Lo scorso ottobre la Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza con la quale si è espressa con riferimento alla non discriminazione dei trattamenti retributivi basata sul sesso dei lavoratori. Nello specifico, la Corte ha considerato ed analizzato il contenuto della prescrizione di cui all’ articolo 119 del Trattato della Comunità Europea (in precedenza, art. 141 Trattato di Amsterdam), il quale recita:
“1. Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
2. Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo. La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:
a) che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;
b) che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro.
3. Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale, adotta misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ivi compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.
4. Allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali”. Di seguito, una breve disamina del contenuto dell’articolo appena esposto, nonché del suo significato alla luce del contesto normativo inglese (in cui si verifica la controversia principale), su cui la sentenza della Corte europea impone il proprio sindacato.

La questione pregiudiziale rispetto alla sentenza
Il caso specifico affrontato dalla sentenza in argomento vede protagonisti la Safeway Ltd, società di diritto inglese, contro A. R. N. (ex dipendente) e la Safeway Pension Trustees Ltd, in merito all’uniformizzazione delle prestazioni pensionistiche per gli affiliati di sesso maschile e femminile al regime pensionistico gestito da quest’ultima Società. Nel procedimento principale, infatti, la Società Safeway aveva costituito sottoforma di trust il regime pensionistico di riferimento per i propri affiliati, cui fare ricorso in favore dei dipendenti che, raggiunta l’età necessaria, lasciavano il proprio posto di lavoro nella suddetta società. Tale regime pensionistico dava la possibilità agli amministratori dello stesso di modificare retroattivamente, a partire dalla data della comunicazione scritta agli affiliati, il suddetto regime, e dunque di alterare possibilmente anche il valore delle prestazioni, attraverso un atto fiduciario – un atto formale, cioè, di modifica del contenuto dell’atto costitutivo del trust che istituiva la gestione delle prestazioni pensionistiche. Prima di proseguire nella descrizione della vicenda, appare opportuno ricalcare brevemente gli elementi di base del concetto di “trust”, di recente e raro utilizzo sul territorio nazionale. Si tratta di un istituto di natura anglosassone posto generalmente a tutela di un certo patrimonio (di norma, quello familiare). La peculiarità di tale strumento risiede nello sdoppiamento della proprietà, sostanzialmente riconosciuta non solo al titolare effettivo del patrimonio (che costituisce legalmente il trust), ma anche alla figura del trustee, da questi stesso indicato quale amministratore dei beni che ne facciano parte, su cui ha potere di gestione e disposizione, al fine di perseguire gli obiettivi individuati dal disponente (colui che decide di istituire il trust).

Tornando alla vicenda in esame, oggetto di discussione tra le parti riguardava proprio l’articolo dell’atto costitutivo del trust in argomento (nello specifico, l’art. 19), il quale prevedeva appunto la possibilità di modificare retroattivamente il regime pensionistico. Sebbene il regime pensionistico di cui trattasi nel procedimento principale avesse inizialmente fissato un’età normale di pensionamento differenziata per uomini e donne, vale a dire 65 anni per i primi e 60 anni per le seconde, la Corte si era espressa sull’argomento dichiarando [con sentenza del 17 maggio 1990, Barber (C-262/88, EU:C:1990:209)] che la fissazione di un’Enp (Età normale di pensionamento) differenziata secondo il sesso costituisce una discriminazione vietata dall’articolo 119 del Trattato Ce. A seguito di tale sentenza, la Safeway e la Safeway Pension Trustees, con comunicazioni scritte indirizzate ai propri affiliati, nel 1991 li informavano che il regime sarebbe stato modificato mediante l’introduzione di un’Enp uniforme di 65 anni per tutti – sia uomini che donne. Successivamente, nel maggio 1996, veniva poi adottato un atto fiduciario recante modifica del suddetto regime, il quale fissava un’Enp uniforme di 65 anni di età, con effetto dal dicembre 1991. Poiché nel corso del 2009 sorgeva la questione della conformità al diritto dell’Unione della modifica retroattiva del regime pensionistico di cui trattasi nel procedimento principale, la Safeway avviava una causa al fine di veder constatato che un’Età normale di pensionamento uniforme di 65
anni era stata validamente fissata già a partire dal dicembre 1991. In pendenza del procedimento principale che ha portato alla sentenza di cui oggi in argomento, l’interpellata Corte inglese sosteneva che l’elemento della retroattività delle nuove disposizioni violasse le disposizioni di cui all’articolo 119 del Trattato della Comunità Europea e che, pertanto, le pensioni, piuttosto che dai 65 anni come previsto dalla comunicazione scritta inviata ai dipendenti, dovessero essere considerate possibili dai 60 anni – a seguito di una automatica uniformizzazione dell’Enp, non avendo la comunicazione scritta lo stesso valore della modifica dell’atto fiduciario, giunta solo cinque anni dopo. Il Giudice nazionale, dunque, riteneva che non potesse considerarsi produttiva di alcun effetto la comunicazione della Società, e che l’unica modifica valida fosse quella risultante dall’atto fiduciario. Contro detta sentenza, veniva proposto appello dalla Società interessata. Tuttavia, il Giudice del rinvio precisava che, ai sensi del diritto nazionale, la clausola di modifica e gli annunci del 1991 avevano l’effetto di conferire ai diritti acquisiti dai membri, per il periodo compreso tra il 1991 e 1996, (tra la prima comunicazione scritta e l’effettiva modifica dell’atto fiduciario) un carattere «revocabile» (defeasible), di modo che tali diritti potessero successivamente, in qualsiasi momento, essere ridotti in via retroattiva: ciò vuol dire che, pur avendo l’atto fiduciario del 1996 innalzato l’età pensionabile delle donne a 65 anni rendendola uniforme a quella prevista per gli uomini, il Giudice adito restava dubbioso circa l’eventuale violazione di detto provvedimento delle previsioni di cui all’art. 119 del Trattato Ce. Per tale motivo, sollevava detto quesito di fronte la Corte di Giustizia europea. Così, la Corte veniva investita dalla Court of Appeal (England & Wales, Civil Division) della questione pregiudiziale così presentata: “Laddove le regole di un regime pensionistico conferiscano una facoltà, riconosciuta dal diritto nazionale, previo emendamento del suo atto costitutivo, di ridurre retroattivamente il valore dei diritti pensionistici maturati da lavoratori tanto di sesso maschile quanto di sesso femminile per un periodo decorrente tra la data di un avviso scritto delle modifiche del regime previste e la data in cui l’atto costitutivo è effettivamente emendato, se l’articolo 157 [TFUE] (in precedenza e alla data dei fatti l’articolo 119 del [Trattato Ce]) imponga che i diritti pensionistici maturati dai lavoratori sia di sesso maschile che di sesso femminile siano considerati inderogabili, nel senso che i loro diritti pensionistici sono tutelati da una riduzione retroattiva mediante l’esercizio della facoltà riconosciuta dal diritto nazionale”.

In sostanza, l’elemento centrale di discussione, nel caso specifico, riguardava unicamente la questione se i diritti a pensione degli affiliati al regime pensionistico relativi al periodo intercorrente tra il dicembre 1991 ed il maggio 1996 dovessero essere calcolati sulla base di un’Enp uniforme di 60 o 65 anni. In tale contesto, il giudice del rinvio si chiedeva se, alla luce della giurisprudenza europea già consolidata, l’atto fiduciario del 1996 avesse potuto validamente uniformare retroattivamente, per tale periodo, l’Enp di tali membri al livello di quella delle persone della categoria precedentemente svantaggiata, vale a dire i lavoratori di sesso maschile.

La sentenza 7 ottobre 2019 della Corte di Giustizia
Al principio delle motivazioni con cui la Corte di Giustizia europea si spiega, essa precisa che con la sentenza già citata in seno alla controversia principale (C 262/88, Barber, EU:C:1990/209) essa dichiarava che la fissazione di un’Enp differenziata secondo il sesso per le pensioni corrisposte da un regime pensionistico costituisce una discriminazione vietata dall’articolo 119 del Trattato Ce. Trattandosi tuttavia di una questione lievemente più complessa e spinosa, quella del caso specifico in esame, merita una serie di riflessioni più approfondite. La Corte argomenta come segue la distinzione di trattamento nei vari periodi di tempo oggetto di discussione della controversia principale: “Per quanto riguarda, in primo luogo, i periodi di impiego precedenti la data della pronuncia della sentenza Barber […] maggio 1990, i regimi pensionistici non sono tenuti ad applicare un’ENP uniforme, atteso che la Corte ha limitato gli effetti nel tempo di tale sentenza escludendo l’applicabilità dell’articolo 119 del Trattato Ce alle prestazioni pensionistiche spettanti per i suddetti periodi […]; per quanto riguarda, in secondo luogo, i periodi di impiego compresi tra il maggio 1990 e l’adozione, da parte del regime pensionistico in questione, di misure che ripristinano la parità di trattamento, alle persone della categoria svantaggiata devono essere accordati gli stessi vantaggi di cui godono le persone della categoria privilegiata, atteso che tali vantaggi rimangono, in assenza di corretta esecuzione dell’articolo 119 del Trattato Ce nel diritto nazionale, l’unico valido sistema di riferimento […]; per quanto riguarda, in terzo luogo, i periodi di impiego conclusi dopo l’adozione, da parte del regime pensionistico in questione, di misure che ripristinano la parità di trattamento, l’articolo 119 del Trattato Ce non osta a che i vantaggi delle persone in precedenza privilegiate siano ridotti al livello di quelli delle persone precedentemente svantaggiate, in quanto tale disposizione esige soltanto che i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile percepiscano una stessa retribuzione per uno stesso lavoro, senza tuttavia imporne un livello determinato […]”.

