Nel sistema italiano, i parametri normativi che regolano il licenziamento individuale – legge n. 604/1966 e legge n. 300/1970 – prevedono che, qualora il datore di lavoro decida di recedere dal contratto con un proprio dipendente, egli debba farlo tramite comunicazione scritta indirizzata al diretto interessato, in cui si comunichino le motivazioni che abbiano portato a detta decisione.

Se comunicato oralmente, il licenziamento non ha alcun tipo di valenza effettiva e, pertanto, viene considerato tamquam non esset. Pertanto, il datore dovrà continuare a versare i contributi relativi all’attività lavorativa del dipendente che, almeno formalmente, resta ancora tale fino ad una comunicazione scritta che esprima le diverse intenzioni del datore. Dal suo lato, il lavoratore che venga oralmente allontanato dal luogo di lavoro, avrà necessità di tutelare la propria condizione, laddove, se non si presentasse a prestare la propria attività lavorativa, il datore potrebbe sfruttare detta assenza per far valere un successivo licenziamento – che, in questo caso, apparirebbe del tutto legittimo. Al fine di fugare questo genere di possibilità, si è sviluppata una prassi in base alla quale risulta opportuno per il lavoratore inviare una raccomandata a/r al proprio datore, in cui evidenzia la data del licenziamento pervenuto oralmente, nonché la propria disponibilità a riprendere in via immediata l’attività lavorativa.

Indennità per licenziamento illegittimo

Rispetto alla disciplina antecedente, i decreti del recente pacchetto Jobs Act e segnatamente l’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015 impone alla Magistratura una nuova base di calcolo per determinare l’indennità da riconoscere al lavoratore licenziato oralmente e, dunque, illegittimamente. La novità – che viene applicata a tutti i licenziamenti illegittimi, indipendentemente dalla causa che li renda tali – comporta, nello specifico che, al fine di calcolare l’indennità spettante al lavoratore ingiustamente licenziato, il parametro utilizzato non sarà più l’ultima retribuzione globale di fatto, ma quella normalmente utilizzata per il calcolo del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Ai fini di una maggiore comprensione della portata di questo cambiamento, si consideri che la retribuzione globale di fatto è quella che si evince dall’ultima busta paga, inclusa la quota di tredicesima, eventuale quattordicesima e rateo di Tfr. Dall’altro lato, la retribuzione utile per il calcolo del Tfr, cui fare riferimento nei casi relativi ai c.d. “neoassunti”, è data dalla somma della cifra presente sull’ultima busta paga, aumentata dei ratei delle mensilità aggiuntive (tredicesima e, se prevista, quattordicesima). La conseguenza principale, ovviamente, è che la nuova previsione comporta un valore economico sicuramente minore rispetto a quello che sarebbe proposto al lavoratore se si usasse come base di calcolo la retribuzione globale di fatto poiché, appunto, essa comprendeva anche il rateo del Tfr.

È impossibile non notare come, ancora una volta, la novità imposta dal legislatore corrisponda ad un peggioramento della situazione del lavoratore.

Onere della prova

Per quanto riguarda la prova dell’illegittimità legata all’oralità del licenziamento, il principio di base per distribuirne l’onere va ricercato nel comma 1, art. 2697 c.c., che recita testualmente: “chi vuol far valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. Se le cose stanno così, un punto cruciale per fruire delle tutele approntate in favore del lavoratore illegittimamente licenziato, è quello di riuscire a dare prova dell ’oralità di detto licenziamento. È bene anzitutto chiarire che sul tema si scontrano due scuole di pensiero, ciascuna basata su una diversa accezione conferita al concetto di “estromissione” dal rapporto di lavoro, centrale nell’argomento in esame. Un iniziale indirizzo giurisprudenziale tendeva a considerarlo quale generica circostanza che comportasse la cessazione del rapporto di lavoro.

Stando alle argomentazioni della Corte, tale termine era posto alla stregua di un qualsiasi “artificio verbale di chiamare estromissione ogni cessazione del rapporto di cui non sia chiara la genesi”. Dall ’altro lato, opposta alla prova della estromissione, si poneva e distingueva, invece, quella inerente alle “dimissioni”, che veniva inizialmente identificata nel senso stringente di una eccezione vera e propria, in controdeduzione ad un fatto che negasse il licenziamento e che, pertanto, doveva essere dimostrata dal datore di lavoro che, così, si liberava da ogni responsabilità in tal senso. Secondo questo primo indirizzo, basato sulla distinzione delle due prove ora esposte, sul lavoratore gravava unicamente quella della “estromissione” così intesa, mentre della prova “delle dimissioni” risultava gravato il datore di lavoro.

