Le varie misure di welfare aziendale che il datore di lavoro può offrire ai propri dipendenti contribuiscono ad un miglioramento progressivo non solo del benessere dei lavoratori, ma anche della produttività dell’impresa. L’autore individua le ipotesi più frequentemente sperimentate nella prassi, nonché i vantaggi e le prospettive future in favore dell’impresa e della collettività.

INTRODUZIONE

L’adozione di strumenti che, a vario titolo, consentono una gestione delle risorse umane improntata al benessere e alla fidelizzazione dei lavoratori rappresenta una scelta oramai frequente da parte dei datori di lavoro. Le svariate possibilità e benefici che tale opzione è in grado di offrire riguardano da vicino entrambe le parti del rapporto di lavoro. Infatti, se i dipendenti possono godere di opportunità legate ad una miglior conciliazione vita-lavoro, alla possibilità di sopperire alle eventuali lacune del welfare state, alla valorizzazione della propria genitorialità e, in ogni caso, a concreti e plurimi vantaggi di stampo economico (talvolta un vero e proprio incremento sostanziale della propria retribuzione), sotto altri profili è l’impresa stessa a soddisfare interessi propri. Il datore non può che giovarsi della presenza in azienda di personale che ne condivida gli obiettivi e i valori e veda incentivata la propria motivazione nello svolgimento della prestazione. Risulta del tutto evidente come un ambiente non ostile e attento ai bisogni concreti dei dipendenti sia anche in grado di favorire un vero e proprio avvicinamento tra la generalità dei lavoratori e le figure apicali aziendali.

Con l’espressione “welfare aziendale” ci si riferisce ad un ampio ventaglio di misure (servizi, iniziative o offerte), di volta in volta sperimentate nella pratica e in alcuni casi, regolate a livello legislativo, che, appunto, consentano di riscontrare le principali esigenze personali del singolo dipendente e che ne valorizzino appieno la produttività, il talento e, in generale, le competenze.

Il Legislatore degli ultimi anni, nel riconoscere il pregio di questa possibilità non soltanto nei confronti del singolo, ma anche con riferimento all’ordinamento giuridico nel suo complesso, è intervenuto in più di un’occasione ad incentivare l’adozione e lo sviluppo degli strumenti di welfare aziendale. Si tratta di interventi strettamente legati ai risvolti fiscali delle misure, più che al piano giuslavoristico. A partire dalla Legge di Stabilità del 2016 (L. 208/2015), si è provveduto infatti ad una tendenziale defiscalizzazione delle misure di welfare aziendale.

Nello specifico, il Legislatore ha operato una sostanziale riscrittura dell’art. 51, co. 2, lett. f) D.P.R. 917/1986, che prevede, nella sua formulazione attuale, l’esenzione IRPEF per:
– l’utilizzazione delle opere “e dei servizi riconosciuti dal datore di lavoro” per specifiche finalità di educazione, istruzione, ricreazione, assistenza sociale e sanitaria o culto;
– le somme, i servizi e le prestazioni erogati dal datore per la fruizione “dei servizi di educazione e istruzione anche in età prescolare compresi i servizi integrativi e di mensa ad essi connessi, nonché per la frequenza di ludoteche e di centri estivi e invernali e per borse di studio” in favore dei familiari;
– le somme per la fruizione dei servizi “di assistenza ai familiari anziani o non autosufficienti”;
– i contributi e premi per prestazioni aventi ad oggetto “il rischio di non autosufficienza nel compimento degli atti della vita quotidiana”;
– il valore delle azioni offerte alla generalità dei dipendenti.

Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2019 (L. 145/2018) è stata prevista un’ulteriore misura, per chi intraprende iniziative di conciliazione vita-lavoro e “di welfare familiare aziendale”, di godere delle risorse del c.d. “Fondo per le politiche della famiglia”.

IL REQUISITO PER LE AGEVOLAZIONI FISCALI

L’opportunità di beneficiare delle agevolazioni fiscali citate, per il datore di lavoro è subordinata al ricorrere di un requisito fondamentale, prescritto espressamente dallo stesso art. 51 T.U.I.R., ossia la necessità (ai fini della non imponibilità degli importi finalizzati alla realizzazione di piani di welfare aziendale) che le opere e i servizi siano offerte “alla generalità dei dipendenti” ovvero, in alternativa, “a categorie di dipendenti”.

Nessun dubbio si pone sull’ipotesi in cui l’impresa opti per garantire la fruizione degli strumenti in favore della totalità dei lavoratori alle proprie dipendenze, mentre maggiori dubbi possono sorgere in merito al concetto di “categorie di dipendenti” per valutare l’applicabilità o meno delle agevolazioni. Ovviamente le categorie eventualmente individuate devono essere omogenee e rispettare una ratio in astratto coerente. L’intento con cui il Legislatore ha optato per una simile previsione è finalizzato a scongiurare l’eventuale attribuzione di benefici ad personam, finalizzati unicamente ad incrementare in maniera sostanziale la retribuzione di un singolo lavoratore usufruendo di vantaggi fiscali con scopi elusivi.  A titolo meramente esemplificativo, rappresentano scelte razionali e conformi alla logica richiamata le attribuzioni di benefits ai dipendenti che, in azienda, abbiano analogo livello contrattuale ovvero inquadramento.

Allo stesso tempo, al datore di lavoro è concesso intervenire in favore di lavoratori che condividano la stessa sede di lavoro o che dichiarino un reddito appartenente ad una soglia predeterminata. Un valido criterio, poi, può essere rappresentato dalle situazioni personali e familiari dei dipendenti; si pensi, in questo senso, all’ipotesi, del tutto legittima, in cui l’azienda riservi un benefit soltanto ai dipendenti con prole.

PREVIDENZA COMPLEMENTARE

Esaminando in maniera più dettagliata i singoli strumenti di cui, in concreto, il datore di lavoro può disporre, l’ipotesi più frequente ed utilizzata nella prassi è il ricorso alla previdenza complementare o integrativa. Molto spesso, infatti, le imprese provvedono alla stipula di convenzioni particolari con enti pensionistici privati, al fine di incentivare l’adesione ai fondi di previdenza complementare da parte dei lavoratori (scelta che, ad ogni modo, resta del tutto libera) e provvedendo, talvolta, a versare in questi fondi contributi propri, in aggiunta a quelli versati dal dipendente stesso.

Si tratta di un’opportunità rilevante per il prestatore, il quale può godere in futuro di rendite periodiche idonee a far fronte a bisogni a vario titolo, in aggiunta a quanto eventualmente percepito sulla base del sistema pensionistico pubblico. Si consideri, peraltro, che gli interventi particolarmente stringenti, in materia di pensioni, degli ultimi anni hanno reso tale eventualità ancor più appetibile. Anche con riferimento a tale strumento, il Legislatore ha provveduto ad introdurre agevolazioni fiscali. Si pensi ad esempio che i contributi versati in un fondo pensionistico integrativo, sia che il versamento sia effettuato dal lavoratore, sia effettuato dal datore, risultano integralmente deducibili ai fini IRPEF per l’aderente, seppur con un limite massimo di importo.

SANITA’ INTEGRATIVA

Un’ulteriore possibilità, in genere particolarmente apprezzata dai lavoratori, è rappresentata dalla c.d. “sanità integrativa”, comprendente interventi che, a vario titolo, favoriscono il ricorso a forme di assistenza sanitaria privata, a spese del datore di lavoro. A dimostrazione dell’attenzione dei dipendenti, risulta opportuno citare le risultanze del recente “2^ Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale” del 30 gennaio 2019, da cui si evince come le iniziative di assistenza sanitaria risultino al primo posto tra gli ambiti in cui i lavoratori necessitano di maggiori tutele, con un 42,5% di risposte (esigenza manifestata prevalentemente dagli operai con il 49,2%).

Una soluzione talvolta adottata consiste in un mero rimborso da parte dell’impresa in favore del dipendente, delle spese sanitarie sostenute al di fuori del Servizio Sanitario Nazionale per sé e, circostanza non infrequente, per i propri familiari. Un’alternativa è rappresentata dall’individuazione di determinate strutture con cui stipulare un’apposita convenzione che consenta ai propri lavoratori di godere di tariffe agevolate ovvero preveda per gli stessi la totale gratuità delle prestazioni. Molto spesso già all’atto della sottoscrizione del contratto di lavoro, viene prevista l’adesione del dipendente ad un Fondo di Assistenza Sanitaria Integrativa con un ente, associazione, società di mutuo soccorso ovvero compagnia assicurativa (che, in ogni caso, sia accreditato presso il Ministero della Sanità) preventivamente individuata dal datore di lavoro, cosicché il lavoratore possa fruire di una copertura totale ovvero parziale (a seconda delle condizioni pattuite) delle spese mediche.

Asili nido aziendali e agevolazioni

Un’ipotesi emblematica, che dimostra una particolare attenzione di talune imprese al benessere dei propri prestatori e, nello specifico, alla tutela della genitorialità degli stessi, è rappresentata dai molti casi virtuosi in cui le imprese hanno provveduto a dotarsi internamente di asili nido aziendali. È assai frequente che i lavoratori incontrino difficoltà nella gestione della prole nei primissimi anni di vita e nella relativa compatibilità con lo svolgimento della prestazione lavorativa, cosicché la scelta di prevedere strutture interne, oltre a riscontrare esigenze effettive, permette allo stesso datore di lavoro di giovarsi di dipendenti con maggior tempo a disposizione (si pensi alle tempistiche necessarie per l’accompagnamento dei minori in asili esterni) e, in generale, con una maggior serenità nell’esecuzione delle mansioni. A tale scopo, possono essere previste rette agevolate e, a titolo di benefit, una copertura parziale o totale di tali costi da parte dello stesso datore.

Se l’impresa intende provvedere all’apertura di un asilo nido interno, il lavoratore può godere di una serie di agevolazioni specificatamente individuate dalla legge (cui si aggiungono quelle individuate a livello regionale ovvero comunale), in particolare:
– è escluso dall’imposizione del reddito d’impresa “e di lavoro autonomo il 50 per cento del volume degli investimenti in beni strumentali…” (art. 4, c. 1, L. 383/2001);
– è istituito un Fondo per gli asili nido riservato, oltre che ai Comuni, anche all’ipotesi dei micro-nidi o asili aziendali, con una ripartizione delle risorse effettuata a cadenza annuale da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (art. 70 L. 448/2001);
– è istituito, al fine di “assicurare un’adeguata assistenza familiare alle lavoratrici e ai lavoratori dipendenti con prole” un Fondo di rotazione “per il finanziamento dei datori di lavoro che realizzano, nei luoghi di lavoro, servizi di asilo nido e micro-nidi”, la cui ammissione è subordinata alla presentazione di apposita domanda da parte dell’azienda (art. 91 L. 289/2002);

E’ fatta salva ad ogni modo la possibilità di sottoscrivere, anche in questo caso, convenzioni con asili esterni che prevedono tariffe agevolate (se non la gratuità) per i dipendenti di una determinata azienda.

ALTRI BENEFITS

Occorre affermare come le opzioni in astratto a disposizione del datore di lavoro per favorire il benessere del personale siano innumerevoli, così come altrettanto numerose sono le esperienze concrete sperimentate nella prassi.

Al riguardo, costituiscono utili strumenti di welfare aziendale, ad esempio, la previsione di borse di studio in favore dei dipendenti stessi ovvero dei figli, di corsi di formazione cui iscrivere il lavoratore (ciò costituisce un benefit, ovviamente, soltanto nel caso in cui tale corso sia aggiuntivo rispetto a quanto necessario per rendere la propria prestazione), forme di rimborso per spese scolastiche sostenute dai figli, l’erogazione di buoni pasto (per mense interne ovvero da utilizzare in esercizi esterni), agevolazioni per il trasporto (si pensi alla concessione di un auto aziendale, ma anche a biglietti ferroviari a tariffa ridotta ovvero a buoni carburante).

Talvolta, a prescindere dai bisogni primari dei lavoratori, non è infrequente che le aziende si spingano sino ad agevolare e valorizzare anche il tempo libero di questi ultimi, offrendo strumenti quali abbonamenti o ingressi in palestre e altre strutture per l’attività sportiva, abbonamenti o ingressi al cinema, a teatro e, in generale, per attività di stampo culturale e, talvolta, anche iscrizione a corsi non legati all’attività lavorativa prestata dal soggetto (corsi di yoga, di danza, di arti figurative etc.).

CONCLUSIONE

La scelta di ricorrere a piani di welfare rappresenta un’indubbia opportunità per entrambe le parti del rapporto di lavoro.

Con specifico riferimento al benessere dei lavoratori e alla relativa percezione dell’azienda in cui operano, i dati raccolti nel citato “2^ Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale” posso definirsi alquanto rassicuranti e consentono di coltivare l’auspicio a che la platea beneficiaria di un sistema di welfare che si affianchi a quello statale continui nel proprio progressivo ampliamento. Si pensi al fatto che, rispetto al campione degli intervistati, il 57% dei lavoratori definisca, sia all’interno che al di fuori del contesto aziendale, positivamente il proprio datore di lavoro e il 51% dei lavoratori abbia visto ridotta la propria propensione a cambiare azienda.

Tuttavia sussiste una profonda disparità tra i dipendenti, a seconda della dimensione dell’impresa. Infatti, per quanto negli ultimi anni si registri un trend decisamente positivo anche per le piccole-medie imprese, molti dei benefit sperimentati continuano ad attenere principalmente al campo delle grandi aziende. A ciò si aggiunga che i fruitori degli strumenti di welfare aziendale sono rappresentati, nella maggioranza dei casi, da lavoratori subordinati a tempo indeterminato, cosicché il rischio di un’ulteriore accentuazione del divario economico tra soggetti “protetti” (garantiti dalla generalità delle tutele di matrice giuslavoristica) e lavoratori precari assume una discreta pregnanza.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU LAVOROPIU’ DI GIUFFRE’ EDITORE