Caratteri generali del pubblico impiego
Il rapporto di lavoro che si instauri tra un dipendente e un datore di lavoro privato (ad esempio, un titolare di azienda) presenta delle nette differenze rispetto al contratto di lavoro concluso nel caso in cui una delle parti sia una Pubblica amministrazione. Tali differenze sono pacificamente riconosciute, sì da identificare il rapporto di lavoro pubblico come “speciale”.
In particolare, è opportuno ricordare che la materia del pubblico impiego non trova una precisa codificazione nel nostro ordinamento: la prassi, infatti, la fa discendere in senso generale dall’articolo 97, (commi 3 e 4) Costituzione, i quali recitano che “Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.
Con particolare riferimento alle fonti normative, occorre precisare che la vera prima disciplina organica del pubblico impiego si ebbe con la legge n. 3/1957, il c.d. “Testo unico degli impiegati civili dello Stato”, essendo lo stesso, fino a prima della norma in argomento, oggetto di una disciplina unilaterale scaturente senza che alcun tipo di rilievo venisse riconosciuto alla fonte contrattuale. Ad oggi, particolare importanza riveste la riforma c.d. “Brunetta”, di cui alla legge n. 15/2009 e del relativo Decreto attuativo (D.Lgs. n. 150/2009). Tra le diverse novità e “rivoluzioni” apportate dalla riforma di cui in argomento, essa si pregia di aver inserito nel pubblico impiego il principio di trasparenza e la valutazione della performance lavorativa: ciò significa, con riferimento al primo elemento, che le informazioni sull’organizzazione e sulle attività delle pubbliche amministrazioni devono essere accessibili per chiunque; in secondo luogo, è stata modificata l’attribuzione selettiva degli incentivi economici e di carriera verso i dipendenti più meritevoli, i quali saranno, a tal scopo, preventivamente giudicati. Ancora, la c.d. “Riforma Brunetta” ha introdotto la valorizzazione del merito al fine di valutarlo sì da incentivare la produttività dei dipendenti, anche attraverso la creazione di nuovi e migliori strumenti premialità; essa ha altresì inasprito le sanzioni disciplinari e, più in generale, ha apportato diverse modifiche in riferimento alla responsabilità dei pubblici impiegati. Ancora più interessante ai fini della presente trattazione, la riforma in argomento ha anche innovato la materia della dirigenza nel settore delle pubbliche amministrazioni e la contrattazione collettiva di questo ambito: in particolare, il dirigente viene ora ad essere designato quale “datore di lavoro” nelle pubbliche amministrazioni.
Ulteriori novità sono poi state apportate, nel corso degli anni, dalla c.d. “riforma Madia” (legge n. 114/2014) e dei D.Lgs. nn. 74 e 75 del 2017. Infine, nel 2019, la legge n. 56, c.d. “legge concretezza” ha introdotto, appunto, il c.d. “nucleo della concretezza”, con il quale si è tesi a garantire l’efficienza dei pubblici uffici e maggiori funzioni di vigilanza sul corretto funzionamento delle amministrazioni.
Anche con riferimento all’attività dirigenziale (e, più in generale, all’impiego pubblico), una posizione di rilievo è detenuta dalla contrattazione collettiva (nazionale di comparto e integrativa). Nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, l’unità fondamentale della stessa è rappresentata dal comparto. Nel tempo, ne sono stati definiti di diversi, come ad esempio il comparto dei Ministeri, degli Enti pubblici non economici, delle Regioni e autonomie locali, del Servizio sanitario nazionale, della Scuola, dell’Università, della Presidenza del Consiglio, delle Agenzie fiscali, nonché degli Istituti di alta formazione e specializzazione artistica e musicale ed Enti di ricerca e sperimentazione. In attuazione della c.d. “Riforma Brunetta”, tuttavia, si era inteso ridurre i comparti ad un numero totale di quattro: nel 2016, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran) e i vari sindacati hanno raggiunto un accordo in base al quale, difatti, i comparti e le aree di contrattazione sono state ridotte a quattro sia per i dirigenti che per il personale non dirigenziale.

Il concorso pubblico
Stando a quando appena enunciato, dunque, il concorso pubblico rappresenta la forma ordinaria per l’accesso all’impiego nel settore pubblico. Tali procedimenti di selezione vengono svolti sulla base di alcuni principi fondamentali, enunciati in Costituzione, quali l’adeguata pubblicità della selezione, modalità di svolgimento imparziali e trasparenti, e decentramenti delle procedure di reclutamento.
È la stessa pubblica amministrazione che bandisce il concorso cui partecipare per accedervi, sulla base di un “piano triennale dei fabbisogni”, cioè un atto amministrativo che si occupa di pianificare, per il triennio successivo allo stesso, la gestione delle risorse umane all’interno della P.A. di riferimento.
In base a quanto enunciato dall’articolo 2, D.P.R. n. 487/1994, i requisiti generali per accedere alle prove bandite nel concorso sono:

  • cittadinanza: sia i cittadini italiani che, più in generale, quelli europei possono accedere al pubblico impiego;
  • maggiore età;
  • godimento dei diritti politici;
  • titolo di studio valido (il quale varia a seconda della posizione specifica che la pubblica amministrazione ricerca tramite un determinato concorso).

In generale, è opportuno sottolineare che, una volta concluso l’iter del concorso, per le pubbliche amministrazioni vige il divieto di assumere personale secondo forme contrattuali diverse dal lavoro subordinato a tempo indeterminato. Eventuali eccezioni a tale regola possono essere poste in essere in casi in cui vi siano comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale: ciò consentirebbe la conclusione di contratti di lavoro a tempo determinato, o di formazione, o di somministrazione di lavoro – oltre alla possibilità di fare uso di alcune forme di flessibilità.
È, invece, ormai prassi che una pubblica amministrazione, in qualità di datrice di lavoro, concluda con i propri dipendenti contratti a tempo parziale, o anche di apprendistato. Essa, inoltre, può ricorrere ad incarichi individuali esterni – può, cioè, affidare determinati lavori a soggetti che non facciano stabilmente parte dell’amministrazione stessa) – ma solo laddove ricorrano specifiche esigenze non fronteggiabili con il personale
in servizio, essendo necessari, invece, figure professionali esperte aventi particolare e comprovata specializzazione, anche universitaria (art. 7, c. 6, D.Lgs. n. 165/2001).

Il rapporto dirigenziale
Di particolare rilevanza per quanto riguarda il rapporto di lavoro dirigenziale nel pubblico impiego è certamente il D.Lgs. n. 165/2001, il quale ha inserito in questo settore dei criteri privatistici di managerialità ed efficienza, elevando la figura del dirigente pubblico quasi a quella di un datore di lavoro privato. In particolar modo, l’art. 4, comma 2 del citato testo normativo recita che “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”. Ciò comporta che al dirigente venga riconosciuta una autonomia decisionale propria, assumendosi così la responsabilità degli atti amministrativi che approva anche – e soprattutto – nel momento in cui essi producono effetti al di fuori dell’amministrazione stessa. Inoltre, la competenza del dirigente (e, dunque, la responsabilità di cui viene onerato) si estende anche alla gestione tecnica, finanziaria ed amministrativa: a questi, infatti viene riconosciuta una serie di poteri da esercitare in autonomia, quali quello di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentale o di controllo.
Successivamente, un ruolo centrale per la categoria dei dirigenti nel settore pubblico è stato certamente giocato dalla c.d. “riforma Brunetta” (come già detto, nata con il D.Lgs. n. 150/2009). In particolare, detta fonte normativa, come già accennato supra, ha riconosciuto il dirigente come responsabile della gestione delle risorse umane in maniera ancora più pregnante, avendo questi il potere di stabilire la qualità delle performance lavorative poste in essere dai dipendenti statali a lui sottoposti, che a questo punto sono paragonati a dei suoi effettivi dipendenti. Si chiarisca, infatti, che sono proprio i dirigenti ad individuare i profili professionali necessari per l’amministrazione cui è loro affidata la gestione.
