Come è noto, a norma dell’articolo 595 del Codice Penale si configura reato di diffamazione ogniqualvolta un soggetto, “comunicando con più persone”, ponga in essere un’offesa all’altrui reputazione ed è la stessa disposizione legislativa a prevedere, altresì, una circostanza aggravante laddove detta offesa sia perpetrata col mezzo della stampa o con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico” (pena la reclusione da sei mesi a tre anni). Orbene, oltre a venire in rilievo in ambito penalistico, la condotta di cui sopra assume una certa importanza altresì nell’ambito della responsabilità civile quale illecito extracontrattuale ex art. 2043 c.c., ove sia accertata la sussistenza di pregiudizi in capo alla vittima (di norma) di natura non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c..
Ciò premesso, risulta utile, in questa sede, richiamare l’assai recente pronuncia del Tribunale di Roma (Prima Sezione Civile) del 17 gennaio 2019, per mezzo della quale il giudice romano ha avuto modo di ribadire e ricostruire i caratteri fondamentali della fattispecie.
Nel caso oggetto di controversia, un magistrato della Corte dei Conti veniva coinvolto in un’inchiesta della Procura della Repubblica in materia di corruzione concernente talune opere pubbliche, ma in maniera quanto mai marginale (lo stesso veniva, in particolare, menzionato esclusivamente in una nota dell’ordinanza cautelare emessa nei confronti dei reali responsabili) e, all’esito delle indagini, veniva emesso decreto di archiviazione nei sui confronti. Ciò nonostante, il soggetto in questione era stato citato espressamente in un articolo di un quotidiano locale e, nello specifico, descritto come un personaggio che “forte delle funzioni pubbliche rivestite, avrebbe sostenuto imprenditori e commesso altre attività non commendevoli, avvalendosi della propria carica per scopi personali e per trarre vantaggi”, mentre, all’atto dell’archiviazione, alcuna notizia sul punto veniva pubblicata dallo stesso quotidiano.
Investito della questione, il Tribunale di Roma in primo grado ha respinto le domande del magistrato volte ad ottenere un risarcimento dei pretesi danni alla relativa reputazione, onore e immagine, attribuendo un’assoluta pregnanza al diritto di cronaca riconosciuto alle testate giornalistiche. Infatti, l’art. 21 della Carta costituzionale, nel garantire il generale diritto alla manifestazione del proprio pensiero, sancisce, in materia di stampa, la non soggezione “ad autorizzazioni o censure” e, quindi, allorquando la testata abbia correttamente agito avvalendosi di tale facoltà, può applicarsi la scriminante ex art. 51 c.p. che esclude la punibilità di un soggetto se, appunto, lo stesso abbia agito per esercitare un proprio diritto. A livello giurisprudenziale, in tal senso, a partire dalla storica – e assai risalente – sentenza n. 5259 del 18 ottobre 1984 della Cassazione Penale (cui si deve, peraltro, l’apertura verso il riconoscimento della responsabilità civile al netto della presentazione di querela in sede penale), sono stati individuati precisi limiti all’esercizio del richiamato diritto da parte dei giornali. Nello specifico, la Suprema Corte, con quella che taluno è giunto a definire “sentenza Decalogo”, ha affermato la legittimità delle pubblicazione in tutti i casi in cui ricorrano i seguenti presupposti:
- veridicità della notizia: il fatto richiamato dal giornalista deve essere vero oppure ragionevolmente vero sulla base dell’attendibilità della fonte da cui proviene e, in ogni caso, non può essere ricostruito in maniera esagerata o accentuata;
- rilevanza per l’interesse pubblico: seppur vero, il fatto deve rispondere all’interesse della collettività, ossia avere una rilevanza sociale (in altri termini, la società deve, astrattamente, godere di un interesse anche indiretto alla conoscenza della notizia);
- continenza verbale: seppur vero, il fatto non dev’essere riportato con modalità denigratorie o dispregiative (in altre parole, tale presupposto attiene alla correttezza formale del linguaggio utilizzato e della non eccedenza rispetto all’interesse pubblico, al netto di espressioni lesive dei diritti altrui).
Ebbene, il Tribunale di Roma, nel negare l’illegittimità dell’articolo in questione, ha affermato che, nell’ambito del giornalismo d’inchiesta, l’indagine sulla verità “è richiesta con modalità meno rigorose”. Sarebbe, con ciò, sufficiente la mera verità putativa (ossia quel concetto di “verità” che attribuisce rilevanza alla buona fede del giornalista), purché quanto concretamente pubblicato sia “frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca sull’attendibilità delle fonti” (in questo senso si veda anche Cassazione, sentenza n. 16236 del 2010). Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto sufficiente ad integrare il concetto di “verità putativa” la circostanza per la quale il magistrato fosse stato iscritto, alla data di cui all’articolo in oggetto, nel registro degli indagati. Allo stesso tempo,a nulla sarebbe valso (al fine di negare la veridicità della notizia) il fatto che, all’esito delle indagini, il GIP avesse disposto l’archiviazione.
Dalla lettura della sentenza emerge, altresì, come il giornalista si fosse attenuto al requisito della continenza, in quanto l’intero elaborato risultava “privo di commenti e valutazioni” da parte dell’autore stesso, nonché “senza alcun utilizzo di espressioni sconvenienti o offensive” e, ancora, che non poteva dubitarsi circa il pubblico interesse “alla conoscenza della notizia in questione”, sia in ragione del fatto che il tema in oggetto concernesse la realizzazione di grandi opere pubbliche, sia “considerato il particolare rilievo pubblico della persona coinvolta (magistrato contabile in posizione apicale)”.
Con la pronuncia in commento, il Tribunale di Roma parrebbe essersi attenuto scrupolosamente ai consolidati principi da tempo affermati dalla giurisprudenza di merito e di legittimità e non può, con ciò, negarsi un’assoluta opportunità del relativo intervento, posto che un’interpretazione eccessivamente stringente dei limiti al diritto di cronaca si presterebbe ad infirmare ingiustificatamente uno dei baluardi delle democrazie contemporanee, la libertà di stampa, ciò naturalmente laddove non vi sia illegittima e/o illecita lesione del decoro e della dignità della persona.