Il trattamento economico di maternità, nell’ambito dell’ordinamento italiano, rappresenta una delle misure più rilevanti in materia di equità di trattamento e pari opportunità in favore delle lavoratrici madri. È la stessa Costituzione a prescrivere all’art. 37 una necessaria equivalenza di diritti in capo alla donna e, a parità di lavoro, alle “stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, nonché, in particolare, la necessità che le relative condizioni di lavoro ne consentano “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”. In questo senso, può sin d’ora affermarsi che gli interventi legislativi che meglio rappresentano diretta attuazione del richiamato principio e che si prestano – in linea teorica – a garantirne una certa effettività sono, oltre al trattamento economico (o indennità) della gestante, il periodo di congedo di maternità (trattasi di un arco temporale, pari a cinque mesi totali, in cui vi è l ’obbligo di astensione da qualsivoglia attività lavorativa) e il divieto di licenziamento in maternità (sussistente dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del minore). A ben vedere, simili istituti mirano, in termini generali, a garantire alla donna un’assoluta libertà di scegliere di essere madre, “senza che tale libertà sia di fatto limitata o condizionata dalla prospettiva di una perdita del proprio reddito lavorativo quale conseguenza della maternità” (si veda, sotto tale profilo, la risalente Corte costituzionale, sentenza n. 132/1991).

Orbene, al netto di tale doverosa premessa, giova, nello specifico, esaminare la pronuncia n. 158/2018 della Corte costituzionale, per mezzo della quale si è provveduto a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001, in quanto considerato significativamente penalizzante per le lavoratrici che avessero fruito di un periodo di congedo straordinario (dei cui presupposti si dirà in seguito).

Quadro normativo

Si precisa, in primo luogo, che, con il D.Lgs. n. 151/2001 il legislatore ha inteso apprestare in maniera quanto mai organica una particolare tutela (per mezzo di benefici e previsioni ad altro titolo) alla maternità e alla paternità nell’ambito dello svolgimento del rapporto di lavoro. Tra le disposizioni maggiormente garantiste nei confronti della lavoratrice vi è, appunto, l’attribuzione di un’indennità “giornaliera pari all’80% della retribuzione per tutto il periodo del congedo di maternità” (vedasi art. 22) come determinato dalla legge.

Lo stesso Decreto, poi, si preoccupa di specificare che la richiamata indennità si intende, in ogni caso, dovuta anche ove il rapporto di lavoro si risolva nel corso del periodo di congedo (art. 24, c. 1) e, allo stesso tempo, ciò vale anche allorquando l’inizio del congedo coincida con la sospensione dal lavoro, l’assenza dal lavoro senza retribuzione ovvero con la disoccupazione della lavoratrice gestante. Quest’ultima ipotesi, tuttavia, trova applicazione soltanto laddove “tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni” (art. 24, c. 2). Ebbene, il comma 3 dello stesso articolo (oggetto di pronuncia) esclude(va) dal computo dei sessanta giorni le seguenti ipotesi:

• le assenze dovute a malattia della lavoratrice (purché “accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali”);

• le assenze dovute ad infortunio sul lavoro della lavoratrice;

• il periodo di congedo parentale o di congedo per malattia del figlio fruito per una precedente maternità;

• l’assenza dovuta alla necessità di accudire figli minori in affidamento;

• il periodo di mancata prestazione lavorativa “prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale”.

Non vi era, a tal proposito, alcun riferimento al periodo di congedo straordinario di cui all’art. 42, comma 5, stesso D.Lgs. n. 151/2001. In questo senso, occorre rilevare che laddove il lavoratore conviva con un soggetto “con handicap in situazione di gravità accertata ai sensi dell’articolo 4, comma 1, legge 5 febbraio 1992, n. 104” (n.d.r. trattasi degli accertamenti relativi alla minorazione, alle difficoltà, alla necessità dell’intervento assistenziale permanente e alla capacità complessiva individuale residua effettuata dalle commissioni mediche delle unità sanitarie locali) ha diritto a fruire di un congedo per un periodo non superiore a due anni. Già ad una prima lettura appare quanto mai lampante – anche al netto delle considerazioni della Corte di cui si dirà in seguito – la sussistenza di un’insita irragionevolezza nella disposizione, posto che la fattispecie ex art. 42 può agevolmente assimilarsi alle ipotesi contemplate dalla norma in questione (art. 24, comma 3), in particolare – e a titolo esemplificativo – all’assenza per accudire minori in regime di affidamento; e, anzi, rispetto a quest ’ultima non v’è dubbio che la necessità di prestare assistenza a parenti con un rilevante grado di disabilità si connoti per un maggior livello di gravità e di esigenza di tutela.

Congedo straordinario e ambito di applicazione della disposizione

Con riferimento alla fattispecie del congedo straordinario occorre, peraltro, brevemente sottolineare che la stessa Corte costituzionale ha avuto modo in passato di pronunciarsi sull’art. 42, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001, dichiarandone la parziale incostituzionalità, in più di un’occasione. Si segnalano in tal senso – e per dovere di completezza – le seguenti pronunce:

sentenza n. 233/2005, con cui si è rilevata l’illegittimità alla luce della mancata previsione in ordine al diritto di fruizione del congedo in capo a “uno dei fratelli o delle sorelle conviventi con un disabile grave”, qualora i genitori risultassero impossibilitati a prendersene cura e prestare la dovuta assistenza;

sentenza n. 158/2007, per mezzo della quale si è dichiarata l’illegittimità del comma 5 laddove lo stesso non prevedeva “in via prioritaria rispetto agli altri congiunti già indicati dalla norma, il coniuge convivente della persona in situazione di disabilità grave”;

sentenza n. 19/2009, in occasione della quale l’illegittimità costituzionale ha colpito la stessa disposizione ove non contemplava tra il “novero dei soggetti beneficiari il figlio convivente” nemmeno allorquando questi fosse l’unico soggetto in grado di assistere il disabile.

Da ultimo, poi – e in seguito all’intervento di modifica del legislatore di cui al D.Lgs. n. 119/2011 che si è sostanzialmente adeguato alle prescrizioni della Corte e all’ampliamento dei beneficiari – la Corte è ulteriormente intervenuta in data 24 luglio 2013, con sentenza n. 203/2013, includendo tra i soggetti di cui sopra “l’affine del terzo grado convivente, nonché… gli altri parenti e affini più prossimi all’assistito, comunque conviventi ed entro il terzo grado” in caso di “mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti”. A ben vedere, infatti, posto che l’ordinamento già riconosceva a più livelli il ruolo dei parenti e degli affini sino al terzo grado nell’ambito della cura ai disabili (si pensi ai permessi ex art. 33, comma 3, legge n. 104/1992), un’esclusione in tal senso nella specifica ipotesi del congedo straordinario si sarebbe prestata ad infirmare le garanzie ex artt. 2, 3, 29, 32 e 118 Cost.

Il caso

Risulta utile richiamare sinteticamente le controversie da cui il giudizio ha preso le mosse: una lavoratrice ricorreva innanzi al Tribunale di Torino (sezione lavoro) avverso l’Istituto di previdenza affinché quest’ultimo provvedesse al riconoscimento dell’indennità ex legge n. 151/2001 per tutta la durata del congedo di maternità; possibilità che le era stata negata poiché all’inizio della gravidanza la ricorrente aveva fruito (ed era dunque stata assente dal lavoro) del congedo straordinario per più di sessanta giorni, al fine di prestare la necessaria opera di assistenza al marito gravemente disabile.

Investito della controversia, il giudice del Tribunale di Torino (ordinanza 12 aprile 2017), impossibilitato a tutelare la posizione della lavoratrice in forza della norma richiamata, ha optato per la proposizione della questione di legittimità costituzionale, in considerazione del fatto che, a suo dire, la disciplina configurata dal legislatore si sarebbe prestata a ledere i diritti (costituzionalmente garantiti) di due diversi soggetti. Da un lato, infatti, il primo rilevante pregiudizio avrebbe riguardato direttamente la figura del soggetto disabile, in spregio al proprio diritto “di ricevere assistenza all’interno del proprio nucleo familiare” e, dall’altro, si sarebbe leso il diritto della stessa lavoratrice “di prestare assistenza al proprio coniuge disabile” potendo scegliere in totale libertà il momento in cui diventare madre.

All’interno dell’ordinanza di rimessione alla Corte, poi, si legge come “la singolarità del trattamento riservato alla lavoratrice che si assenta per assistere il coniuge portatore di handicap” appaia del tutto “carente di ogni giustificazione razionale”, posto che non risulta in alcun modo “meritevole di una minor tutela” rispetto ai casi enunciati espressamente dalla norma in oggetto. Peraltro, oltre a porsi in violazione di più prescrizioni costituzionali (segnatamente gli artt. 3, 31 e 37 Cost.), secondo il giudice a quo sarebbe risultata ravvisabile, altresì, una contrarietà a talune norme fondamentali europee, cui si deve il divieto di discriminazione a causa del sesso (artt. 20, 21, 23, 33 e 34 Carta dei diritti fondamentali dell’Ue) e a causa della disabilità (Direttiva 2000/78/Ce). Da un lato, infatti, la Cdfue (che, occorre sottolineare, ha valore di trattato ed assume, quindi, rango costituzionale in forza dell’art. 117 Cost.) riconosce espressamente “il diritto ad un congedo di maternità retribuito ed il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale in caso di maternità” e, dall’altro, la Direttiva richiamata, nel sancire un generale divieto di discriminazione fondato sull’handicap, applica detto principio “non solo al disabile, ma anche a coloro i quali prestano in suo favore la necessaria assistenza” (si veda, in questo senso, Corte di Giustizia 17 luglio 2008, causa C-303/2006).

Allo stesso tempo, in analogo giudizio di merito, un’altra lavoratrice in gravidanza ricorreva innanzi al Tribunale di Trento per vedere anch’essa accertato il diritto al trattamento economico ex D.Lgs. n. 151/2001, nonostante l’assenza dal lavoro per più di sessanta giorni dovuta alla necessità di assistere il figlio minore gravemente disabile. Orbene, anche tale giudice (ordinanza 16 ottobre 2017) non ha potuto far altro che adire la Corte costituzionale per gli stessi motivi di cui sopra.

Tassatività delle ipotesi

Come anticipato, in assenza di un intervento sul punto da parte della Corte costituzionale, il giudice di merito non avrebbe potuto dar luogo ad alcuna interpretazione adeguatrice delle ipotesi di esclusione del computo dei sessanta giorni. L’elencazione prevista dalla disposizione è, infatti, da intendersi indubbiamente tassativa, sulla base delle ordinarie regole di interpretazione delle norme e stante l’assoluta chiarezza del testo della disposizione in oggetto.

Come è noto, infatti, già l’art. 12 delle preleggi prevede che l’interprete, nell’applicazione di una norma, non può attribuire alla stessa “altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore”. Occorre per di più segnalare che detta tassatività è stata, a più riprese, confermata dalla giurisprudenza di legittimità (in tal senso, si leggano Corte di cassazione, sez. lav., sentenza n. 17524/2017, nonché sentenza n. 7675/2017).

Pronuncia della Corte costituzionale

Investita della questione, la Corte costituzionale è intervenuta sul comma oggetto di controversia, per mezzo di una decisione di tipo additivo (sentenza n. 158/2018). A questo proposito, risulta utile sinteticamente premettere che le sentenze additive, appartenenti al più ampio genus delle pronunce manipolative, rappresentano una tipologia decisoria che l’ordinamento riconosce al Giudice delle leggi e il cui utilizzo, in particolar modo, si rende necessario ogniqualvolta l’illegittimità costituzionale riguardi una disposizione nella parte in cui “non prevede” qualcosa di ulteriore (e costituzionalmente necessario).

In altri termini, di fronte a pronunce additive, può dirsi che ad essere incostituzionale non è la disposizione in toto, ma la stessa va ritenuta aderente al dettato della Carta solo se letta unitamente ad un’aggiunta o integrazione. Ebbene, come anticipato – e con riferimento all’art. 24, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001 – la Corte ha provveduto a dichiararne l’illegittimità “nella parte in cui non esclude dal computo di sessanta giorni immediatamente antecedenti all’inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro il periodo di congedo straordinario previsto dall’art. 42, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001, di cui la lavoratrice gestante abbia fruito per l’assistenza al coniuge convivente o a un figlio, portatori di handicap”. Giova, con ciò, analizzare con maggior grado di dettaglio i punti chiave del ragionamento effettuato dal Giudice, con esplicito riferimento alle disposizioni della Carta violate.

Nel confermare la tassatività delle ipotesi derogatorie elencate dal legislatore sulla scorta dei propri precedenti interpretativi (sentenza n. 106/1980), la Corte ha, in primo luogo, affermato la sussistenza di un’evidente contrasto con il più volte citato art. 37 Cost., posto che, si legge nella sentenza, la disposizione censurata “sacrifica in maniera arbitraria la speciale adeguata protezione” che il relativo comma 1 “accorda alla madre lavoratrice e al bambino”, nonché con la previsione più generale ex art. 31, secondo comma, Cost. [“(la Repubblica) protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo”].

Sotto il profilo della ragionevolezza ex art. 3 Cost., poi, la stessa ha avuto modo di rilevare come il legislatore abbia dato luogo ad un bilanciamento irragionevole nei confronti “di due principi di primario rilievo costituzionale”: la tutela della maternità e la tutela del disabile; e, infatti, l’inevitabile scelta che la lavoratrice gestante si ritrova a dover compiere (ossia decidere se assistere il parente disabile o riprendere l’attività lavorativa per godere delle provvidenze legate alla maternità) impone un indebito sacrificio dell’una o dell ’altra tutela, in palese spregio del “disegno costituzionale che tende a riavvicinare le due sfere di tutela e a farle convergere, nell’alveo della solidarietà familiare, oltre che nelle altre formazioni sociali”. Peraltro, ulteriori profili di irragionevolezza possono individuarsi con riferimento ad altre deroghe effettivamente individuate dal D.Lgs. n. 151/2001, posto che, rispetto alle ipotesi del periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente malattia risultano, nel congedo straordinario per assistenza al coniuge/figlio disabile, “esigenze di tutela egualmente rilevante”. Le assenze dal lavoro in tal senso, continua il Giudice delle leggi, sono subordinate “a presupposti oggettivi e temporali rigorosi” e, in virtù di ciò, non possono, d’altro canto, ritenersi equiparabili “ad altre assenze, giustificate da motivi personali e di famiglia, che incidono sul computo dei sessanta giorni previsti dall’art. 24, comma 2, D.Lgs. n. 151/2001”.

La Corte ha, invero, omesso di pronunciarsi con riferimento agli ulteriori profili di illegittimità asseriti dal giudice rimettente di Torino, in merito ad una pretesa contrarietà con la normativa Ue (Cdfue e Direttiva 2000/78/Ce), ritenuti del tutto assorbenti rispetto ai principi già enunciati. Orbene, non può non concludersi per un’assoluta opportunità dell’intervento della Corte costituzionale che, di fronte ad una lacuna legislativa particolarmente rilevante, ha offerto una soluzione del tutto condivisibile. Lo stesso Giudice parrebbe – ancora una volta – aver opportunamente ampliato la tutela della lavoratrice (e dei disabili dalla stessa assistiti) in assoluta continuità con i propri precedenti interventi che hanno caratterizzato l’evoluzione (in chiave garantista) dei benefici in esame.

Inclusione delle unioni civili

Al fine di dirimere qualsivoglia possibile dubbio interpretativo circa la portata da attribuirsi alla decisione della Corte e all’estensione del beneficio dalla stessa operata, è intervenuto l’Inps che ha provveduto a chiarire quali siano i soggetti inclusi nell’ambito di applicazione della norma “manipolata”.

In particolare, per mezzo del messaggio 2 novembre 2018, n. 4074, l’Inps, nel richiamare l’avvenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001, ha fornito all’interprete e agli operatori utili indicazioni circa l’applicabilità della deroga alla fattispecie dell’unione civile. Giova, in questo senso, rilevare che, con l’approvazione della legge 20 maggio 2016, n. 76 (recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”) il legislatore ha istituito e inteso offrire un’apposita disciplina – pressoché analoga in termini di diritti – alle unioni tra soggetti dello stesso sesso. Orbene, è la stessa legge ad equiparare espressamente l’unione civile al matrimonio anche sotto il profilo testuale degli atti legislativi precedenti la sua entrata in vigore.

Nello specifico, l’art. 1, comma 20, legge n. 76/2016 prevede che, eccezion fatta per le norme del Codice civile non richiamate espressamente e per le disposizioni in materia di affidamento e adozioni di cui alla legge n. 184/1983 (“Diritto del minore ad una famiglia”), “al solo fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole ‘coniuge’, ‘coniugi’ o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso”. In tal senso, quindi, il messaggio n. 4074 ha evidenziato che l’unito civilmente deve intendersi a tutti gli effetti incluso, in via alternativa e al pari del coniuge, tra i soggetti individuati prioritariamente dal legislatore ai fini della concessione del congedo straordinario di cui all’articolo 42, comma 5, D.Lgs. n. 151/2001, che può, quindi, attribuirsi secondo il seguente ordine di priorità:

1. coniuge convivente ovvero parte dell’unione civile convivente della persona disabile in difficoltà;

2. padre o madre della persona disabile;

3. figli conviventi della persona disabile;

4. fratelli o sorelle conviventi della persona disabile;

5. parenti o affini entro il terzo grado conviventi della persona disabile (quanto agli affini, giova sottolineare che, con circolare n. 38/2017, l’Inps ha affermato che “tra una parte dell’unione civile e i parenti dell ’altro non si costituisce un rapporto di affinità, dal momento che l’art. 78, Codice civile non viene espressamente richiamato dalla legge n. 76/2016”).

Conseguentemente, occorre concludere che, nel calcolo dei sessanta giorni di cui all’art. 24, comma 2, D.Lgs. n. 151/2001, vanno altresì esclusi tutti i periodi di congedo straordinario fruiti per l’assistenza alla parte dell’unione civile convivente, che si ritrovi in stato di disabilità grave. Ciò vale, peraltro, per esplicita indicazione dell’Inps, anche per gli “eventi pregressi alla sentenza della Corte costituzionale, per i quali non siano trascorsi i termini di prescrizione” (vedasi, ancora, Inps, messaggio n. 4074).

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA