L’assunzione a tempo determinato dopo il Decreto Dignità
Il c.d. Decreto Dignità, ha avuto, tra gli altri, un notevole impatto sulla disciplina dei contratti a tempo determinato. Molteplici sono state le questioni giuridiche legate alle incertezze interpretative ed applicative inerenti al regime transitorio della disciplina dell’istituto dei contratti a termine, introdotto a seguito della conversione in legge dell’originario Decreto. È appena il caso di ricordare che la novella legislativa ha riguardato anche altri aspetti, come il contratto di somministrazione, l’innalzamento delle indennità dovute in caso di licenziamento ingiustificato e per l’offerta di conciliazione agevolata, le misure antielusive contro le imprese che assumono in forma agevolata e poi delocalizzano, la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente e quella delle prestazioni occasionali.
Veniamo all’oggetto dell’odierno approfondimento, vale a dire l’impatto del Decreto Dignità sulla disciplina del contratto a tempo determinato, contenuta nel D.Lgs. n. 81/2015 (artt. 19-29). Orbene, il contratto a termine, da taluni definito un “cantiere sempre aperto”, rientra senza dubbio tra gli istituti in materia di lavoro che hanno maggiormente subito, nel corso del tempo, costanti interventi di modifica a livello normativo. Il processo di sviluppo dell’istituto è stato lungo e complesso, con una stratificazione legislativa talvolta disomogenea. Peraltro, di recente le crescenti esigenze di flessibilizzazione del mercato del lavoro e di incremento dell’occupazione hanno portato il legislatore, dapprima nel 2012 con la Riforma Fornero (legge n. 92/2012) e successivamente nel 2014, con il Decreto Poletti (convertito nella legge n. 78/2014), ad una significativa spinta verso la liberalizzazione del ricorso al contratto a termine, con l’eliminazione delle causali/ragioni giustificatrici (introducendo il principio della c.d. “acausalità” del contratto a termine). Processo di liberalizzazione già, invero, iniziato nel 1987 (legge 28 febbraio 1987, n. 56), con il ruolo riconosciuto alla contrattazione collettiva e successivamente con il D.Lgs. n. 368/2001, che ha recepito nel nostro ordinamento la Direttiva 99/70/Ue, attenuando il rigido garantismo di questa tipologia contrattuale e ponendo come unica condizione per la legittimità delle assunzioni a termine la sussistenza di una causa giustificatrice di carattere generale.
In questo contesto il Decreto Dignità, invero, ha provocato di fatto un brusco arresto del processo di “deregolazione” del contratto a termine, determinando un ritorno al passato, secondo alcuni ad un regime simile addirittura a quello vigente prima del D.Lgs. n. 368/2001 (quando il ricorso al contratto a termine era fondamentalmente vietato) con il rischio di favorire, in tal modo, in prospettiva, da un lato un aumento esponenziale del contenzioso in materia di lavoro e, da un altro, anziché un aumento dei contratti a tempo indeterminato, un paradossale incremento del turn-over dei lavoratori a termine, una volta trascorsi i 12 mesi. Il legislatore ha motivato il proprio intervento “urgente” con il bisogno di “attivare con immediatezza misure a tutela della dignità dei lavoratori e delle imprese, introducendo disposizioni per contrastare fenomeni di crescente precarizzazione in ambito lavorativo, mediante interventi sulle tipologie contrattuali e sui processi di delocalizzazione, a salvaguardia dei livelli occupazionali”.
Il regime transitorio: i diversi segmenti temporali e le incertezze interpretative
Il regime transitorio sui contratti a termine dopo il Decreto Dignità è complesso e, per certi aspetti, davvero farraginoso, tanto che ormai, per superare le relative incertezze interpretative, è invocata da più parti un’apposita circolare ministeriale chiarificatrice o una pronuncia della Corte di legittimità sul punto. Quando si parla di “Decreto Dignità” si fa riferimento, in realtà, a due distinti testi legislativi succedutisi nel tempo, a distanza di poche settimane l’una dall’altra: il Decreto legge originario (entrato in vigore il 14 luglio 2018) e la relativa legge di conversione (entrata in vigore il 12 agosto 2018).
Più nel dettaglio:
• il D.L. 12 luglio 2018, n. 87, pubblicato su G.U. n. 161 in data 13 luglio 2018 recante “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”;
• legge 9 agosto 2018, n. 96 di conversione, pubblicata su G.U. n. 186 in data 11 agosto 2018.
