La disciplina del periodo di prova cui dar luogo preventivamente rispetto all’assunzione del lavoratore incontra delle significative differenze, a seconda che si tratti di lavoro dipendente da privato ovvero nell’ambito di una Pubblica Amministrazione. La considerazione di cui sopra, già affermata a più riprese in ambito giurisprudenziale (si leggano, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 21376 del 2018, sentenza n. 9296 del 2017, sentenza n. 655 del 2015, nonché sentenza n. 17970 del 2010), ha trovato un’ulteriore conferma nella recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, n. 32877 del 19 dicembre 2018.
Occorre, in proposito, rilevare come detta differenziazione sia riscontrabile direttamente nella legge. Come noto, l’art. 2096 del Codice civile prescrive la possibilità per il datore di lavoro ed il dipendente di prevedere a livello contrattuale (in maniera, appunto, del tutto facoltativa) un periodo di prova, per mezzo di apposito patto, durante il quale “ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità”. Peraltro, a mente della stessa disposizione, laddove con il citato patto si sia stabilito un arco temporale minimo di esecuzione della prestazione, “la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine”.
Orbene, nella controversia in esame, una parte si doleva di una pretesa nullità del patto di prova, a suo dire stipulato in violazione del richiamato articolo 2096 c.c., nell’ambito di un rapporto di pubblico impiego. Investita della questione, la Cassazione ha avuto modo di dirimere eventuali dubbi in merito all’applicabilità della norma codicistica al caso del lavoro in ambito pubblico, pervenendo ad una soluzione in senso negativo. Infatti, si legge nella sentenza in commento, i principi ex art. 2096 c.c. non possono intendersi “estensibili all’impiego pubblico contrattualizzato” anche – e soprattutto – in ragione del fatto che presuppongono “il carattere facoltativo e non obbligatorio del patto” di prova. In ambito pubblico, a ben vedere, l’assunzione in prova non rappresenta mai una libera scelta delle parti contrattuali (e alla contrattazione è quindi sottratta), bensì un preciso obbligo, individuabile in più di una previsione legislativa. Nello specifico, come osservato dalla Corte di Cassazione stessa, da tempo il Legislatore italiano ha introdotto disposizioni (talune tutt’ora in vigore, altre superate) atte a sancire la necessità di un periodo di prova finalizzato all’assunzione del pubblico dipendente e, in particolare:
- ai sensi degli artt. 9 e 10 del D.P.R. 3/1957 “…i vincitori del concorso conseguono la nomina in prova…” e “…il periodo di prova ha la durata di sei mesi… compiuto il periodo di prova, l’impiegato consegue la nomina in ruolo”;
- ai sensi dell’art. 20 della L. 93/1983 (Legge quadro sul pubblico impiego) l’assunzione definitiva del dipendente era subordinata “al superamento di un congruo periodo di prova”;
- ai sensi dell’art. 17 del D.P.R. 487/1994 “i candidati dichiarati vincitori” sono assunti in prova nel profilo professionale di qualifica o categoria “per il quale risultano vincitori” e viene, altresì, prescritto che la durata del periodo di prova, differenziata in base alla complessità della prestazione professionale cui dare luogo, è demandata alla “contrattazione collettiva”.
Ciò premesso, risulta necessario ribadire che il periodo cui sono soggetti i lavoratori in questione in ambito P.A. ha luogo ex lege al netto di qualsivoglia patto rimesso all’autonomia privata. Peraltro, mentre nel lavoro dipendente da privato devono stabilirsi a livello contrattuale tutti gli elementi specifici del periodo affinché il lavoratore sia reso edotto delle “mansioni alle quali verrà assegnato e sulle quali si svolgerà l’esperimento”, nell’impiego pubblico contrattualizzato occorre presupporre che l’assunzione sia stata preceduta dall’espletamento di una specifica procedura concorsuale che “trova compiuta definizione nella contrattazione collettiva” e, con ciò, detta esigenza di specificità viene tendenzialmente meno (leggasi, ancora una volta, Cassazione, sentenza n. 32877 del 19 dicembre 2018). E, infatti, il futuro assunto può ritenersi già ampiamente garantito dalle varie norme (legislative o contrattuali) che governano l’instaurazione e la gestione del rapporto.
Da ultimo, occorre concludere che, ove all’esito del periodo di prova la P.A. commini un recesso al dipendente, questi, nell’impossibilità di far valere in giudizio un’eventuale illegittimità o nullità del patto di prova ex art. 2096 c.c., può dolersi esclusivamente di vizi riguardanti la valutazione del proprio operato da parte dell’amministrazione, che possono consistere, nello specifico, nell’inadeguatezza del periodo, nell’assenza o insufficienza di motivazione e nella relativa coerenza con le finalità della prova.