La Suprema Corte si è espressa in questi termini in numerose sentenze, prima fra tutte la n. 2853/1995, in cui testualmente chiariva che “la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro è quella della estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento e collega l’estromissione dal rapporto ad asserite dimissioni del lavoratore assume la valenza di una eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2”. Si tratta, come appare da quanto appena riportato, di un orientamento tendente ad una equa divisione dei compiti tra datore e lavoratore, che sembra avere tanto più senso in considerazione della difficile contrapposizione in cui si ritrovano le parti coinvolte.

Tuttavia, recentemente la Cassazione ha modificato la propria tendenza sull’argomento, tramite quanto affermato nella sentenza n. 3822 dello scorso 8 febbraio 2019, avente ad oggetto l’accoglimento, da parte della Corte territoriale, dell’impugnazione del licenziamento precedentemente intimato al lavoratore, cui si opponeva la società datrice di lavoro. Secondo questo nuovo orientamento, la distinzione sopra richiamata tra prova dell’estromissione e delle dimissioni viene definitivamente meno, conferendo alla prima un significato allargato che ricomprenda anche la portata del secondo. Di conseguenza, ogni elemento di cui debba esser fornita prova finisce per gravare sul lavoratore, che dovrà così dimostrare non soltanto che il rapporto sia cessato, ma anche che le modalità di detta cessazione siano illegittime. Più precisamente, “il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova” (Cass. civ., sez. lav., sent. n. 3822/2019).

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Catanzaro, nell’accogliere detta impugnazione, aveva ritenuto pacifica la cessazione del rapporto di lavoro, di cui era stata data prova dal lavoratore, che si era limitato a dimostrare, appunto, la sua estromissione (in tendenza con il precedente indirizzo della Corte). Tuttavia, secondo il Giudice di legittimità, che condivideva con le Corti dei precedenti gradi di giudizio solo la pacificità della cessazione del rapporto, la prova fornita dal lavoratore non risultava sufficiente a riconoscere la veridicità di quanto da questi sostenuto. Rivedendo interamente i termini sino a quel momento utilizzati nella discussione di controversie non dissimili da quella in argomento, infatti, la Suprema Corte riconosceva, nella sentenza in esame, un nuovo significato al termine “estromissione” laddove esso non raffigurava più la semplice cessazione del rapporto nel senso stretto dell’abbandono da parte del lavoratore, ma, più in generale, la identificava con tutte le circostanze collegate a questo evento. Recita infatti la già citata pronuncia n. 3822/2019 “il termine ‘estromissione’ vale quale ‘sinonimo’ di quello di ‘espulsione’ e, perciò, di ‘licenziamento’, non potendo quindi intendersi usato come ‘artificio verbale di chiamare estromissione ogni cessazione del rapporto di cui non sia chiara la genesi”. Per la sentenza citata “non è contestabile che la stessa esistenza del licenziamento deve configurarsi quale ‘fatto costitutivo’ della domanda di impugnazione del licenziamento, conseguendone che, ai sensi dell’articolo 2697, Codice civile, deve ritenersi gravante sul proponente dell’azione l’onere di fornire la prova dell’evento ‘licenziamento’, non potendo certamente ritenersi che, in materia, viga una regola di inversione dell’onere probatorio, secondo la quale il lavoratore possa limitarsi a una mera allegazione della circostanza, restando obbligato il datore di lavoro a fornire la dimostrazione che il recesso sia stato dovuto ad altra causa, essendo invece sufficiente che – ai sensi della disciplina dettata in via generale dal codice in tema di ripartizione dell’onere probatorio – il convenuto si limiti alla semplice negazione del fatto costitutivo del diritto esercitato dalla controparte. Evidentemente, nella ipotesi in cui esso convenuto abbia contrapposto una difesa che sia specificamente articolata su fatti diversi da quelli posti a base della domanda avversaria, sorgerà, in concreto, un onere probatorio a suo carico, circa le eccezioni proposte, nel momento in cui la controparte abbia fornito la prova del suo assunto”.

A questo punto, pertanto, l’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. appare interamente posto in capo alla figura del lavoratore, chiamata dunque a dare prova di tutto quanto riguardi l’interruzione della prestazione di lavoro (sua cessazione, motivazioni e modalità). Secondo questa nuova ottica, il datore di lavoro potrebbe semplicemente limitarsi a negare quanto asserito dal lavoratore, che si vedrebbe certamente gravato dell’onere più rilevante ove decidesse di proseguire in via giudiziale con riferimento all’impugnazione del licenziamento.

In questa stessa direzione, ancor più recente è la sentenza della Suprema Corte n. 18402 del 9 luglio 2019. In essa, conferendo una ancor maggiore stabilità all’indirizzo recentemente seguito dalla Cassazione, essa conferma che il lavoratore subordinato che sostenga di essere stato licenziato oralmente (e che, dunque, chieda che gli vengano apprestate le corrispondenti tutele) sarà onerato del dover dimostrare non soltanto la cessazione del rapporto di lavoro, ma anche che essa si sia verifica per la sola volontà del datore, anche laddove essa sia stata rappresentata attraverso comportamenti concludenti da questo tenuti. Nel caso di specie, dunque, pur avendo modo di alleggerire il carico gravante sulla figura del lavoratore – di per sé già notoriamente più debole rispetto a quella del datore – la Suprema Corte sceglie di riservare un trattamento penalizzante nei confronti dei dipendenti. Il datore, a questo punto, finirà per temere sempre meno la minaccia di una causa per licenziamento illegittimo perché orale, avendo questi la possibilità, in fase di giudizio, di limitarsi a negare quanto asserito dalla controparte, cui sarà invece lasciato l’onere di provare tutti gli aspetti del torto che sostiene aver subito.

Questa nuova tendenza della Suprema Corte risulta inasprire la posizione del lavoratore che, dunque, si trova a dar prova non soltanto della cessazione del rapporto, ma anche della illegittimità delle modalità attraverso cui esso gli è stato intimato. Nel caso del licenziamento orale segnatamente, si tratta di una dimostrazione di difficoltà estrema: poiché, infatti, quest’ultimo non potrà basarsi su documentazioni o atti giuridici eventualmente reperibili, ma su veri e propri comportamenti concludenti tenuti dai soggetti coinvolti che, proprio per loro natura, risultano di difficile rappresentazione in sede giurisdizionale. L’alto grado di difficoltà appena evidenziato è parzialmente giustificato dalla Suprema Corte, che al riguardo suggerisce che, nel fondare il proprio convincimento, la figura del Giudice delegato della trattazione della causa specifica faccia un soppesato utilizzo delle presunzioni semplici (cioè non stabilite dalla legge) ex art. 2729 c.c.; nonché, altresì, dei poteri istruttori ufficiosi allo stesso riconosciuti, sanciti dall’art. 421 c.p.c. Con una previsione di tale tenore, contenuta all’interno della stessa sentenza, la Suprema Corte sembra in qualche modo ammettere la rigidità dell’indirizzo in essa adottato, e tende a soppesare la maggior gravosità in termini probatori verso il lavoratore con un maggior spazio d’azione lasciato al convincimento del Giudice che, così, assume una posizione ancor più centrale nel procedimento del lavoro. Così, infatti, la sentenza in esame: “Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697, comma 1, c.c., rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.

Si tratta, come si può ben desumere da quanto sinora osservato, di una soluzione (quella offerta dalla Suprema Corte) che lascia aperta la porta a numerose problematiche, specie in considerazione di quei casi in cui le presunzioni ex art. 2697 c.c. non risultino gravi, né precise o concordanti oppure, ancora, in cui i dubbi circa le varie incertezze probatorie permangano nonostante il Giudice ricorra ai poteri ufficiosi che il citato art. 421 c.p.c. gli conferisce. In tutti questi scenari in cui non si riesce a dare prova concreta del licenziamento verbale, il lavoratore inevitabilmente resterà soccombente. La Suprema Corte identifica queste eventualità come “casi residuali” che nella prassi sono, in definitiva, risultati essere estremamente numerosi: è un dato che non sorprende, soprattutto se si pensa alle peculiarità dei casi del licenziamento orale, e delle numerose difficoltà che incontra chiunque debba dare prova, in sostanza, di una conversazione, di uno scambio verbale, per loro natura di difficile dimostrazione.

Tutele per il lavoratore

Più nello specifico, il lavoratore può impugnare il licenziamento intimatogli oralmente e, nel caso in cui l’adita Autorità competente ne riconosca i presupposti, aspirare ad ottenere una serie di riconoscimenti, il cui contenuto non varia in base alla data di assunzione del lavoratore; in altri termini, non rileva che egli appartenga alla categoria dei c.d. “vecchi assunti” (in forze da prima del 7 marzo 2015) o a quella dei lavoratori soggetti al sistema delle tutele crescenti. Nonostante ai primi si applichi il regime ex legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), ed ai secondi lo schema offerto dai pacchetti del c.d. “Jobs Act” (più precisamente, dall’art. 2, D.Lgs. n. 23/2015), il tipo di tutela apprestata da entrambe queste previsioni, con specifico riferimento ai casi di licenziamento orale, è del tutto analogo: entrambe possono comportare un risarcimento del danno pari ad un minimo di cinque mensilità; per tutto il tempo in cui il lavoratore è stato tenuto lontano dal posto di lavoro, il datore deve comunque provvedere al pagamento dei contributi eventualmente maturati durante detto periodo. Inoltre, al lavoratore, come spesso accade nei casi di licenziamento illegittimo, viene data la facoltà di scegliere se fare ritorno al posto di lavoro precedentemente occupato, oppure richiedere una indennità sostitutiva il cui ammontare non può essere inferiore a 15 mensilità, calcolate secondo le regole suesposte.

In generale, la disciplina riservata ai casi di licenziamento orale è la stessa riconosciuta a quelli discriminatori o nulli, indipendentemente dal fatto che l’azienda datrice soddisfi il requisito dimensionale o meno. Secondo le regole generali, l’onere della prova spetta al lavoratore che lamenta la lesione di un diritto che ha generato l’illegittimità del licenziamento subito. Il giudice adito, una volta accertata detta illegittimità, potrà ordinare un risarcimento del danno subito ed il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali nei confronti del lavoratore leso. Oltre a ciò, l’Autorità sarà in grado di ordinare la reintegrazione di detto lavoratore unicamente nel suo vecchio posto di lavoro occupato prima del licenziamento illegittimo, nelle stesse mansioni e con lo stesso inquadramento.

Termini di impugnazione

La regola generale espressa dalla legge n. 604/1966 (che, come noto, disciplina il licenziamento individuale), prevede che la notifica di questo debba essere impugnata entro 60 giorni dalla ricezione “della sua comunicazione in forma scritta” e, a partire da questi, entro 180 giorni il ricorso avverso il licenziamento va depositato presso la cancelleria del Tribunale territorialmente competente. Quid laddove venisse a mancare l’elemento della “forma scritta” della comunicazione? A quale elemento dovrebbe farsi riferimento, posto che in detta circostanza il dies a quo parrebbe del tutto indeterminabile?

A questo proposito si è espressa la Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 25561 del 12 ottobre 2018. Nel caso di specie, ricorreva per Cassazione il lavoratore licenziato oralmente, il cui ricorso avverso detto licenziamento veniva rigettato dalla Corte territoriale per difetto del requisito temporale ex art. 2697 c.c., che considerava come dies a quo il giorno del licenziamento orale, il quale ebbe l’effetto di sospendere l’esecuzione dell’attività lavorativa da parte del dipendente, e, di conseguenza, il canonico computo dei 60 giorni per l’impugnazione (attraverso canali stragiudiziali o non) e dei successivi 180 per il deposito del relativo ricorso.

La Suprema Corte ha così avuto modo di chiarire che, nel caso del licenziamento intimato oralmente, viene meno il requisito ad substantiam della forma scritta che avrebbe dovuto caratterizzare sia il licenziamento stesso, che le motivazioni individuate dal datore a fondamento della scelta espulsiva. Chiarisce, infatti, la sentenza della Cassazione n. 25561/2018: “[il] consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui l’azione per far valere l’inefficacia del licenziamento orale è sottratta all’onere dell’impugnazione stragiudiziale in ragione dell’assenza di un atto scritto da cui l’art. 6, legge n. 604/1966, anche a seguito delle modifiche apportate dall’art. 32, legge n. 183/2010, possa far decorrere il termine di decadenza per proporre impugnazione (cfr. Cass. 9 novembre 2015, n. 22825). Orientamento questo a cui risulta essersi correttamente attenuta la Corte di merito, che ha fondato la propria decisione sul dato incontestato dell’oralità del licenziamento e sulla conseguente inapplicabilità del termine di cui all’art. 6, legge n. 604/1966 per proporre impugnazione, con la conseguenza che il licenziamento risulta assoggettato al solo termine prescrizionale”.

In merito al caso in esame, la Suprema Corte si è espressa chiarendo che il licenziamento notificato oralmente doveva essere considerato giuridicamente non esistente, poiché in nessun caso esso integra elementi di liceità. Ciò comporta, in termini sostanziali, che il lavoratore sia sottratto alle canoniche tempistiche di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, e che, in questi casi, venga applicato il termine prescrittivo di cinque anni al fine di far valere la relativa inefficacia in giudizio (che, dunque, decorre dal momento della sua intimazione).

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA