In questa sede si intende analizzare il rapporto intercorrente tra l’indennità di disoccupazione (la Naspi) e la quantificazione del risarcimento in favore del lavoratore in seguito a licenziamento illegittimo. La Suprema Corte di Cassazione, in particolare, è intervenuta con la recente sentenza n. 11835 del 15 maggio 2018 in tema di possibile detrazione degli importi. Possono le somme percepite dal dipendente, a titolo di indennità disoccupazione, a seguito di recesso datoriale (e fino alla pronuncia del giudice in merito all’illegittimità del licenziamento) essere sottratte dal risarcimento dovuto dal datore?

Occorre preliminarmente rilevare come, in tema di quantificazione dell’indennità risarcitoria, l’oramai consolidata giurisprudenza abbia elaborato il concetto di aliunde perceptum (vedasi, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 3181 del 2013). In particolare, per evitare che il risarcimento possa tramutarsi in un indebito arricchimento per il danneggiato, ove il lavoratore licenziato (illegittimamente) abbia trovato una nuova occupazione, ricevendo con ciò una retribuzione, detta somma dev’essere scomputata dall’importo totale dovuto dal datore di lavoro per i danni patrimoniali patiti. Se così non fosse, peraltro, il dipendente vedrebbe riconoscersi per lo stesso lasso di tempo ben due indennità lavorative.

Ciò premesso, va detto che la citata detrazione non opera automaticamente, ma è sottoposta a condizioni specificatamente individuate dalla giurisprudenza. In particolar modo, la regola trova applicazione esclusivamente ove il reddito percepito dal dipendente nel periodo di cui sopra derivi dalla stessa capacità lavorativa e dall’analoga tipologia di mansioni svolte in favore del nuovo datore, dovendosi con ciò escludere la natura di aliunde perceptum a qualsiasi reddito di lavoro. In ogni caso, ben può il risarcimento essere sommato alla retribuzione derivante dal nuovo lavoro ogniqualvolta, in termini di collocazione temporale della prestazione lavorativa, la nuova occupazione sia “concretamente compatibile con la prosecuzione contestuale della prestazione lavorativa sospesa a seguito del licenziamento” (si legga, in tal senso, la risalente Cassazione, sentenza n. 3319 del 1995, nonché sentenza n. 2105 del 1990). Ciò avviene, soprattutto, ove il prestatore lavori in regime di part-time dapprima alle dipendenze del datore cui si deve il licenziamento e venga, poi, assunto dal nuovo titolare alle stesse condizioni di orario.

Ebbene, con riferimento alla Naspi, da un’iniziale adesione dei giudici di legittimità all’idea che la stessa rappresentasse a pieno titolo un aliunde perceptum (cfr., in particolare, Cassazione, sentenza n. 2906 del 1996), si è giunti alla negazione di tale natura per vari ordini di ragioni.

Dalla pronuncia in commento emerge, in primo luogo, come la non detraibilità si giustifichi sulla base della “natura previdenziale” dell’indennità.  Infatti, parrebbe arduo applicare i principi richiamati – e i relativi limiti – in assenza di un effettivo “impiego della capacità lavorativa” da parte del soggetto licenziato. Le possibili conseguenze del cumulo saranno, infatti, differenti. Ove effettivamente si dimostrasse la non spettanza della Naspi, ciò darà eventualmente luogo ad un ”indebito previdenziale, ripetibile nei termini di legge”, ma ciò, in ogni caso, “opera su un piano diverso dagli incrementi patrimoniali che derivano al lavoratore dall’essere stato liberato… dall’obbligo di prestare la sua attività”.

L’indennità di disoccupazione non può, peraltro, sempre ritenersi “definitiva”, poiché allorquando l’INPS dovesse ricevere un’eventuale comunicazione di riammissione in servizio del lavoratore “con conservazione dei diritti acquisiti e mantenimento dello status giuridico ed economico maturato” il presupposto per l’ottenimento della Naspi verrebbe meno ex tunc. In tal senso, la naturale conseguenza in capo al soggetto consterebbe nella ripetizione delle somme percepite.

A tali premesse è conseguita, come detto la negazione della detraibilità delle predette somme dall’indennità risarcitoria. Occorre specificare, ad ogni modo, come la stessa Cassazione, con la sentenza in oggetto, abbia al contrario astrattamente ammesso la possibilità di dar luogo a detta detrazione con riferimento ad altri benefici e, in particolare: l’indennità di accompagnamento, la pensione di invalidità e la rendita vitalizia, in considerazione, appunto, della relativa definitività.