L’art. 21, D.Lgs. n. 165/2001, rubricato “Responsabilità dirigenziale”, recita che “Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione […] ovvero l’inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l’eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l’amministrazione può inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l’incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all’articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall’amministrazione […], la retribuzione di risultato è decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravità della violazione di una quota fino all’ottanta per cento. Restano ferme le disposizioni vigenti per il personale delle qualifiche dirigenziali delle Forze di polizia, delle carriere diplomatica e prefettizia e delle Forze armate”. Ciò significa, sul piano pratico, che i maggiori poteri riconosciuti in capo al dirigente comportano, com’è normale che sia, una maggiore responsabilità, dovendo questi eventualmente rispondere del mancato esercizio dei propri poteri laddove una loro omissione cagioni uno scarso rendimento dei loro sottoposti (cioè degli altri dipendenti pubblici a loro gerarchicamente inferiori).
L’art. 23, rubricato “Ruolo dei dirigenti”, sancisce invece che “In ogni amministrazione dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, è istituito il ruolo dei dirigenti, che si articola nella prima e nella seconda fascia, nel cui àmbito sono definite apposite sezioni in modo da garantire la eventuale specificità tecnica. I dirigenti della seconda fascia sono reclutati attraverso i meccanismi di accesso di cui all’articolo 28. I dirigenti della seconda fascia transitano nella prima qualora abbiano ricoperto incarichi di direzione di uffici dirigenziali generali o equivalenti, in base ai particolari ordinamenti di cui all’articolo 19, comma 11, per un periodo pari almeno a cinque anni senza essere incorsi nelle misure previste dall’articolo 21 per le ipotesi di responsabilità dirigenziale, nei limiti dei posti disponibili, ovvero nel momento in cui si verifica la prima disponibilità di posto utile, tenuto conto, quale criterio di precedenza ai fini del transito, della data di maturazione del requisito dei cinque anni e, a parità di data di maturazione, della maggiore anzianità nella qualifica dirigenziale. È assicurata la mobilità dei dirigenti, nei limiti dei posti disponibili in base all’articolo 30 del presente decreto. I contratti o accordi collettivi nazionali disciplinano, secondo il criterio della continuità dei rapporti e privilegiando la libera scelta del dirigente, gli effetti connessi ai trasferimenti e alla mobilità in generale in ordine al mantenimento del rapporto assicurativo con l’ente di previdenza, al trattamento di fine rapporto e allo stato giuridico legato all’anzianità di servizio e al fondo di previdenza complementare. La Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della funzione pubblica cura una banca dati informatica contenente i dati relativi ai ruoli delle amministrazioni dello Stato”.
Tuttavia, il vero perno della carica dirigenziale nel settore pubblico è rappresentato dall’art. 19, del Decreto in argomento, rubricato “Incarichi dirigenziali”. Andando per ordine, in esso si legge che: “Ai fini del conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati ed alla complessità della struttura interessata, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, dei risultati conseguiti in precedenza nell’amministrazione di appartenenza e della relativa valutazione, delle specifiche competenze organizzative possedute, nonché delle esperienze di direzione eventualmente maturate all’estero, presso il settore privato o presso altre amministrazioni pubbliche, purché attinenti al conferimento dell’incarico. […]”.
Per quanto riguarda la revoca degli incarichi dirigenziali, il comma 1-ter precisa che ciò può verificarsi sempre e in ogni caso previa contestazione dell’addebito disciplinare e rispetto del principio del contraddittorio, tenendo conto di quanto disposto in merito anche dai contratti collettivi di riferimento. Ancora, la disciplina definita dal D.Lgs. n.
165/2001 dispone che “Tutti gli incarichi di funzione dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, sono conferiti secondo le disposizioni del presente articolo. Con il provvedimento di conferimento dell’incarico, ovvero con separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei ministri o del Ministro competente per gli incarichi di cui al comma 3, sono individuati l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico, che deve essere correlata agli obiettivi prefissati e che, comunque, non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni. La durata dell’incarico può essere inferiore a tre anni se coincide con il conseguimento del limite di età per il collocamento a riposo dell’interessato. Gli incarichi sono rinnovabili. Al provvedimento di conferimento dell’incarico accede un contratto individuale con cui è definito il corrispondente trattamento economico […]. È sempre ammessa la risoluzione consensuale del rapporto. In caso di primo conferimento ad un dirigente della seconda fascia di incarichi di uffici dirigenziali generali o di funzioni equiparate, la durata dell’incarico è pari a tre anni […]”.
Con particolare riferimento agli incarichi di Segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente, lo stesso art. 19 specifica che essi sono conferiti “previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali e nelle percentuali previste dal comma 6”. Invece, gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale “sono conferiti con  decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente, a dirigenti della prima fascia dei ruoli di cui all’articolo 23 o, in misura non superiore al 70% della relativa dotazione, agli altri dirigenti appartenenti ai medesimi ruoli ovvero, con contratto a tempo determinato, a persone in possesso delle specifiche qualità professionali richieste dal comma 6”. In detto comma 6 viene chiarito che gli incarichi di cui in argomento possono essere conferiti da ciascuna amministrazione entro il 10% della dotazione organica dei dirigenti di prima fascia ed entro l’8% di quelli di seconda fascia. Peraltro, del conferimento di detti incarichi “è data comunicazione al Senato della Repubblica ed alla Camera dei deputati, allegando una scheda relativa ai titoli ed alle esperienze professionali dei soggetti prescelti”.
In definitiva, dunque, si può così riassumere il percorso professionale di un dirigente di ruolo: una volta superato il concorso, questi conclude un contratto di lavoro individuale con la Pubblica amministrazione di riferimento, il quale però diviene effettivo solo con il conferimento di un apposito incarico, secondo l’iter brevemente suesposto di cui all’art. 19 del più volte citato D.Lgs. n. 165/2001. Tale conferimento sarà vario, a seconda della posizione che il dirigente andrà a ricoprire, delle sue competenze, nonché del livello di complessità e difficoltà degli incarichi che gli verranno assegnati, e dei risultati già in precedenza dallo stesso raggiunti. Sarà il provvedimento del conferimento a specificarne l’oggetto, nonché tutte le caratteristiche di cui si è appena detto.
Per quanto riguarda il trattamento economico dei dirigenti, l’articolo 24 del citato Decreto precisa che esso è determinato dai contratti collettivi per le aree dirigenziali, in base ad una graduazione delle funzioni e responsabilità relative al trattamento accessorio del dirigente, definita con decreto ministeriale per le amministrazioni dello Stato, e con provvedimento dei rispettivi organi di Governo per le altre amministrazioni/enti.
È opportuno, infine, sottolineare che l’incarico dirigenziale ha una durata minima di tre anni a meno che non coincida con il limite di età per il collocamento a riposo del soggetto interessato.

Lo spoil system
A chiusura della presente trattazione, appare interessante soffermarsi brevemente sul concetto di spoil system (istituto di chiara discendenza statunitense): esso corrisponde al potere riconosciuto al governo eletto di scegliere, proprio a seguito delle consultazioni elettorali, i soggetti da porre in posizioni verticistiche all’interno dell’apparato
burocratico. Negli Stati Uniti d’America, esso si concretizza nella scelta di parte del personale burocratico esclusivamente basata sul carattere fiduciario che lega il rapporto intercorrente tra il personale stesso e l’organo istituzionale che lo sceglie come tale. Ciò significa che la vita professionale del burocrate così “eletto” sarà indissolubilmente legata alla vita dell’esecutivo che gli ha conferito l’incarico.
Nell’ambito dirigenziale italiano, il concetto di spoil system è stato ritrovato nel comma 8, articolo 19, D.Lgs. n. 165/2001 il quale, come abbiamo appena visto, si occupa degli incarichi dirigenziali apicali delle amministrazioni statali (e cioè il Segretario generale e il Capo di dipartimento). Ebbene, incarichi di tal sorta presentano la particolarità di cessare automaticamente decorsi 90 giorni dal voto di fiducia ottenuto dal Governo successivo a quello che li ha conferiti. Nonostante questo, il sottostante rapporto di lavoro del dirigente di ruolo e il contratto a tempo indeterminato concluso al momento della sua assunzione non subisce alcun tipo di conseguenza.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO E PRATICA DEL LAVORO