In generale, la Corte ricorda che l’art. 119 Trattato Ce produce effetti diretti: ciò vuol dire che crea diritti immediati in capo ai singoli individui, sui quali saranno i singoli giudici nazionali. In termini pratici, ciò comporta che l’attuazione di tale disposizione da parte del datore di lavoro dopo la constatazione di una discriminazione deve essere immediata e completa, così che le misure adottate per ripristinare la parità di trattamento non possano essere soggette a condizioni che si risolverebbero, anche se solo temporaneamente, in una conservazione della discriminazione. Un altro concetto su cui la Corte di Giustizia pone l’attenzione è la necessità, nell’attuazione di profili di non discriminazione, del rispetto del principio della certezza del diritto. Nelle parole della Corte stessa, tale principio “particolarmente necessario in presenza di una normativa che può avere conseguenze finanziarie, esige che i diritti conferiti ai singoli dal diritto dell’Unione siano attuati in modo sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile da consentire agli interessati di conoscere esattamente i loro diritti e obblighi e di prendere i provvedimenti del caso e di avvalersene, eventualmente, dinanzi ai giudici nazionali. L’instaurazione di una semplice prassi, priva di effetti giuridici vincolanti nei confronti delle persone interessate, non soddisfa tali requisiti”.

Questa lunga, ma necessaria disamina, sembra portare a ritenere che le misure adottate per porre fine alle discriminazioni contrarie all’articolo 119 del Trattato Ce debbano soddisfare i requisiti di cui si è discusso supra, sì da poter essere considerate come effettivo ripristino della parità di trattamento richiesta da tale disposizione. Nel caso di specie, tuttavia, risulta che le misure adottate dal regime pensionistico di cui trattasi nel procedimento principale prima dell’adozione dell’atto fiduciario del 1996 non soddisfino tali requisiti. La Corte motiva questa posizione spiegando che, ai sensi del diritto nazionale, l’uniformità era stata ripristinata soltanto con l’atto fiduciario del 1996, e non prima grazie alle comunicazioni che, difatti, non hanno formalmente prodotto alcun effetto: queste ultime, anzi, hanno meramente riservato ai responsabili del regime pensionistico il potere di riformare, retroattivamente, l’Enp delle donne rispetto a quello degli uomini, mediante quell’atto fiduciario che solo successivamente si è, difatti, venuto a creare. Una condotta del genere, pertanto, non può essere considerata sufficiente a porre fine alle discriminazioni sino a quel momento poste in essere dalla società Safeway Ltd. Inoltre, la Corte pone un ulteriore interrogativo: l’art. 119 Trattato Ce, così formulato, può essere in grado di autorizzare una misura, come quella prevista nell’atto fiduciario del 1996 (uniformare con effetto retroattivo l’Enp degli affiliati ad un regime pensionistico al livello dell’Enp delle persone della categoria precedentemente svantaggiata)? In tal caso, occorre ricordare che, secondo una giurisprudenza costante della Corte stessa, “quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata”. Parafrasando il ragionamento dell’organo di giustizia europeo, sembrerebbe necessario rispondere che sì, l’articolo 119 giustifica ogni atteggiamento volto ad eliminare, in via immediata, ogni discriminazione che esso stesso vieta. Nel caso specifico, il Giudice del rinvio si chiede se ciò si applichi anche a situazioni quale quella in oggetto, in cui i diritti a pensione in questione sono revocabili in forza del diritto nazionale e dell’atto costitutivo del regime pensionistico così istituito. Si tratta di una problematica la cui risoluzione non è stata ancora ben delineata dalla Corte. Infatti, la facoltà, in tali situazioni, di uniformare retroattivamente le condizioni riguardanti i diritti degli affiliati a un regime pensionistico al livello di quelle delle persone della categoria precedentemente svantaggiata non trova alcun sostegno nella giurisprudenza sinora delineatasi.