A tale proposito, in punto di diritto transitorio, è utile soffermarsi proprio sull’accennata successione temporale dei due testi legislativi sopra citati, dal momento che contengono due diverse formulazioni. In particolare, mentre la versione originaria del Decreto legge all’art. 1, comma 2 prevedeva l’applicazione delle proprie disposizioni “ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente alla data di entrata in vigore del presente Decreto, nonché ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso alla medesima data” (dunque a partire dal 14 luglio 2018) secondo il principio tempus regit actum, la legge di conversione ha “corretto” la predetta disposizione transitoria, prevedendo l’applicazione delle proprie disposizioni “ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018”.
La legge di conversione, quindi, con la citata modifica alla versione originaria del Decreto in punto di regime transitorio, ha sospeso l’applicazione delle nuove disposizioni (pur limitatamente alle proroghe e ai rinnovi), dilazionandola fino alla successiva data del 1° novembre 2018, sollevando, in tal modo, non pochi dubbi e criticità sia a livello teorico e interpretativo, sia a livello pratico e applicativo. Orbene, a livello teorico e interpretativo, vengono in rilievo, tra i vari aspetti, le contrastanti considerazioni dottrinali e giurisprudenziali in tema di conversione dei Decreti legge, in particolare il dibattito sul complesso rapporto tra Decreto legge e relativa legge di conversione, sulla questione dei casi in cui la legge di conversione non si limita a sopprimere o sostituire una disposizione già presente nel relativo Decreto legge, ma giunge, come nel caso che ci occupa, a modificarla e, in generale, sulla questione della efficacia intertemporale di norme contenute in Decreti legge e modificate o soppresse dalla legge di conversione.
A tale riguardo risulta significativa la seguente pronuncia della Suprema Corte in materia di conversione dei Decreti legge “[…] Sulla questione dell’efficacia intertemporale di norme contenute in Decreti legge e modificate o soppresse dalla legge di conversione esistono molti contrasti in dottrina. Secondo un primo e tradizionale orientamento dottrinario, per risolvere tale questione, si dovrebbe distinguere tra emendamenti soppressivi e sostitutivi da un lato ed emendamenti modificativi dall’altro. Mentre si sostiene, i primi travolgerebbero il Decreto legge con effetto ex tunc, i secondi hanno effetto solo ex nunc.(Omissis). Altri Autori hanno contestato l’utilità della distinzione tra emendamenti soppressivi, modificativi e sostitutivi (Omissis). Chi sostiene questa tesi conclude che la norma del Decreto legge “modificata”, “sostituita” o “soppressa” è, in ogni caso, una norma non convertita e che pertanto perde efficacia ex tunc. Maggiore coerenza si registra invece nella Giurisprudenza di questa Corte, la quale ha prevalentemente aderito al primo degli orientamenti indicati [….].[…]”. A livello pratico, applicativo, invece, in attesa dell’auspicato intervento ministeriale con una circolare chiarificatrice o di pronunce della Corte di legittimità, vengono in rilievo le criticità circa la disciplina applicabile, a seconda che i contratti a termine siano (o siano stati) stipulati, prorogati o rinnovati in un determinato segmento temporale, piuttosto che in un altro. Più precisamente, secondo alcuni autori, con riferimento alla stipula dei contratti a termine si possono individuare i seguenti due regimi applicabili nei seguenti differenti segmenti temporali:
1) i contratti stipulati prima del 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del Decreto legge originario n. 87/2018) sono disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act) prima della Riforma del Decreto Dignità n. 87/2018;
2) i contratti stipulati successivamente al 14 luglio 2018 sono disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), così come modificato dalla legge di conversione del Decreto legge.
Con riferimento, invece, alle proroghe e ai rinnovi si possono individuare i seguenti tre regimi applicabili nei differenti segmenti di tempo:
1) le proroghe e i rinnovi effettuati tra il 14 luglio 2018 e l’11 agosto 2018 (data di entrata in vigore della legge di conversione) sono disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), così come modificato dal Decreto legge, prima della legge di conversione;
2) le proroghe e i rinnovi effettuati tra il 12 agosto 2018 e il 31 ottobre 2018 sono disciplinati dal “vecchio” D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), nella versione “ante” Decreto legge originario;
3) le proroghe e i rinnovi intervenuti dopo il 1° novembre saranno disciplinati dal D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), così come modificato dalla legge di conversione del Decreto legge (Decreto Dignità).
Secondo altri commentatori sarebbero, invece, quattro i periodi applicabili a ciascun istituto interessato dalla riforma nei vari segmenti di tempo e, segnatamente:
1) fino al 13 luglio 2018: disciplina originaria del “Jobs Act” (senza modifiche del Decreto Dignità);
2) 14 luglio 2018 – 11 agosto 2018 (compresi): primo periodo transitorio (Regime “Decreto Dignità” testo originario). Per tale periodo sarebbe stata operata da alcuni l’ulteriore sotto distinzione: • i primi contratti a tempo determinato stipulati in questo primo periodo transitorio (stipulati dopo il 14 luglio 2018) sarebbero soggetti al Decreto Dignità; • le proroghe/i rinnovi intervenuti in questo primo periodo transitorio sarebbero, invece, soggetti al Jobs Act;
3) 12 agosto 2018 – 31 ottobre 2018: secondo periodo transitorio (Regime Decreto Dignità con modifiche apportate dalla legge di conversione):
• i primi contratti a tempodeterminato stipulati in questo secondo periodo transitorio sarebbero soggetti alle norme del Decreto Dignità; • le proroghe/i rinnovi intervenuti in questo periodo, invece, sarebbero soggetti alle regole del Jobs Act pre-riforma;
4) dal 1° novembre 2018: ogni contratto/proroga/rinnovo saranno soggetti al nuovo regime definitivo del Decreto Dignità, così come convertito dalla relativa legge.
In generale secondo taluni “la verifica della validità di un atto giuridico va condotta alla luce della normativa vigente al momento in cui l’atto è stato perfezionato, … dunque sottoscritto da entrambe le parti secondo il principio generale della successione di leggi nel tempo”.
Le principali modifiche apportate dal Decreto Dignità
Prima di analizzare nel dettaglio le principali novità introdotte dal Decreto Dignità in tema di contratti a tempo determinato, è opportuno preliminarmente chiarire il significato di alcuni termini utilizzati nel medesimo provvedimento, e segnatamente di:
– “proroga”: termine con cui si intende uno spostamento in avanti, una dilazione del termine di scadenza finale, apposto ad un contratto di lavoro in corso;
– “rinnovo”: termine con cui si intende la stipula di un nuovo contratto di lavoro a tempo determinato tra le stesse parti, successivamente alla scadenza del primo contratto.
La disciplina del contratto a tempo determinato attualmente è contenuta nel capo III, D.Lgs. n. 81/2015 (articoli 19-29), uno dei Decreti attuativi del c.d. Jobs Act. Le principali modifiche apportate dal Decreto Dignità riguardano, in particolare, la riduzione della durata massima del contratto a termine, la riduzione del numero massimo di proroghe, la (re)introduzione delle causali condizioni giustificatrici, l’ampliamento del termine per impugnare in via stragiudiziale il contratto irregolare e l’aumento del contributo addizionale. Analizziamo più nel dettaglio le novità introdotte.
Limiti massimi di durata del rapporto
La novella legislativa in primo luogo ha ridotto in modo sensibile il tempo massimo di durata del contratto a termine (art. 19, D.Lgs. 81/2015), passato da 36 a 12 mesi, con possibilità di estensione fino ad un massimo di 24 mesi, ma solo in presenza di specifiche causali. Il superamento del limite sia che avvenga per effetto di un unico contratto a tempo determinato, sia che avvenga per effetto di una successione di contratti a tempo determinato, è sanzionato con la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato dalla data di tale superamento. La contrattazione collettiva può, peraltro, stabilire un termine superiore a 24 mesi, purché siano rispettate le causali.
Proroghe e rinnovi
Il contratto a termine può essere prorogato liberamente nei primi 12 mesi e, successivamente, solo in presenza di specifiche causali. Il Decreto Dignità è, poi, intervenuto sul numero di proroghe, ammettendo che il contratto a termine possa essere prorogato, con il consenso del lavoratore, per un massimo di 4 volte – e non più 5, come prevedeva la precedente normativa – nell’arco di 24 mesi. È appena il caso di rilevare che con riferimento ai rinnovi, invece, non è variato nulla rispetto agli intervalli di tempo da rispettare (c.d. stop and go). La legge di conversione, invece, ha solo previsto che il rinnovo possa essere stipulato “solo a fronte delle condizioni” sopra esaminate. Il superamento del limite di proroghe è sanzionato con la trasformazione del contratto a tempo indeterminato dalla data di decorrenza della quinta proroga.
Reintroduzione delle causali
Il Decreto Dignità è intervenuto anche in tema di causali, modifica, questa, che, oltre ad essere la più rilevante, costituisce per le aziende certamente una significativa fonte di preoccupazione motivo per cui è possibile che in futuro si ridurrà di molto il ricorso ai contratti a termine, e ciò, in primo luogo, come detto, a causa della profonda incertezza sulla corretta determinazione delle predette “condizioni”: le causali. Il “Decreto Dignità” ha stabilito che, qualora si intenda stipulare un contratto a tempo determinato di durata superiore ai 12 mesi o prorogare un contratto, la cui proroga porti il rapporto di lavoro ad una durata complessiva superiore ai 12 mesi – fermo sempre il limite massimo dei 24 mesi – oppure ogniqualvolta si intenda rinnovare con il medesimo lavoratore un contratto a termine già stipulato, il datore di lavoro deve indicare in forma scritta una delle seguenti condizioni giustificative:
1) esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività;
2) esigenze di sostituzione di altri lavoratori;
3) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria.
Sul punto si segnala che sono escluse le attività stagionali. Per l’individuazione delle predette condizioni giustificatrici a differenza che per altri istituti come la durata massima, il legislatore non ha previsto alcuna delega alla contrattazione collettiva, riducendo, così, gli spazi di intervento relativi al dettato normativo alla sola contrattazione territoriale o aziendale. Orbene, la reintroduzione delle causali, come già detto, comporta il ritorno ad un regime ancora più restrittivo di quello che vigeva ai tempi del D.Lgs. n. 268/2001, norma che introdusse il c.d. “causalone”, ossia le 4 causali generali di tipo tecnico, organizzativo, produttivo e sostitutivo, foriero di un copioso contenzioso. In buona sostanza, con il Decreto Dignità si assiste ad un ritorno al rigore e, quindi, al probabile recupero di quanto elaborato dalla giurisprudenza in costanza della vigenza del D.Lgs. n. 230/1962.
Il datore di lavoro dovrà, poi, giustificare in modo analitico, in forma scritta, la necessità di assumere a termine, specificando le ragioni in modo dettagliato, non potendo limitarsi a riportare pedissequamente una delle tre “macro” categorie indicate dal legislatore. Alla luce di quanto sopra esposto, quindi, quella di più semplice inquadramento, è senza dubbio la tipologia relativa alle “esigenze di sostituzione di altri lavoratori”, per la quale il legislatore è intervenuto sull’art. 19, comma 4, D.Lgs. n. 81/2015, prevedendo che il datore di lavoro indichi il nominativo del lavoratore sostituito (generalmente si tratta di lavoratori assenti con diritto alla conservazione del posto) e la data di fine sostituzione. La nuova formulazione prevede che in caso di mancata osservanza il contratto di lavoro sarà trasformato a tempo indeterminato.
Le altre due tipologie, al contrario, risultano più difficili da inquadrare e, conseguentemente, sono ad alto rischio di contenzioso per le imprese. Nello specifico, per quanto riguarda la prima tipologia di causali relativa alle “esigenze temporanee ed oggettive, estranee all’ordinaria attività” il datore di lavoro dovrebbe specificare in modo oggettivo la realizzazione di una attività non consueta dell’azienda, creatasi in modo non stabile, per soddisfare esigenze transitorie, quale potrebbe essere, ad esempio, l’attività di studio di fattibilità per operazioni societarie straordinarie di fusione, incorporazione, scissione. Da taluni è stato considerato che possa rientrare in questo genere di attività l’assunzione, ad esempio, a termine di lavoratori con specializzazioni diverse dalle qualifiche normalmente presenti in azienda.
