentenza n. 40083 del 3 maggio 2018). Ciò vale, peraltro, anche ove la vittima (nel caso che interessa, il datore) non venga specificatamente nominata, ma possa essere agevolmente “individuata da una serie concordante di elementi indiziari… gli stessi elementi che possono consentire” di individuarla “come bersaglio anche ad altri frequentatori del social network su cui i post vengono pubblicati” (cfr. Tribunale di Pescara, sentenza n. 652 del 5 marzo 2018).

Orbene, al netto delle conseguenze penali, nel caso in cui sia accertata l’effettiva sussistenza del reato de quo può dirsi indubbiamente integrata un’ipotesi di licenziamento per giusta causa. Infatti, la giurisprudenza ha, a più riprese, affermato che in casi simili detta sanzione risulta del tutto proporzionata, posta l’indiscussa idoneità “a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto di lavoro” (vedasi, in tal senso, ex multis, Cassazione, Sezione Lavoro, sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018).

Invero, nonostante l’ordinamento italiano riconosca al lavoratore un generale diritto di critica, sia a livello costituzionale (ai sensi dell’art. 21 Cost. “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero…”) sia nell’ambito della disciplina giuslavoristica (a mente dell’art. 1 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 “i lavoratori… hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”), lo stesso non risulta esonerato dall’obbligo di attenersi ai criteri di continenza sostanziale, materiale e formale. Cosicché – analogamente all’ipotesi dell’esercizio del diritto di cronaca da parte dell’autore di articoli di giornale – allorquando sia il dipendente a diffondere notizie relative al proprio titolare, le stesse “ancorché vere” ma “obiettivamente idonee a ledere l’onore o la reputazione del datore”, devono intendersi esorbitanti rispetto al “legittimo esercizio del diritto di critica”, consentendo il recesso datoriale, alle seguenti condizioni:

  • l’illecito si traduca in una condotta che sia “imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa”;
  • l’illecito si traduca in una condotta che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, “adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione” (si veda l’interpretazione di cui alla risalente Cassazione, sentenza n. 1173 del 1986).

Ebbene, quali possono essere gli interessi giuridici “pari al bene oggetto di lesione” idonei a legittimare la condotta del dipendente? In quali casi la critica risponde ad un’esigenza meritevole nei confronti del bene suscettibile di essere leso (l’onore, l’immagine e la reputazione del datore)?

A tal proposito, una risposta all’interrogativo di cui sopra è rinvenibile nella citata sentenza n. 1379/2019.

In particolare, nel caso di specie, un lavoratore aveva provveduto a trasmettere a taluni organi di stampa una lettera contenente affermazioni ritenute dall’azienda diffamatorie, con la quale contestava aspramente alcune scelte dalla stessa compiute. Nel cassare la sentenza di secondo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento per giusta causa comminatogli, la Suprema Corte ha offerto spunti interessanti, appunto, in materia di rispondenza della critica ad un interesse meritevole (c.d. criterio della continenza materiale).

Se nell’ambito delle testate giornalistiche e del diritto di cronaca alle stesse riconosciuto, il confronto con il bene leso viene effettuato sulla base dell’interesse pubblico alla diffusione dell’informazione, nell’ambito del rapporto di lavoro detto interesse non può che valutarsi in senso differente. Nello specifico, a dire della Cassazione, “è sicuramente interesse meritevole” quello che si relazioni “direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro o dell’impresa”; si pensi, in questo senso, alle rivendicazioni “di carattere latu sensu sindacali” ovvero le “manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro”. Va, per converso, negata ogni forma di meritevolezza alle censure “avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate” a ledere l’onorabilità del datore, a maggior ragione ove le stesse riguardino le sue qualità personali (cfr., ancora, Cassazione, sentenza n. 1379 del 18 gennaio 2019), con la conseguenza che, in detta circostanza, la critica non “è scriminata” dall’esercizio del diritto ed “assume l’attitudine ad integrare un illecito disciplinare”.

Giova, da ultimo, sottolineare – come, ancora una volta, rilevato dalla Corte – che i principi di cui sopra trovano applicazione in tutti i casi di accuse, offese o critiche mosse nei confronti del proprio datore, cosicché il lavoratore può vedersi comminare la massima sanzione “pur in mancanza degli elementi soggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione” in generale e della relativa aggravante per l’utilizzo del mezzo della stampa.