Come è noto, a livello nazionale, i contratti collettivi giocano un ruolo estremamente importante nell’ambito della tutela dei diritti dei lavoratori e della loro posizione di svantaggio rispetto alla figura del datore. Le contrattazioni relative ai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro sono dei veri e propri eventi in cui i diritti dei dipendenti sono argomento centrale dei lavori dei soggetti coinvolti, e da essi dipende il trattamento che a questi verranno riservati sia a livello nazionale che, di conseguenza, a livello decentrato nelle singole aziende locali. Ebbene, questo stesso concetto, e la stessa utilità che viene riservata ai contratti collettivi per come appena definiti, viene vissuta anche a livello unionale. Un esplicito riconoscimento in tal senso è infatti stato esplicitato nel titolo X del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), rubricato “politica sociale”. In particolare, l’art. 152 recita che “L’Unione riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali al suo livello, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali. Essa facilita il dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia. Il vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione contribuisce al dialogo sociale”.
Principali protagonisti dell’argomento oggetto dell’odierna analisi sono le parti sociali: è bene sin d’ora chiarire che esse, per prassi, siano identificate nei soggetti che agiscono nell’ambito del c.d. dialogo sociale (cioè quelli che portano all’adozione di accordi interconfederali o di contratti collettivi); e dunque, essere riviste nelle associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori e, talvolta, nel governo o negli enti locali. Con particolare riferimento all’ambito comunitario, le parti sociali devono essere consultate obbligatoriamente dalla Commissione delle Comunità europee qualora quest’ultima presenti proposte nell’ambito della politica sociale.
Le organizzazioni rappresentative a livello europeo delle parti sociali che sono chiamate a consulto dalla Commissione sono: la Confederazione europea dei sindacati; l’Unione delle industrie della Comunità europea; il Centro europeo delle imprese pubbliche. L’importanza della consultazione delle parti sociali sui futuri orientamenti delle politiche comunitarie e delle eventuali proposte in materia sociale si evidenzia con l’istituzione del Comitato economico e sociale e con il Comitato delle Regioni.

Il diritto europeo e il diritto italiano
Prima di procedere ulteriormente nell’analisi dell’argomento in esame, ricordiamo che i Trattati sull’Unione Europea e sul Funzionamento dell’Unione Europea (TUE e TFUE) nascono nel 2007 ed entrano in vigore nel 2009, segnando una svolta storica per il diritto interno dell’Unione. Sino a quel momento, infatti, esso si basava su altri tipi di Trattati e vigeva, in generale, un assetto ben diverso e più complesso di quello che le riunioni avvenute a Lisbona tra i maggiori rappresentati degli Stati membri sono riusciti a designare di comune accordo. Non è necessario addentrarsi nei meccanismi unionali e nei cambiamenti ad essi apportati nel corso degli anni, ma appare opportuno chiarire quale sia, all’esito dei lavori che li hanno visti protagonisti, il valore loro affidato specialmente con riferimento al diritto nazionale italiano, e perché la contrattazione collettiva nello specifico possa e debba rifarsi agli standard stabiliti da Bruxelles.
A norma degli articoli 11 e 117 della Costituzione italiana, i Trattati europei hanno rango privilegiato all’interno del nostro ordinamento. Ciò vuol dire che le disposizioni in essi contenuti non possono essere in contrasto con il resto della normativa nazionale, neppure quella che ricade sotto l’ombrello della Costituzione. Per una massima completezza, tuttavia, si ricordi la c.d. “teoria del controlimiti”, la quale impone un unico veto che le norme europee hanno il dovere di rispettare con riferimento alle regole di ciascuno Stato membro: un nucleo duro di valori (espressi in Costituzione) che, anche se in conflitto con quanto prescritto dal diritto unionale, non possono comunque da essi essere modificati.
Un breve cenno alla storia che precede l’argomento di odierna trattazione: il Trattato del 1957 riconosceva alla politica sociale un ruolo decisamente marginale, essendo l’obiettivo principale della Comunità economica europea la creazione di un mercato comune fondato sulla concorrenza e caratterizzato dalla liberalizzazione degli scambi, ed assegnava alla politica sociale un ruolo non autonomo, bensì solo complementare all’integrazione economica. Si riteneva, infatti, che i benefici del mercato fossero da soli sufficienti a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini degli Stati membri. Tra l’altro, una delle ragioni del difficile avvio del dialogo sociale era costituita dal fatto che, in quel periodo, le organizzazioni sindacali erano solo all’inizio del loro processo di riconoscimento.
Ad oggi, può dirsi che sia vigente un generale principio di preminenza del diritto comunitario.
A prescindere, infatti, dal percorso storico che tale principio abbia affrontato (relegato da parte integrante della Costituzione Europea (art. I-6) a mero allegato, tra gli altri, del Trattato di Lisbona su istanza di vari Stati membri), esso è stato comunque ribadito dal Servizio Giuridico del Consiglio d’Europa quale principio fondamentale del diritto comunitario stesso. Secondo la Corte, in effetti, tale principio è insito nella natura della Comunità europea. All’epoca della prima sentenza di questa giurisprudenza consolidata, (Costa contro ENEL, 15 luglio 1964) non esisteva alcuna menzione di preminenza nel trattato, e tale situazione è rimasta intatta (il riferimento alla sentenza appena citata resta, infatti, ancora del tutto attuale). Il principio fu storicamente introdotto dalla Corte di Giustizia Ue e solo successivamente recepito dai trattati dell’Unione; esso viene oggi applicato anche dai giudici nazionali mediante la disapplicazione di norme nazionali in contrasto col diritto dell’UE, sia in ambito civileprivatistico ed in particolare giuslavoristico, che nel diritto amministrativo.
Ovviamente, il diritto del lavoro in generale, e la contrattazione collettiva in particolare, si pone invece in una posizione di flessibilità rispetto alla legislazione imposta dall’Unione europea: di ciò si dirà più approfonditamente nel corso della presente trattazione.