Per quanto riguarda, infine, la terza tipologia di causali prevista dal Decreto Dignità individuata nelle “Esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria” innanzitutto sembra che i tre requisiti debbano sussistere congiuntamente. Si fa riferimento a quelle esigenze di breve durata (“temporanee”), di importanza rilevante e non marginale (“significativo”) e non prevedibili (“non programmabile”), quali, ad esempio, un aumento improvviso, inaspettato dell’attività ordinaria dell’impresa, non effettuabile con il personale in organico, quale potrebbe essere, ad esempio, un furto all’interno di un magazzino, che comporti un’attività di inventario inaspettata, impossibile da affrontare con il solo personale in forza in quel momento. Per quanto attiene all’incremento dell’attività di impresa, in dottrina si discute sulla criticità del termine “significativo”, rilevando come sia suscettibile di interpretazioni differenti a seconda che sia valutato internamente da un imprenditore nei confronti della propria azienda, o eventualmente dall’esterno da un Giudice. Ricordiamo, da ultimo, che il Decreto Dignità ha previsto l’inserimento delle causali non solo nel caso di contratti a termine che superino i 12 mesi, ma anche nei casi di proroghe e rinnovi successivi al 31 ottobre 2018. Rispetto ai rinnovi, tuttavia, per i quali il nuovo comma 01 dell’art. 21, D.Lgs. n. 81/2015 prevede l’obbligo di indicare sempre nel nuovo contratto la specifica ragione oggettiva dell’apposizione del termine, se intervenuti dopo il 31 ottobre 2018 – ciò a prescindere dalla durata del contratto o dei contratti precedenti – per le proroghe, invece, la previsione della nuova normativa è meno rigida, prevedendo che il contratto a termine nei primi dodici mesi possa essere prorogato liberamente (senza causale), imponendo l’apposizione della specifica causale nell’atto di proroga solo in caso di superamento dei dodici mesi.
Quanto al regime sanzionatorio, in caso di violazione in punto di proroghe la legge di conversione del Decreto ha chiarito che nell’ipotesi di superamento del numero massimo di proroghe il contratto a tempo determinato si trasformerà in contratto a tempo indeterminato a far data dalla quinta proroga, mentre nell’ipotesi di proroga oltre i 12 mesi “sfornita” di causale il contratto a tempo determinato si trasformerà in contratto a tempo indeterminato a far data dalla stipula del contratto originario.
Ampliamento del termine per l’impugnazione da parte del lavoratore
Il Decreto Dignità è intervenuto anche sul termine decadenziale riconosciuto al lavoratore per impugnare la legittimità del contratto a tempo determinato, modificando l’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, estendendo il termine da 120 giorni a 180 giorni dalla cessazione del singolo contratto, per effettuare la contestazione.
E in punto di diritto transitorio, anche con riferimento al nuovo termine per impugnare, alcuni commentatori hanno ipotizzato la seguente articolata casistica:
– nel caso di contratto scaduto entro il 13 luglio 2018 (anche per effetto di proroghe o rinnovi): termine breve di 120 giorni per impugnare;
– nel caso di contratto con scadenza tra il 14 luglio 2018 e il 31 ottobre 2018 (ma per effetto di un termine pattuito in precedenza): termine breve per impugnare di 120 giorni;
– nel caso di primo contratto stipulato dal 14 luglio 2018 in poi: nuovo termine lungo per impugnare di 180 giorni;
– nel caso di rinnovi o proroghe stipulati dal 14 luglio al 31 ottobre 2018 (qualunque sia la data di scadenza) sembra termine breve per impugnare di 120 giorni;
– nel caso di rinnovi o proroghe intervenuti dopo il 1° novembre 2018 (qualunque sia la scadenza): termine lungo di 180 giorni.
Forma del contratto
Il Decreto Dignità è intervenuto anche in punto di forma del contratto, modificando il comma 4, art. 19, D.Lgs. n. 81/2015, con riferimento alla possibilità, ora eliminata, di provare indirettamente (ad esempio per testimoni) la sottoscrizione dell’atto tra le parti.
Incremento della contribuzione
La novella legislativa è intervenuta sul testo dell’art. 2, comma 28, legge n. 92/2012 introdotto dalla legge Fornero inserendo il nuovo periodo che prevede a carico del datore di lavoro un incremento pari a 0,5% del contributo previdenziale addizionale dell’1,4% per il finanziamento della NASpI per ogni ipotesi di rinnovo del contratto a termine, salvo i soli contratti di lavoro domestici.
Esclusioni dal contratto
Rimangono esclusi dalle nuove norme in materia di causali per la proroga e il rinnovo, i contratti per attività stagionali. Infatti il nuovo art. 21, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015 prevede che “i contratti per attività stagionali … possono essere rinnovati o prorogati anche in assenza delle condizioni di cui all ’art. 19, comma 1”, in deroga rispetto alla disciplina di carattere generale. È prevista, invece, l’esclusione totale dall’applicazione della nuova disciplina per i contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni.