Con sent. n. 1631 del 23 gennaio 2018, la Corte di Cassazione si è pronunciata in merito alla legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per avere fruito indebitamente di un riposo compensativo, conseguente a dedotti impegni elettorali.
Nello specifico il dipendente, il giorno 10 aprile 2010, aveva prestato regolare attività lavorativa e, tuttavia, successivamente aveva consegnato all’azienda un falso certificato di partecipazione alle attività elettorali nella medesima giornata del 10 aprile. Ciò che gli aveva consentito di usufruire illegittimamente di un giorno di riposo compensativo nella giornata del 14 aprile 2010, pur non avendo svolto alcuna attività elettorale.
Orbene, giova premettere che la normativa relativa al diritto di usufruire di riposi compensativi per lo svolgimento di operazioni elettorali è costituita dal D.P.R. n. 361 del 1957, dal D. lgs. n. 534 del 1993 e dalla l. n. 69 del 1992.
L’art. 119 del D.P.R. n. 361 del 1957, come modificato dall’art. 3 del d. lgs. n. 534 del 1993, sancisce, per coloro che adempiono funzioni presso uffici elettorali, ivi compresi i rappresentanti dei candidati nei collegi uninominali e di lista o di gruppo di candidati, nonché, in occasione di referendum, i rappresentanti dei partiti o di gruppi politici e dei promotori dei referendum, il diritto di assentarsi dal lavoro per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni elettorali.
La legge n. 69 del 1992, con l’art. 1, co. 1, ha precisato che il comma 2 del citato articolo 119 del D.P.R. n. 361 del 1957 va inteso nel senso che i lavoratori di cui al comma 1 dello stesso articolo 119 hanno diritto al pagamento di specifiche quote retributive, in aggiunta alla ordinaria retribuzione mensile, ovvero a riposi compensativi, per i giorni festivi o non lavorativi eventualmente compresi nel periodo di svolgimento delle operazioni elettorali.
Ebbene, nel caso sottoposto all’attenzione del giudicante, il lavoratore svolgeva funzioni di rappresentante di lista; attività che, secondo la citata normativa, giustifica l’assenza dal lavoro, dando diritto alla sospensione del rapporto per le necessarie giornate di riposo compensativo.
Tuttavia il lavoratore, pur avendo richiesto il permesso per i giorni 10, 11 e 12 aprile, si era presentato regolarmente al lavoro il giorno 10 aprile. Aveva quindi beneficiato della giornata di riposo compensativo il giorno 14 aprile, consegnando un certificato in cui veniva attestato falsamente l’impegno elettorale per i giorni dal 10 al 12, essendo indispensabile attestare l’impegno su tutti e tre i giorni per potere godere del permesso il giorno 14. Era pacifica, dunque, la non veridicità del certificato con riguardo alla giornata del 10 aprile, in cui il dipendente aveva lavorato regolarmente.
L’azienda aveva quindi provveduto a comminare al dipendente licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c.c. . Licenziamento che era stato impugnato dal lavoratore.
Ciò posto, la questione che si pone nel caso di specie è se l’illecito disciplinare posto in essere dal lavoratore sia sussumibile sotto la specie della giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c., ovvero se, alla luce del principio di proporzionalità tra sanzione irrogata e addebito contestato, l’illecito in questione vada piuttosto punito con sanzione di tipo conservativo.
Da un lato si osserva che, considerando unicamente il fatto materiale posto in essere dal lavoratore, esso può ricondursi ad una mera assenza ingiustificata dal lavoro nella giornata del 10 aprile 2010. Assenza ingiustificata per la quale l’art. 10 del ccnl applicato al dipendente, prevede una sanzione di tipo conservativo. Aderendo a questa ricostruzione interpretativa, nel caso di specie il licenziamento sarebbe illegittimo per violazione del principio di proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione comminata.
E, tuttavia, la Corte Suprema di Cassazione ha posto l’accento sul profilo, per così dire, soggettivo della condotta tenuta dal lavoratore, consistente nella produzione di un certificato dal contenuto consapevolmente non veritiero.
Ebbene, a giudizio della Corte di Cassazione, una simile condotta, che può rilevare anche sotto il profilo penale, si pone in contrasto con gli obblighi di buona fede e correttezza ex artt. 1775 e 1375 c.c., nonché con i doveri di diligenza e fedeltà cui è tenuto il lavoratore ex art. 2104, 2105 c.c., ed è idonea a compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro.
Con la conseguenza pratica che il disvalore della condotta tenuta dal lavoratore è stata giudicata sufficiente ad integrare la giusta causa di licenziamento ex art. 2119 c.c.
La Corte di Cassazione ha pertanto accolto il ricorso proposto dalla società datrice di lavoro, riconoscendo la giusta causa del licenziamento intimato al lavoratore e giudicando che il comportamento tenuto dal dipendente non potesse ricondursi ad un mero disguido o confusione sulla data ti rientro al lavoro, né ad una assenza ingiustificata, “.. ma al consapevole uso di un attestato falso al fine di usufruire di un riposo compensativo non spettante, ipotesi certamente ricomprensibile nel concetto di giusta causa previsto dalla legge, e non contraddetto dalla contrattazione collettiva che non disciplina affatto con minore sanzione (conservativa) simile fattispecie, tanto meno l’art. 10 del c.c.n.l. disciplinante solo le assenze ingiustificate”.