Come è noto, nell’ordinamento italiano, all’art. 2087 c.c. è riservata la tutela delle condizioni di lavoro nell’ambito della responsabilità datoriale. Nello specifico, la disposizione prevede che l’imprenditore “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. In tale quadro si inserisce la più specifica fattispecie di cui alla sentenza n. 25102 del 2018 della Suprema Corte, in forza della quale, nel ribadire la responsabilità del datore di lavoro per tutti gli infortuni che si verificano sul luogo della prestazione, viene accentuato il peso da questi ricoperto, onerandolo della causalità indiretta anche in merito a quegli eventi che rappresentino la conseguenza della mancata formazione del lavoratore, indipendentemente dall’esperienza da questi maturata.

Nel caso di specie, adiva la Suprema Corte il titolare di una azienda agricola presso la quale prestava lavoro un dipendente deceduto a causa di materiale franatogli addosso, apprestandosi questi a prelevarlo dal suo luogo di stoccaggio. La Corte di appello di Brescia, presso la quale il proprietario di detta azienda presentava gravame – in seguito alla condanna, in primo grado, al pagamento di somme a titolo di danno non patrimoniale da liquidarsi nei confronti degli eredi del lavoratore deceduto – aveva confermato la decisione del Tribunale, basando la propria motivazione sul fatto che la normale esperienza del lavoratore non fosse sufficiente a giustificare l’estraneità del datore all’accaduto, riconoscendo nello stesso un coinvolgimento sempreverde nelle attività dei propri dipendenti, tanto più ove l’evento si verifichi sul posto di lavoro stesso.

Un elemento fondamentale, chiaramente posto alla base di detta decisione, è quello relativo al “rischio elettivo”, già citato nella sentenza n. 3786/2009; si tratta di un concetto definito da una personalissima condotta del lavoratore il quale, sebbene perfettamente edotto dal datore sulle pericolose conseguenze di un operato temerario, decida in ogni caso di agire in sprezzo ad esse; non è, tuttavia, questo il caso, in quanto la situazione di specie aveva avuto origine da un’attività del lavoratore che la Suprema Corte, ribadendo gli assunti della Corte d’appello, ha ritenuto del tutto rientrante nelle normali attività previste dal suo rapporto di lavoro Stando alle argomentazioni del giudice di legittimità, la morte del soggetto in questione si sarebbe verificata a causa della violazione, da parte datoriale, degli obblighi di informazione e formazione (e addestramento) del dipendente ex artt. 36 e 37 e 3l D.Lgs. n. 81/2008. Pertanto, può dirsi manifestamente esclusa una eventuale abnormità del comportamento del lavoratore, che si configurerebbe come possibilità di liberazione dalla responsabilità del datore; recita la sentenza in esame: “se un’imprudenza del lavoratore vi era stata, la stessa [fosse] da imputare esclusivamente alla mancata formazione ed istruzione del dipendente, sicché andasse esclusa qualsiasi colpa dell’infortunato nella causazione dell’evento.”

La sentenza esaminata si inserisce nella tendenza – sviluppata in maniera piuttosto coerente – della Suprema Corte, la quale, ormai da diversi anni (cfr. sentt. nn, 4718/2008; 19494/2009; 18786/2014) ha abbracciato un orientamento profondamente garantista nei confronti del lavoratore, considerandolo altamente vulnerabile e perciò meritevole di una difesa a trecentosessanta gradi, in favore del quale è sempre necessario cucire impenetrabili armature di tutele. Il datore di lavoro, dall’altro lato, diviene oggetto di un coinvolgimento oggettivo ed indiretto con riferimento alla totalità degli eventi verificatisi sul luogo di lavoro, idoneo a trasformare la sua presunta posizione di privilegio in una – talvolta opprimente – responsabilità.