La disciplina della contrattazione collettiva europea
Il vero punto di partenza per affrontare la questione della politica sociale a livello europeo, deve essere identificato nell’art. 151 TFUE (ex art. 136 TCE), il quale riporta che “L’Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta Sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivi la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione. A tal fine, l’Unione e gli Stati membri mettono in atto misure che tengono conto della diversità delle prassi nazionali, in particolare nelle relazioni contrattuali, e della necessità di mantenere la competitività dell’economia dell’Unione. Essi ritengono che una tale evoluzione risulterà sia dal funzionamento del mercato interno, che favorirà l’armonizzarsi dei sistemi sociali, sia dalle procedure previste dai trattati e dal ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative”. Questo articolo, che apre il titolo X del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, ripercorre brevemente la storia dei Trattati e degli incontri che hanno portato, a livello comunitario, a giungere alla condizione per come è oggi, fino ad enunciare, infine, i principi generali che ispirano l’azione dell’Unione Europea dal punto di vista del più importante tra i diritti sociali: quello al lavoro, ed alla tutela nel momento della prestazione del lavoro. Gli articoli seguenti, poi, rivelano i percorsi tecnici da seguire affinché questi principi non restino generali, ma trovino ancoraggio alle particolari situazioni nazionali di ciascuno Stato membro, sulla spinta sapiente delle istituzioni europee.
Nell’art. 153 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (ex art. 137 del Trattato della Comunità Europea), difatti, è definito l’iter che le istituzioni devono compiere al fine di porre in essere quanto prefissato negli articoli del capo X, così come appena riportato. A tal fine, il Parlamento europeo ed il Consiglio possono adottare misure destinate ad incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri attraverso iniziative volte a migliorare la conoscenza, a sviluppare gli scambi di informazioni e di migliori prassi in diversi ambiti, tra i quali:

  • miglioramento dell’ambiente di lavoro per proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori;
  • condizioni di lavoro;
  • sicurezza sociale e protezione sociale dei lavoratori, rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro.

Ciò può essere raggiunto (art. 153 TFUE) attraverso l’adozione di direttive che chiariscano le prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro. Le direttive emanate secondo quanto appena evidenziato nascono, di norma, dal procedimento legislativo ordinario di cui all’art. 294 TFUE, che vede la collaborazione del Consiglio e del Parlamento, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle Regioni. Con riferimento a queste ultime due figure, occorre specificare che si tratta di due organi “minori” della grande macchina europea, composti da soggetti rappresentanti delle organizzazioni di categoria e degli enti locali che riportano e tutelano gli interessi dei propri gruppi di provenienza di fronte alle istituzioni europee; essi hanno un compito sostanzialmente consultivo nella formazione normativa in ambito comunitario, ed al fine di garantire una migliore cooperazione hanno sede proprio a Bruxelles.
Tuttavia, con particolare riferimento ad alcuni ambiti (protezione dei lavoratori in caso di risoluzione del rapporto di lavoro; sicurezza sociale e protezione dei lavoratori; rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e dei datori di lavoro; condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi che soggiornano legalmente nel territorio dell’Unione), il meccanismo europeo prescrive la necessità che si deliberi secondo procedura legislativa speciale (in cui il ruolo del Parlamento viene certamente ad avere meno rilievo rispetto a quello del Consiglio).
Sempre all’art. 153 TFUE, tuttavia, viene chiarito che le disposizioni sinora richiamate non possano compromettere “la facoltà riconosciuta agli Stati membri di definire i principi fondamentali del loro sistema di sicurezza sociale e non devono incidere sensibilmente sull’equilibrio finanziario dello stesso” e neppure che ostino “a che uno Stato membro mantenga o stabilisca misure, compatibili con i tratti, che prevedano una maggiore protezione. Tali disposizioni non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata”.
Il paragrafo III dell’art. 153 TFUE, peraltro, riconosce una interessante facoltà agli Stati membri, e cioè quella di affidare alle parti sociali, su richiesta congiunta dei protagonisti, il compito di mettere in atto le direttive emanate tramite procedura legislativa ordinaria. In tal caso, si legge nell’articolo, il Consiglio “si assicura che, al più tardi alla data in cui una direttiva o una decisione devono essere attuate, le parti sociali abbiano stabilito mediante accordo le necessarie disposizioni, fermo restando che lo Stato membro interessato deve adottare le misure necessarie che gli permettano di garantire in qualsiasi momento i risultati imposti da detta direttiva o detta decisione”. Pertanto, in base a quanto disposto dalle norme ora esaminate, non è assolutamente escluso che il dialogo fra le parti possa sostanzialmente condurre a relazioni contrattuali (compresi gli accordi). Il dialogo sociale, comunque, investe una vasta gamma di procedure che possano essere ricondotte sotto questo nome: lo scambio di informazioni, l’attività di lobbying che negli ambienti comunitari gioca un ruolo fondamentale specie a livello legislativo; e, solo in parte, la stipulazione collettiva per come la conosciamo a livello nazionale.
Il successivo art. 154 TFUE prescrive poi che “la Commissione ha il compito di promuovere la consultazione delle parti sociali al livello dell’Unione, e prende ogni misura utile per facilitarne il dialogo provvedendo ad un sostegno equilibrato delle parti. A tal fine, la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della politica sociale, consulta le parti sociali sul possibile orientamento di una azione dell’Unione. Se, dopo tale consultazione, ritiene opportuna una azione dell’Unione, la Commissione consulta le parti sociali sul contenuto della proposta prevista. Le parti sociali trasmettono alla Commissione un parere o, se opportuno, una raccomandazione. In occasione delle consultazioni le parti sociali possono informare la Commissione della loro volontà di avviare il processo previsto dall’art. 155. La durata di tale processo non supera 9 mesi, salvo proroga decisa in comune dalle parti sociali interessate e dalla Commissione”.
In riferimento a quanto appena riportato, il processo di cui all’art. 155 TFUE prevede il dialogo fra le parti sociali comunitarie, il quale può portare a relazioni contrattuali, nonché ad accordi. Tali accordi saranno poi attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri, a meno che non si tratti di settori contemplati dall’art. 153 precedentemente esaminato: in tal caso, sarà quella la procedura da rispettare nonché, laddove vi sia richiesta congiunta delle parti firmatarie, anche sulla base di una decisione del Consiglio su proposta della Commissione, di cui il Parlamento sarà informato.
Ai sensi dell’art. 159 TFUE, “la Commissione elabora una relazione annuale sugli sviluppi nella realizzazione degli obiettivi dell’art. 151, compresa la situazione demografica dell’Unione. Essa trasmette la relazione al Parlamento europeo, al Consiglio, e al Comitato Economico e Sociale”.

L’efficacia della contrattazione collettiva comunitaria
Ad oggi, le parti sociali comunitarie non agiscono in base ad una delega alla contrattazione da parte delle organizzazioni nazionali e, pertanto, il contratto collettivo comunitario non potrebbe neanche esplicare un’efficacia obbligatoria nei confronti delle associazioni nazionali affiliate a quelle comunitarie stipulanti. Le fonti comunitarie, infatti, come chiarito supra ed in base al contenuto dell’art. 153 TFUE (ex art. 137 TCE), assegnano all’autonomia collettiva un ruolo anche nell’attuazione del diritto comunitario, affidandole, accanto al ruolo consultivo e normativo, anche quello implementativo: uno Stato membro, infatti, può affidare alle parti sociali, a loro richiesta congiunta, l’attuazione delle direttive del legislatore comunitario.

Tuttavia, gli accordi europei adottati su iniziativa delle stesse parti sono comunque stati pochissimi nel corso degli anni; gli stessi, peraltro, restano assoggettati al controllo della Commissione, diretto a verificarne la conformità agli obiettivi comunitari, dall’altro la Corte di Giustizia continua a negare il riconoscimento dell’autonomia collettiva in quanto tale. Anche se la contrattazione collettiva continua a non formare oggetto di interventi normativi, cosa che invece si verifica con riferimento agli altri ambiti di azione previsti dal capitolo X del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (diritti di informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori), soprattutto per via del difficile rapporto fra le competenze degli Stati membri e dell’Unione sull’argomento, l’indirizzo delle istituzioni sembra quello teso a valorizzare l’autonomia delle parti sociali. Ciò si evince con particolare riferimento alle comunicazioni redatte dalla Commissione ed indirizzate a promuovere il dialogo sociale, così come l’art. 151 TFUE stesso si propone di fare. Un esempio ne è il c.d. “documento di lavoro dei servizi della Commissione sul funzionamento e sul potenziale del dialogo sociale settoriale a livello europeo”; in esso viene specificato che “a partire dal trattato di Amsterdam, il dialogo sociale europeo è stato in grado di rappresentare una fonte autonoma di diritto in materia sociale”. La vera svolta, però, è arrivata con la nuova versione dell’art. 152 TFUE (analizzato supra) che, come si è visto, conferisce un vero e proprio riconoscimento formale alle parti sociali a livello comunitario, anche attraverso l’individuazione del diritto primario dell’Unione da adoperare in riferimento alle attività da portare avanti. Senza dubbio, il merito più grande dell’art. 152 TFUE è quello di riconoscere il ruolo delle parti sociali e del dialogo sociale, nei termini intesi supra, “nel rispetto della loro autonomia”, nonché di attribuire definitivamente alla consultazione sociale tripartita il valore di fonte del diritto sociale comunitario, cosa che accade per la prima volta e che conferisce autonomia e formalità agli istituti di cui in argomento. Alcuni sostengono che, a partire dall’assunto di cui all’articolo appena citato, sarebbe addirittura possibile intravedere un principio di libertà sindacale simile a quello che conosciamo in ambito nazionale. Altri, invece, ritengono che l’efficacia degli accordi collettivi sarebbe invece da subordinare alla recezione del contenuto della norma che li rende produttivi di effetti, e del modo in cui vengono riprodotti all’interno del sistema legislativo nazionale. Quest’ultima tendenza, peraltro, renderebbe efficace l’opinione maggioritaria secondo cui, nell’ambito europeo, occorre distinguere tra rilevanza ed efficacia: la prima discende dalla circostanza che gli accordi collettivi siano direttamente presi in considerazione dall’ordinamento comunitario, la seconda necessita dell’adozione di un ulteriore atto di livello europeo o nazionale, grazie al quale gli accordi divengono oltre che rilevanti anche efficaci. I nuovi artt. 154 e 155 TFUE, infatti, sembrano andare in tal senso valorizzando l’autonomia delle parti sociali nell’ambito del medesimo dialogo sociale.

Infine, è stato il Trattato di Lisbona a produrre, nel 2009, quelle stesse conseguenze che asseconderebbero l’utilizzo dell’ordinamento intersindacale italiano, riproponendolo nello schema europeo. L’ordinamento statuale infatti, senza regolare i prodotti dall’attività normativa dell’ordinamento sindacale, si limiterebbe a riconoscere le due garanzie costituzionali (la libertà sindacale e il diritto di sciopero), quali presupposti dell’esistenza di quell’ordinamento e della “autonomia collettiva”. Ciò consentirebbe a tutti i contratti collettivi, anche a quelli che non siano espressamente regolati dalla legge, di essere rilevanti ed efficaci oltre che nell’ordinamento sindacale anche in quello nazionale. L’affermarsi progressivamente di forme diverse di dialogo sociale “autonomo”, che non si contrappongono ma si giustappongono alla forma più tradizionale di contrattazione collettiva “istituzionale” o “tipica”, secondo alcuni sarebbe il risultato non solo di un arretramento spontaneo delle istituzioni europee ma anche di uno spontaneo avanzamento delle stesse parti sociali.

Tali autori, sulla base di simili considerazioni, hanno ritenuto che le forme negoziali “autonome” abbiano finito per prevalere nei confronti di quelle “istituzionali”, essendosi notevolmente incrementato il numero di accordi attuati autonomamente dalle parti.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO E PRATICA DEL LAVORO