Al contrario, come è stato definito anche all’interno del procedimento principale, il riconoscimento di tale potere priverebbe ampiamente la stessa giurisprudenza della sua portata, in quanto sarebbe applicabile solo nei casi in cui tale uniformazione retroattiva è, in ogni caso, già vietata dal diritto nazionale o dall’atto costitutivo del regime pensionistico. Una generica risposta viene offerta dalla Corte facendo nuovamente ricorso al principio della certezza del diritto, chiarendo che esso impedisca che un atto di esecuzione del diritto possa avere effetto retroattivo: ad un tale divieto sono poste solo rare eccezioni, quali quelle che si verificano nel caso in cui ciò sia richiesto da una esigenza imperativa di interesse generale, e solo laddove il legittimo affidamento delle persone interessate sia debitamente rispettato. Infine, la Corte di Giustizia si sofferma su una ulteriore considerazione. Infatti, fintanto che i dovuti provvedimenti volti al ripristino di una situazione di parità vengano posti in essere, è necessario fare in modo che essa venga gestita al meglio. A tal proposito, e soprattutto in forza di quanto detto sinora con riferimento al contenuto dell’art. 119 e della sua obbligatorietà diretta, la Corte ritiene che ciò sarebbe giustificato anche in forza del collegamento tra quest’ultimo articolo e l’obiettivo della parificazione delle condizioni di lavoro risultante anche dal preambolo del Trattato Ce. Nel chiarire la propria posizione, la Corte prosegue spiegando che “sarebbe contrario a tale obiettivo nonché al principio della certezza del diritto e ai requisiti [di cui supra] consentire ai responsabili del regime pensionistico di cui trattasi di eliminare le discriminazioni contrarie all’articolo 119 del Trattato Ce adottando una misura che uniforma retroattivamente l’Enp degli affiliati a tale regime al livello dell’Enp delle persone della categoria precedentemente svantaggiata. Infatti, ammettere tale soluzione esonererebbe i responsabili dall’obbligo di procedere, una volta accertata la discriminazione, alla sua immediata e completa eliminazione. Inoltre, essa violerebbe l’obbligo di concedere alle persone della categoria precedentemente svantaggiata il beneficio dell’Enp delle persone della categoria precedentemente avvantaggiata per quanto riguarda i diritti pensionistici relativi ai periodi di impiego tra la data di pronuncia della sentenza del 17 maggio 1990, Barber (C262/88, EU:C:1990:209), e la data di adozione delle misure che ripristinano la parità di trattamento, nonché il divieto di abolire, per il passato, i vantaggi di queste ultime persone. Infine, essa creerebbe incertezze circa la portata dei diritti degli affiliati, contrarie al principio della certezza del diritto, fino all’adozione di tali misure”.

In definitiva, la Corte di Giustizia chiosa sulla questione appena esaminata nel senso di impedire, ai sensi dell’art. 119 Trattato Ce su cui ad essa veniva richiesto di esprimersi, l’adozione da parte di un regime pensionistico che, al fine di eliminare una condizione di discriminazione, agisca retroattivamente agendo sui diritti acquisiti sino a quel momento dalle persone precedentemente svantaggiate. Si correrebbe il rischio, in tal caso, di creare una discriminazione nella discriminazione. Al fine di una maggiore chiarezza, si riportano di seguito le parole della Corte di Giustizia europea: “L’articolo 119 del Trattato Ce (divenuto, in seguito a modifica, articolo 141 Ce) deve essere interpretato nel senso che esso osta, in assenza di una giustificazione obiettiva, a che un regime pensionistico adotti, per porre fine a una discriminazione contraria a tale disposizione, derivante dalla fissazione di un’età normale di pensionamento differenziata secondo il sesso, una misura che uniforma retroattivamente l’età normale di pensionamento degli affiliati a tale regime al livello di quella delle persone della categoria precedentemente svantaggiata, per il periodo compreso tra l’annuncio e l’adozione di tale misura, anche qualora tale misura sia autorizzata dal diritto nazionale e dall’atto costitutivo di tale regime pensionistico”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO