Al fine di offrire una tutela ulteriore ai lavoratori che, in particolari periodi della propria vita, si ritrovino ad affrontare problematiche legate alle condizioni di salute dei propri figli, nonché ad incentivare il consolidarsi di un sistema di solidarietà tra colleghi di lavoro, il legislatore ha provveduto, per mezzo dell’art. 24, Decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151 (c.d. Jobs Act), ad introdurre nell’ordinamento italiano un peculiare meccanismo di cessione delle ferie maturate: le c.d. “ferie solidali”.

Inquadramento della fattispecie

Per un corretto inquadramento della fattispecie, risulta necessario rilevare come la Costituzione italiana, all’art. 36, preveda esplicitamente il diritto dei dipendenti “al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite” e il Codice civile, all’art. 2109, garantisca “un giorno di riposo settimanale” e “un periodo annuale di ferie retribuite, possibilmente continuativo”. Come noto, è la stessa disposizione costituzionale a precludere al lavoratore la possibilità di rinunziarvi. Da tale irrinunciabilità deriva, in primo luogo, un assoluto divieto di monetizzabilità delle ferie eventualmente non godute, a garanzia del lavoratore stesso, tanto che un’eventuale indennità sostitutiva può essere riconosciuta solo con riferimento a periodi aggiuntivi rispetto a quanto previsto dalla normativa. Trattasi, infatti, di un diritto da intendersi quale indisponibile, come rilevato a più riprese anche dalla giurisprudenza di legittimità (in tal senso, vedasi a titolo meramente esemplificativo Cassazione, sentenza n. 23697 del 10 ottobre 2017).

Ebbene, se si consentisse indiscriminatamente la sostituzione del periodo di ferie con un’indennità economica si rischierebbe di vanificarne l’effettivo godimento, posto che detta erogazione “non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute”, in quanto non permette “al lavoratore di reintegrare le energie psico-fisiche” (si legga ancora Cassazione n. 23697/2017). Tuttavia, sulla base di quanto ampiamente argomentato dagli interpreti, ne è pacificamente ammessa, come detto, la possibilità di rinuncia (su base volontaristica ed esclusivamente per la componente eccedente), ove la quantificazione delle ferie pattuita con il datore di lavoro ovvero individuata dalla contrattazione collettiva sia superiore al minimo legale (a mente dell’art. 10, Decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66 “il prestatore di lavoro ha diritto a un periodo annuale di ferie retribuite non inferiore a quattro settimane”). Sulla base del richiamato articolo, infatti, “…il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute”, da ciò discendendo la legittimità di qualsivoglia libera disposizione, sia essa a titolo oneroso o a titolo gratuito, sul proprio periodo in eccesso. È in tale quadro che può leggersi l’intervento legislativo in oggetto, posto che, in un’opera di bilanciamento di principi di rilevanza costituzionale, il diritto del lavoratore a soddisfare le proprie primarie esigenze, “dalla reintegrazione delle sue energie psico-fisiche allo svolgimento di attività ricreative e culturali” (vedasi, in questo senso, Corte costituzionale, sentenza n. 543/1990) può essere oggetto di adeguata ponderazione con il principio di solidarietà sociale e familiare, ricavabile da più disposizioni della Carta fondamentale, che con l’introduzione delle c.d. “ferie solidali” si è inteso tutelare.

Le origini dell’istituto: la Loi Mathys

La necessità di disciplinare esplicitamente la richiamata possibilità di cessione ha iniziato a divenire attuale nell’ambito dell’ordinamento giuridico francese. Con la legge n. 459 del 9 maggio 2014 (la c.d. “Loi Mathys”), infatti, il legislatore transalpino ha ritenuto opportuno prevedere, all’interno del Codice del lavoro francese, la possibilità per “tutti i dipendenti, pubblici e privati” di cedere in forma anonima – e con il consenso del datore di lavoro – “i diritti o parte di essi su permessi e ferie retribuite” in favore dei lavoratori i quali abbiano un figlio “con meno di vent’anni affetto da una malattia, un handicap o vittima di un incidente di gravità tale da rendere indispensabile una presenza e cure costanti”. Trattasi di un’esigenza che ha iniziato a prendere le mosse da una sentita mobilitazione di persone ed associazioni, in seguito, appunto, al caso del piccolo Mathys di grande rilevanza mediatica.

In particolare, nell’ambito di un’azienda della regione della Loira, un nutrito gruppo di dipendenti si era reso protagonista di una colletta solidale, per un totale di 170 giorni di ferie retribuite da donare ad un collega, chiamato ad affrontare la drammatica situazione di un cancro al fegato in stato terminale occorso al figlio di 11 anni. Il soggetto, infatti, aveva già fruito della totalità dei permessi e dei periodi di ferie riconosciutigli dalla legge e – al netto di possibili forme di aiuto di natura finanziaria – necessitava di un tempo maggiore per accudire il minore adeguatamente. In detta circostanza la possibilità di usufruire dei giorni spettanti ai colleghi era stata formalizzata all’interno di un accordo aziendale, ma l’episodio ha rappresentato una vera e propria fonte di ispirazione per l’iniziativa legislativa che ne è seguita.

La disciplina del Jobs Act

Passando all’esame della normativa italiana e, nello specifico, dell’art. 24 del D.Lgs. n. 151/2015, può notarsi come al lavoratore sia concesso di “cedere” – a titolo gratuito – “i riposi e le ferie” dallo stesso maturati “ai lavoratori dipendenti dallo stesso datore di lavoro”, affinché questi possano “assistere i figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitano di cure costanti”. Ad una prima lettura è possibile individuare significative analogie con la scelta operata in Francia, per mezzo della Loi Mathys, ma anche talune differenze di fondo. Innanzitutto giova sottolineare come, al netto delle garanzie minime offerte dalla legge e dall’impossibilità di infirmare il sopra richiamato diritto del prestatore di fruire, tra gli altri, di almeno quattro settimane annuali, la norma non preveda rilevanti limiti quantitativi.

A ben vedere, peraltro, già per mezzo della legge delega (legge 10 dicembre 2014, n. 183) il legislatore aveva statuito la facoltà di “donare” al collega “tutti o parte dei giorni di riposo aggiuntivi” (art. 1, comma 9, lett. e), individuando, quale finalità generale dell’intervento, la garanzia di un “adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure volte a… favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art. 1, comma 8). Ad ogni modo, stante il richiamo espresso, operato dall’art. 24, ai diritti riconosciuti ai lavoratori dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 che vengono fatti salvi, l’oggetto della cessione può essere rappresentato da:

• il periodo di ferie annuali retribuite eccedente le quattro settimane prescritte dall’art. 10, comma 1, D.Lgs. n. 66/2003 e pattuito in maniera aggiuntiva a livello di contrattazione collettiva o di contrattazione individuale con il datore di lavoro;

• le ore eccedenti il necessario riposo giornaliero, posto che, a norma dell’art. 7, D.Lgs. n. 66/2003 “… ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni 24 ore”;

• le eventuali ore eccedenti le “ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero” garantite ad ogni lavoratore ogni sette giorni dall’art. 9, comma 1, D.Lgs. n. 66/2003.

In un’ottica prettamente comparatistica, può notarsi come, rispetto alla disposizione francese, sussista una differenza, in primo luogo, con riferimento ai requisiti anagrafici del figlio cui apprestare le cure dovute, che vede quale limite massimo il compimento della maggiore età in luogo dei vent’anni previsti dalla Loi Mathys.

Invero, più rilevante appare l’assenza di qualsivoglia riferimento all’anonimato al momento della cessione da parte del collega. A ben vedere, la scelta di escludere la conoscibilità del “donante” parrebbe presentare taluni e indiscutibili vantaggi, che il legislatore italiano non sembrerebbe aver preso adeguatamente in considerazione. In particolar modo, consentendo esclusivamente una cessione in forma anonima, risulterebbe maggiormente incentivata una scelta basata sull’effettiva ed oggettiva difficoltà del minore bisognoso di cure, piuttosto che sulle dinamiche relazionali (spesso positive, ma talvolta problematiche) che si sviluppano nei luoghi di lavoro. Si ritiene, invero, particolarmente opportuna la prescrizione in merito alla gratuità della cessione, che parrebbe, ad una prima lettura, idonea a scongiurare l’eventuale insorgenza di pratiche scorrette volte ad approfittare economicamente delle gravi situazioni di difficoltà altrui.

L’intervento legislativo di cui all’art. 24, tuttavia, risulta indubbiamente lacunoso se letto nell’ottica di circoscrivere il campo di applicazione della fattispecie e, nello specifico, non può ricavarsi dalla lettura della disposizione alcun riferimento esplicito alle condizioni minime che devono caratterizzare il minore bisognoso di cure. Occorrerà, con ciò, ricorrere alla via interpretativa per individuare il discrimine tra una mera situazione patologica e uno stato richiedente cure costanti. In particolare, la norma non fornisce alcuna indicazione in merito alla possibile estensione della tutela a mere condizioni di invalidità temporanea, posto che ne risulta, invero, pacifica l’applicazione ove l’invalidità si connoti in senso permanente. In tal senso, l’originaria formulazione di cui alla legge delega (legge n. 183/2014, art. 1, comma 9, lett. e) – seppur caratterizzata da genericità – si prestava opportunamente ad offrire un elemento di valutazione ulteriore, ove prescriveva il riconoscimento della possibilità di cessione al genitore di figlio minore che necessitasse, oltre che di cure costanti per le particolari situazioni di salute, altresì “di presenza fisica”. Ciò detto, non parrebbe, ad ogni modo, possibile prescindere da un preventivo accertamento della patologia certificato da una struttura sanitaria.

In ogni caso, in ragione della peculiarità dello strumento e dei possibili risvolti concreti, il legislatore ha inteso attribuire alla contrattazione collettiva un ruolo di rilievo nella definizione dei confini della cessione. È infatti, proprio ai contratti collettivi (stipulati dalle “associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”) che è demandato il compito di individuarne le modalità di fruizione, la misura, nonché le relative condizioni. Non parrebbero sussistere particolari divieti (in ragione della natura solidaristica e volontaria dell’istituto) alla definizione di accordi a livello aziendale che apportino condizioni migliorative o, in ogni caso, tendano ad ampliare il campo di applicazione – rispetto a quanto previsto dalla legge in questione. A ben vedere, infatti, a mente dell’art. 51, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ove il legislatore adotti la definizione di “contratti collettivi”, in essa devono ricomprendersi, oltre ai contratti collettivi nazionali, quelli “territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Ciò può avere luogo, a titolo esemplificativo, con riferimento al grado di parentela con il lavoratore beneficiario della cessione, estendendo la misura ogniqualvolta sia il coniuge o altro prossimo congiunto a ritrovarsi in una condizione di grave invalidità. Allo stesso tempo parrebbero ricondursi all’alveo della legittimità pattuizioni a livello aziendale che estendano la cessione ai genitori di figli bisognosi di cure quand’anche maggiorenni.

Le prime previsioni contrattuali

Premesso il richiamato ampio margine concesso dal D.Lgs. n. 151/2015 alla contrattazione collettiva nella definizione e nell’individuazione di limiti alle ferie e riposi solidali, giova analizzare, a più di tre anni dall’intervento legislativo in oggetto, le prime applicazioni pratiche della disposizione, ossia verificare in concreto la disciplina offerta da taluni contratti collettivi, in particolare nazionali, che abbiano già provveduto a regolarne detti aspetti.

Occorre, sin da subito, sottolineare come, allo stato, siano ancora ridotte le categorie che abbiano provveduto, in maniera lungimirante, in tal senso. Si segnala, in primo luogo, non tanto per la particolarità del relativo contenuto, quanto più per aver rappresentato, in assoluto, il primo accordo a livello nazionale l’accordo per il rinnovo del Ccnl per gli addetti all’Industria Chimica, Chimico-Farmaceutica delle Fibre Chimiche e dei Settori abrasivi, lubrificanti e Gpl, (sottoscritto in data 15 ottobre 2015), da parte di Federchimica, Farmindustria, Ugl- Chimici, Failc-Confail, Fialc-Cisal. Per mezzo di tale rinnovo, in particolare, oltre a garantire ai dipendenti interessati la possibilità di cedere ferie e riposi sulla base di quanto stabilito dall’art. 24, D.Lgs. n. 151/2015, le parti sociali hanno concordato la necessità di un “previo consenso” da parte del lavoratore beneficiario della cessione. Inoltre, un ruolo determinante per il settore indicato è svolto, in ogni caso, dal datore di lavoro, posto che la cessione deve avere luogo nella “misura e modalità concordate con la direzione aziendale”, dando necessariamente priorità “ai riposi accantonati nel conto ore e a quelli in ogni caso maturati negli anni precedenti a quello della richiesta”. È demandata, poi, alla contrattazione aziendale la possibilità di valutare l’adozione di misure o modalità che consentano una cessione collettiva di ferie e riposi, nonché il relativo accantonamento.

Di notevole rilevanza è, altresì, l’accordo raggiunto nell’ambito del comparto metalmeccanico. Dapprima con il Ccnl del 26 novembre 2016, sottoscritto da Federmeccanica, Assistal e FimCisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil, si era statuita, con un’apposita dichiarazione introdotta all’art. 5, Sezione IV, Titolo III, la necessità di “valorizzare e promuovere” lo strumento in oggetto, previo approfondimento “con le Istituzioni competenti” in merito “al trattamento fiscale e contributivo delle ore di ferie/Par” cedute. Ebbene, tale opera di promozione e valorizzazione è giunta a compimento per mezzo della stipula del verbale di intesa del 26 marzo 2018 (“Linee Guida per l’applicazione della Banca delle ore solidale”) ad opera delle stesse associazioni di categoria di cui al Ccnl del comparto. Con la pattuizione di cui sopra, in particolare, si è provveduto ad introdurre un vero e proprio sistema innovativo: la c.d. “Banca delle ore solidale”. Nello specifico, in ogni contesto aziendale, i componenti della R.S.U. (ovvero i singoli lavoratori) possono richiederne l’attivazione e, in seguito agli adempimenti previsti in materia di privacy e di acquisizione del consenso al trattamento dei dati da parte dei beneficiari della misura, spetta all’impresa stessa offrire idonee informazioni alla totalità dei lavoratori, da un lato, e a raccoglierne le disponibilità di adesione dall’altro. Ad essere oggetto della cessione sono, come previsto dalla legge, le “quote di P.a.r. accantonati in conto ore” e le “ferie aggiuntive monetizzabili”; tuttavia, con il verbale di intesa in oggetto, le parti sociali hanno ritenuto opportuno ampliare la categoria dei beneficiari e le condizioni per la fruizione. Infatti, oltre all’ipotesi legislativa di assistenza di figli minori che necessitano di cure costanti, è possibile (per tale specifico comparto) attivare il meccanismo di Banca ore in svariate – e possibili – circostanze, ossia ogniqualvolta si registrino in termini generali “situazioni di grave necessità che abbiano determinato fra lavoratori dell’azienda l’esigenza di aiutare i colleghi interessati attraverso la cessione volontaria”.  La previsione volutamente aperta si presta, con ciò, a tutelare varie difficoltà in cui, a diverso titolo, possono incorrere i dipendenti e parrebbe porre maggiormente l’accento sulla percezione in capo ai colleghi dell’effettiva necessità, piuttosto che sull’oggettiva gravità accertabile.

In ogni caso, quanto ai profili fiscali e contributivi, lo stesso accordo si preoccupa di specificare che il valore delle ore cedute corrisponda al lordo nominale, e contribuzione e tassazione saranno applicate “sulle ore di permesso che saranno fruite dal lavoratore beneficiario”. È, poi, demandata interamente al regolamento aziendale o a specifici accordi, oltre all’individuazione di ipotesi più specifiche cui subordinare l’applicazione dell’istituto, la disciplina dei seguenti aspetti:

• il periodo entro cui manifestare la propria volontà di effettuare la cessione;

• la quantità minima di ore cedibili;

• l’eventuale modalità di partecipazione aziendale;

• le modalità ed il periodo entro cui il beneficiario può goderne;

• la gestione degli eventuali residui della Banca ore non fruiti.

Scelte dotate di un maggior grado di cautela sono individuabili all’art. 34 del nuovo Ccnl Sanità che, al netto della configurazione di una vera e propria Banca ore, si limita a ribadire, quanto ai presupposti, la necessaria assistenza ad un figlio minore che necessiti di cure costanti, specificando altresì che detta disciplina “potrà essere oggetto di revisione, anche al fine di una possibile estensione del beneficio ad altri soggetti”. Ad ogni modo, in ossequio al meccanismo configurato dal Ccnl Sanità, è il dipendente beneficiario stesso a dare avvio alla procedura, presentando specifica richiesta all’azienda o all’ente di riferimento di un massimo di 30 giorni fruibili e allegando, a tal proposito, un’adeguata certificazione comprovante lo stato di salute del minore, “rilasciata da idonea struttura sanitaria pubblica o convenzionata”. Una volta ricevuta l’istanza, sarà il datore di lavoro a rendere nota la predetta esigenza a tutto il personale, purché sia garantito l’anonimato del soggetto richiedente.

Si segnala, da ultimo, il Ccnl del personale del comparto Funzioni Centrali, sottoscritto in data 12 febbraio 2018 da parte di Aran, Cisl Fp, Fp Cgil, Uil/PA, Fed. Confsal Unsa, Fed. Naz.le Intesa Fp, Flp che ha anch’esso regolato in maniera specifica le modalità di fruizione ed i presupposti per la cessione. In particolar modo, anche per il comparto Funzioni Centrali è possibile donare le giornate di ferie eccedenti le quattro settimane annuali di cui all’art. 10, D.Lgs. n. 66/2003. Può, altresì, operarsi la cessione con riferimento alle quattro giornate di riposo per festività soppresse previste dallo stesso Ccnl del 12 febbraio 2018 all’art. 28 (“… a tutti i dipendenti sono altresì attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell’anno solare ai sensi ed alle condizioni previste dalla … legge n. 937/77”). Non si rinvengono, invece, disposizioni contrattuali specifiche relative alle ore di riposo giornaliero e ai riposi settimanali.

Ad ogni modo, anche per il comparto in oggetto spetta al soggetto che si ritrovi nelle condizioni di cui all’art. 24, D.Lgs. n. 151/2015 presentare apposita richiesta all’amministrazione di riferimento, che provvederà a renderla nota – ancora una volta in maniera anonima – al resto del personale. Trattasi di una richiesta reiterabile dal lavoratore, a condizione che oggetto della domanda sia, ancora, l’“utilizzo di ferie e giornate di riposo per una misura massima di 30 giorni”.

Chiarimenti dell’INL

Va, peraltro, osservato come, con una nota datata 10 agosto 2018, l ’Ispettorato nazionale del lavoro abbia offerto chiarimenti sulle principali disposizioni innovative introdotte dal Ccnl del 12 febbraio 2018 e, in particolare, sull’istituto delle ferie e riposi solidali, specificando quanto segue:

• la cessione delle ferie avviene su base volontaria e gratuita;

• la cessione (“nel caso di articolazione dell’orario di lavoro settimanale su cinque giornate lavorative”) può riguardare, per ciascun anno, sino a otto giorni di ferie;

• nel caso in cui il dipendente (cedente) sia in servizio da meno di tre anni e sia stato assunto per la prima volta nell’ambito di una pubblica amministrazione, è possibile cedere sino a sei giorni di ferie su base annuale.

Conclusioni

Come detto, l’innovativo istituto che in questa sede si è inteso analizzare rappresenta un’indubbia opportunità di valorizzazione ed incentivazione di un clima di effettiva solidarietà tra colleghi di lavoro. Appare del tutto evidente come a beneficiarne, oltre ai soggetti direttamente coinvolti nella misura, sia altresì il datore di lavoro stesso, con possibili risvolti positivi sulla produttività aziendale. D’altra parte, la volontarietà e la gratuità della cessione delle ferie e riposi solidali non paiono astrattamente idonee a ledere le prerogative della totalità dei dipendenti, né la garanzia del minimo annuale di ferie previsto dalla legge può prestarsi ad infirmare l’effettività del recupero delle relative energie psico-fisiche. Possono, con ciò, leggersi in senso positivo gli accordi attualmente raggiunti a livello di contrattazione collettiva che, come sottolineato, hanno talvolta provveduto ad estendere ulteriormente la platea dei beneficiari e le condizioni di fruizione.

In ogni caso, posta la gravità delle situazioni che la fattispecie si presta generalmente a tutelare (gravi malattie occorse ai figli minori), permane l’interrogativo circa la sufficienza o meno di un sistema esclusivamente volontaristico, ovvero se non sia, per converso, opportuna la previsione di un’apposita prestazione assistenziale gestita direttamente a livello statale.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA