Il licenziamento disciplinare in generale e per plurime mancanze disciplinari anche nel rapporto dirigenziale (Cass. 7 novembre 2022 n. 32680)

Il licenziamento disciplinare.

Il licenziamento disciplinare è l’atto unilaterale con il quale il datore di lavoro recede dal rapporto lavorativo a prescindere dalla volontà del dipendente qualora questi, con il suo comportamento, ledendo i principi di diligenza, obbedienza e fedeltà posti alla base del lavoro dipendente, ovvero violando le norme stabilite dai contratti collettivi o dal codice disciplinare aziendale, abbia compromesso irrimediabilmente il rapporto di fiducia rendendo impossibile la prosecuzione del rapporto.

Il licenziamento disciplinare può essere motivato da:

  • giustificato motivo soggettivo: il licenziamento, comminato con preavviso, è causato da un notevole inadempimento del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali;
  • giusta causa: il licenziamento, senza preavviso, è determinato da un comportamento scorretto del lavoratore talmente grave da non consentire, nemmeno in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Ogniqualvolta il datore di lavoro intenda comminare la sanzione espulsiva deve necessariamente esperire la procedura prevista dall’art. 7 della Legge 300/1970 (Statuto dei Lavoratori), che si articola in tre fasi:

  • Contestazione di addebito: è imposto al datore un onere di preventiva contestazione dell’addebito attraverso una lettera formale scritta indirizzata al dipendente con cui lo stesso è invitato a rendere le proprie giustificazioni entro i cinque giorni successivi alla ricezione;
  • Formulazione delle giustificazioni: in questa fase il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante del sindacato cui aderisce o conferisce mandato. La Cassazione ha tuttavia chiarito che il suddetto termine non ha per il lavoratore natura decadenziale della facoltà di richiedere l’audizione a difesa, sicché è illegittima la sanzione disciplinare comminata ignorando la richiesta presentata oltre detto termine ma prima dell’adozione del provvedimento disciplinare (Cass. n. 23140 del 12/11/2015). Pertanto, una volta scaduti i cinque giorni, il dipendente può comunque chiedere l’audizione a difesa se nel frattempo il licenziamento non sia ancora stato intimato;
  • Comminazione del provvedimento definitivo: decorsi cinque giorni dalla contestazione, o dal termine maggiore a seguito dell’audizione del dipendente, il datore di lavoro comunica il provvedimento finale in forma scritta.

Va sottolineato come, a differenza del licenziamento per giustificato motivo, nel licenziamento disciplinare per giusta causa, non si applichi il periodo di preavviso in quanto esso è conseguenza di un comportamento del lavoratore talmente grave da impedire la prosecuzione, anche temporanea, del rapporto di lavoro.

La procedura di licenziamento disciplinare è legittima solo qualora sia adottata con le suddette formalità. Il mancato esperimento di tale procedura costituisce un vizio insanabile che comporta, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, l’illegittimità del licenziamento intimato.

Il lavoratore che ritenga di essere stato ingiustamente licenziato può impugnare il provvedimento definitivo entro il termine di sessanta giorni dalla ricezione, inviando al datore di lavoro una comunicazione con cui rende nota la volontà di contestare il licenziamento.

Entro 180 giorni dalla trasmissione della lettera di impugnazione del licenziamento, il lavoratore dovrà impugnare il licenziamento depositando il ricorso nella cancelleria del Tribunale.

La materia delle tutele applicabili in caso di licenziamento illegittimo è stata oggetto di modifiche prima ad opera della legge 92/2012 (c.d. riforma Fornero) e, successivamente, del decreto legislativo 23/2015, (c.d. Jobs Act), ai quali si rimanda per una compiuta analisi della materia.

Il licenziamento per plurime mancanze disciplinari

L’art. 7 dello Statuto dei lavoratori definisce indirettamente la recidiva: “Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione”. La recidiva, pertanto, si configura quando il lavoratore, nell’arco di due anni (che decorrono dalla comunicazione formale al lavoratore) ripeta la stessa infrazione che ha dato luogo ad un precedente provvedimento disciplinare (che sia stato cioè sanzionato), mentre non ricadono sotto l’ombrello della recidività le sanzioni che, pur commesse e conosciute, non siano state sanzionate.

In alcuni casi espressamente previsti dalla contrattazione collettiva la recidiva dà la possibilità al datore di lavoro di comminare il licenziamento disciplinare per recidiva.

Qualora il contratto collettivo non preveda il licenziamento disciplinare per recidiva, questo è comunque irrogabile quando la medesima violazione, ripetuta nel tempo, abbia irrimediabilmente compromesso il rapporto di fiducia con il lavoratore al punto da far ritenere che quest’ultimo non sia in grado di adempiere diligentemente alle proprie mansioni purché le precedenti violazioni siano state formalmente contestate.

Così, la Suprema Corte, esaminando il ricorso di un lavoratore, assente a visita di controllo e licenziato per recidiva (pur se nel caso di specie il CCNL prevedeva una sanzione di natura conservativa) per precedenti sanzioni disciplinari nel biennio, ha ritenuto costituire giusta causa di licenziamento l’immotivata assenza del lavoratore alla visita di controllo per malattia, osservando che tale assenza era sufficiente ad integrare giusta causa di licenziamento, considerato che tale atteggiamento, inserendosi in una serie di altre condotte sanzionate disciplinarmente nel biennio, esprimeva l’ostinazione del lavoratore nell’ignorare i doveri inerenti al modo di comportarsi in caso di malattia e che tale atteggiamento è da considerarsi motivo atto a compromettere in modo irreversibile la fiducia del datore di lavoro (Cass. civ., Sez. lavoro, 28/01/2015, n. 1603).

Qualora la recidiva sia elemento costitutivo della mancanza, e non già un mero criterio per valutare la gravità della condotta contestata, deve formare oggetto di preventiva contestazione, la quale deve essere precisa e tempestiva, a pena di nullità della sanzione. Quindi, per poter intimare il licenziamento per recidiva è necessario che la condotta reiterata sia stata contestata in occasione dell’addebito formale, con indicazione specifica dei precedenti disciplinari. I fatti contestati devono poter essere verificabili.

La completezza e la validità della contestazione non possono essere escluse per il semplice fatto che nella formulazione dell’addebito sia omessa l’espressione tecnica ‘recidiva’, rilevando però, ai fini della precisione, il necessario riferimento ai precedenti disciplinari già comunicati per iscritto al lavoratore (Cass. n. 15566/2019).

Quanto alla tempestività della contestazione disciplinare, il principio dell’immediatezza, che riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente al datore di lavoro di procrastinare la contestazione in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto. Il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare e del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 10/06/2019, n. 15566).

Rispetto al criterio della proporzionalità, nel licenziamento per recidiva, la proporzionalità della sanzione va valutata non solo in base alla loro ripetizione ma anche rispetto alla gravità dei singoli fatti commessi. Va innanzitutto rilevato come la contrattazione collettiva sia da considerarsi nulla tutte le volte in cui preveda una ipotesi automatica di sanzione disciplinare conservativa o espulsiva che prescinda dalla valutazione della sua proporzionalità rispetto all’infrazione commessa dal lavoratore, sia sotto il profilo soggettivo e sia sotto quello oggettivo. La previsione da parte della contrattazione collettiva della recidiva come ipotesi di licenziamento non esclude in ogni caso il potere del giudice, ai fini dell’accertamento della proporzionalità della sanzione espulsiva, di valutare la gravità in concreto dei singoli fatti addebitati, ancorché connotati dalla recidiva. La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo e risulta trasfusa, per l’illecito disciplinare, nell’art. 2106 cod. civ., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione ‘eccessiva’ proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 10/06/2019, n. 15566).

La Corte di Cassazione ritiene che soltanto la rilevanza autonoma, attribuita dalle fonti di regolazione del rapporto di lavoro alla recidiva, presuppone l’irrogazione di una sanzione disciplinare e incontra il limite del biennio, mentre la valutazione della gravità dell’inadempimento “si estende a tutti i fatti contestati al dipendente con l’avvio della procedura di licenziamento disciplinare, anche concernenti comportamenti tenuti in precedenza e per i quali il datore di lavoro non abbia ritenuto di irrogare sanzioni disciplinari, salva l’operatività del limite costituito dal principio di tempestività”. La Suprema Corte ha così confermato il licenziamento disciplinare di una dipendente non condividendo la tesi difensiva che si basava sull’assunto secondo cui gli inadempimenti sebbene contestati, ma per i quali il datore di lavoro aveva ritenuto di non infliggere sanzioni disciplinari, non potevano essere ripresi in sede di contestazione di inadempimenti diversi, né rilevare per la valutazione di gravità degli stessi e ciò in base alla regola secondo cui non può tenersi conto ad alcun effetto delle ‘sanzioni disciplinari’ decorsi due anni dalla loro applicazione (Cass. civ., Sez. lavoro, 19/12/2006, n. 27104).

Il licenziamento disciplinare nel rapporto dirigenziale

Il rapporto dirigenziale è disciplinato dagli artt. 2118 e 2119 cod. civ. – che non richiedono una motivazione per il recesso dal rapporto di lavoro – secondo cui ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro rispettando i termini di preavviso o, se il contratto è a tempo indeterminato, senza preavviso qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.

Il motivo di tale scelta legislativa risiede nel fatto che il dirigente è considerato l’alter ego dell’imprenditore e il suo rapporto con il datore di lavoro è caratterizzato da un notevole grado di fiducia.

A parte le ipotesi del licenziamento illegittimo previste dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (licenziamento discriminatorio, intimato in concomitanza col matrimonio, in violazione dei divieti di licenziamento stabiliti in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, oppure nullo per espressa previsione legislativa o determinato da un unico motivo illecito) la cui applicazione è espressamente prevista anche ai dirigenti, il licenziamento di questi lavoratori prevede una disciplina diversificata, caratterizzata dal principio di libera recedibilità.

A partire dagli anni ‘70, i CCNL di settore hanno progressivamente introdotto la nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente che, rispetto a quelle di giusta causa o di giustificato motivo ex art. 1, L. 604/1966, è più ampia e consente una maggior libertà di recedere. Il concetto di giustificatezza è ben esposto da una recente pronuncia del Tribunale di Reggio Emilia (n. 194 del 28/07/2022) e che vale la pena di riportare: “La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo ex art. 1 della legge n. 604 del 1966, potendo rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili “ex ante”, o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e quindi giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso”. Nel caso in esame, al dirigente, in occasione di una cena aziendale era stato contestato di aver posto a carico della società un costo non autorizzato utilizzando un escamotage fiscalmente non corretto al fine di far fatturare la somma discostandosi in tal modo dalle direttive aziendali ricevute. Il giudice adito, pur escludendo gli estremi della giusta causa, ha ravvisato nella condotta assunta dal dirigente gli estremi della giustificatezza del licenziamento rigettando la domanda di condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità supplementare.

Per converso, la carenza di giustificatezza si riscontra qualora il recesso sia meramente arbitrario, ossia quando il datore recede non osservando le clausole generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, quando il licenziamento sia intimato per ragioni meramente pretestuose, al limite della discriminazione, ovvero del tutto irrispettoso delle regole procedimentali che assicurano la correttezza dell’esercizio del diritto e, più in generale, in tema di giustificatezza (Corte d’Appello Roma, Sentenza, 15/04/2022, n. 1638).

Quando, però, il licenziamento sia di natura disciplinare, si applicano anche ai dirigenti le garanzie ex art. 7 dello Statuto dei Lavoratori.

A questa conclusione è giunta la Suprema Corte dopo un primo orientamento giurisprudenziale restrittivo. Infatti, se in una prima fase le Sezioni Unite della Corte Cassazione (sentenza n. 6042 del 29/05/1995) avevano escluso l’applicabilità dell’art. 7, L. 300/1970 nei confronti di tutti i dirigenti, con la successiva sentenza n. 1434 del 11/02/1998, gli ermellini hanno ritenuto invece applicabile le garanzie ex art. 7 cit. nei confronti del personale della media e bassa dirigenza, affermando che il  principio della non applicabilità ai dirigenti della norma in esame si riferisce solo ai dirigenti che si trovino in posizione apicale nell’ambito dell’impresa e siano muniti di ampio potere gestorio, tanto da poter essere definiti come l’alter ego dell’imprenditore e che nei loro confronti non siano ipotizzabili una dipendenza gerarchica e la sottoposizione al potere disciplinare dell’imprenditore.

Con la sentenza n. 7880 del 30/03/2007, la Cassazione ha infine esteso l’applicabilità delle garanzie procedimentali dettate dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori alle ipotesi di licenziamento dei dirigenti a prescindere dalla specifica collocazione assunta nell’impresa e indipendentemente dal livello di managerialità che rivestono all’interno dell’organizzazione aziendale.

Pertanto, in caso di licenziamento disciplinare anche al dirigente si applica la medesima procedura prevista per il licenziamento disciplinare del lavoratore (contestazione dell’addebito, termine di cinque giorni per presentare le giustificazioni, comminazione dell’eventuale licenziamento disciplinare). Al dirigente è poi concesso un termine di 60 giorni, che decorrono dal ricevimento della comunicazione da parte dell’azienda contenente le motivazioni, entro il quale dovrà rendere nota al datore di lavoro la sua volontà di contestare il licenziamento e un ulteriore termine di 180 giorni per agire giudizialmente.

In mancanza del rispetto delle garanzie previste dall’art 7 della L. 300/1970, il licenziamento disciplinare è illegittimo.

Cass. civ., Sez. lavoro, 07/11/2022, n. 32680

Sul tema del licenziamento del dirigente per plurime mancanze disciplinari, degna di nota appare la recente sentenza n. 32680 del 07/11/2022 resa dalla Corte di Cassazione sul ricorso di un dirigente che, a seguito del licenziamento comminatogli, impugnava la sanzione espulsiva per sentir accertare e dichiarare l’illegittimità del provvedimento per genericità della contestazione disciplinare, mancanza di giusta causa e giustificatezza e chiedeva la condanna della società al pagamento delle somme a lui spettanti in applicazione del patto di stabilità sottoscritto tra le parti (ovvero, in subordine, al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e delle altre somme dovute).

Mentre il giudice di primo grado accolse solo in parte il ricorso e ritenne privo di giusta causa, ma supportato da giustificatezza, il recesso evidenziando che il ricorrente era risultato compartecipe della elaborazione di un patto di stabilità particolarmente oneroso per la società e la condannava a pagare la sola somma chiesta a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la Corte territoriale investita del gravame, ritenuto che il licenziamento non fosse affetto da violazione dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori in quanto al lavoratore era stato assicurato il termine di cinque giorni per rendere le sue giustificazioni, escludeva che la contestazione di addebito potesse essere ritenuta generica atteso che erano stati indicati i comportamenti omissivi disciplinarmente rilevanti, tanto che le giustificazioni erano state puntuali e le difese mirate e ravvisava nella condotta del dirigente una giusta causa di recesso condannandolo a restituire le somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado.

Nel giudizio di appello veniva infatti verificato che il patto di stabilità sottoscritto tra le parti era stato volutamente retrodatato alla data di assunzione del dirigente; che non si trattava della formalizzazione di un accordo a quella data già intervenuto; che il patto era evidentemente sbilanciato in favore del dirigente e che le condizioni riportate non erano quelle contenute nel modello inviato dai legali di fiducia della datrice ma era stato formato con la connivenza dell’allora amministratore delegato, che peraltro non ne aveva il potere e senza che della questione fosse mai stato interessato il consiglio di amministrazione della società; che il dirigente, per il ruolo rivestito, era ben consapevole del fatto che il patto, per il suo contenuto e per i tempi in cui era stato realmente formato e sottoscritto, era in aperto conflitto con gli interessi della società. In base a tali accertamenti, la Corte territoriale ha ritenuto che la condotta accertata integrasse una giusta causa di recesso dal rapporto di lavoro, tenuto conto del ruolo apicale rivestito dal dirigente.

Ricorrendo in Cassazione, il professionista licenziato denunciava la violazione dell’art. 2119 cod. civ. e degli artt. 1 e 3 della L. 604/1966 in relazione all’art. 360, comma 1, sub 3, lamentando come la Corte territoriale avesse ignorato tutte le circostanze del caso concreto, ed in primis il fatto che nel secondo punto della contestazione disciplinare si contestavano al ricorrente svariate omissioni di azioni mirate a contenere i costi: addebito ritenuto in primo grado “del tutto destituito di fondamento” e sufficiente “ad escludere la giusta causa di licenziamento”. La Corte, secondo le doglianze del dirigente, non aveva esaminato questi punti, ritenendo assorbite dalla contestazione relativa al patto di stabilità tutte le altre censure delle parti. Ha anzi accertato che il ricorrente avrebbe “artatamente elaborato” il patto di stabilità, sfruttando l’appoggio dell’amministratore delegato, senza che però fosse stata offerta alcuna prova di tali presupposti di fatto.

La Cassazione evidenzia come la Corte territoriale abbia accertato in fatto una delle condotte contestate, cioè l’aver concorso il dirigente alla predisposizione di un patto di stabilità per sé particolarmente vantaggioso e allo stesso tempo estremamente gravoso per la società, retroattivo, e seguendo un percorso irrituale. Il giudice di appello ha verificato l’esistenza di un oggettivo notevole sbilanciamento in favore del lavoratore al quale era assicurata l’azionabilità del patto in ogni caso di recesso, ne ha valutata la gravità e l’ha ritenuta di per sé sufficiente a giustificare il recesso intimato.

La Suprema Corte giunge quindi ad affermare che, qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi, autonomamente considerato, costituisce base idonea per giustificare la sanzione e grava sul lavoratore l’onere di dimostrare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro. Ricorso rigettato.

Concludendo, il licenziamento disciplinare del dirigente, seppur caratterizzato dal principio della libera recedibilità stante il suo riconoscimento come alter ego dell’imprenditore, incontra i limiti imposti dalle garanzie dell’art 7 dello Statuto dei Lavoratori. Tuttavia, nei casi di licenziamento per plurime mancanze disciplinari, ai fini della giustificatezza del licenziamento, anche un solo episodio rilevante sul piano disciplinare può costituire base idonea per giustificare la misura espulsiva. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (Cass. 28/07/2017 n. 18836).