In un contesto sociale in continuo mutamento e nella sempre più ampia diffusione di forme flessibili di gestione del lavoro, un ruolo di assoluto rilievo è ricoperto dal lavoro autonomo nelle sue varie rappresentazioni. Si registra, invero, negli ultimi anni l’affermazione di una nuova logica nel rapporto tra impresa e prestatori di lavoro, con una progressiva espansione e diffusione del professionismo a vari livelli. Se, infatti, da un lato, la crisi economica ha colpito profondamente anche – e soprattutto – l’ambito delle libere professioni, dall’altro detta situazione non ha impedito l’emergere di figure e strumenti nuovi di collaborazione e, talvolta, di rapporti ibridi, con un progressivo e tendenziale assottigliamento delle differenze tra le due macro-categorie di lavoratori subordinati e lavoratori autonomi.

Ciò premesso, in questa sede si intende porre l’attenzione, in particolare, su tre tipologie di collaborazione che, a diverso titolo, hanno contraddistinto i dibattiti dottrinali e i recenti interventi legislativi, analizzando le relative discipline giuridiche nonché le modalità di svolgimento della prestazione. Giova, altresì, esaminare le novità introdotte, da ultimo, dalla legge 22 maggio 2017, n. 81 (recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”) e, in particolare, delle inedite tutele dalla stessa apprestate alla categoria. Occorre, con ciò, preliminarmente rilevare come, in linea generale, il lavoro autonomo trovi il proprio – e principale – fondamento normativo nella, seppur generica, disposizione di cui all’art. 2222, Codice civile, ai sensi del quale un soggetto si obbliga “a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente”. Appare del tutto evidente che l’elemento qualificante è rappresentato dall’assenza di subordinazione; a venire in rilievo, ai fini della distinzione con il “canonico” rapporto subordinato, è quindi la modalità di esecuzione dell’attività lavorativa. In questo senso, può dirsi oramai superata la tendenza ad individuare, quale tratto distintivo, l’oggetto della prestazione e, in particolare, la tipologia di obbligazione (nella concezione tradizionale: obbligazione di risultato per i collaboratori autonomi e obbligazione di mezzi per i lavoratori subordinati).

Il lavoro autonomo occasionale

Con l’espressione “lavoro autonomo occasionale” si intende generalmente la forma più “blanda” e “destrutturata” di collaborazione. Trattasi, in particolare, di prestazioni a carattere meramente saltuario che possono essere rese, in termini generali, per qualsivoglia tipologia di attività. Risulta necessario sottolineare come, nonostante l’infelice scelta terminologica operata dal Legislatore nella disciplina dei c.d. “nuovi voucher” (così come regolati dal D.L. n. 50/2017, all’art 54-bis e riservati, invero, a poche categorie di soggetti), qualificati quali “prestazioni occasionali” e definibili, invero, più propriamente come forme di lavoro accessorio, la collaborazione in oggetto goda di una disciplina del tutto differente. Ebbene, il rapporto che viene a costituirsi tra le parti quale lavoro occasionale, appunto, presenta, quale peculiarità, il fatto di esaurirsi completamente una volta raggiunto l’obiettivo predeterminato.

Non è, peraltro, richiesta ai fini della validità del contratto d’opera, la relativa stipula in forma scritta. Caratteristica fondamentale del lavoro autonomo occasionale è, infatti, l’assenza di una continuità, sistematicità e abitualità nello svolgimento della tipologia di attività da parte del prestatore, posto che, in caso contrario, lo stesso non potrebbe dirsi esonerato dall’obbligo di apertura della Partita Iva e di iscrizione ad una gestione previdenziale. Allo stesso tempo, detto sporadico rapporto deve caratterizzarsi per l’assenza di un’effettiva opera di coordinamento della prestazione da parte del committente che, non rappresentando un vero e proprio datore di lavoro, è chiamato ad astenersi dal coinvolgere il prestatore all’interno del contesto aziendale. Quest’ultimo provvede – al netto di possibili pratiche elusive – a dotarsi di una propria e autonoma organizzazione, in assenza di qualsivoglia potere direttivo in capo all’altra parte. I rilievi di cui sopra rappresentano, invero, un’ampia interpretazione del richiamato art. 2222 c.c., in cui il lavoro autonomo occasionale trova il proprio riferimento legislativo. Infatti, in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), è venuta meno per abrogazione espressa la specifica disciplina di cui al D.Lgs. n. 276/2003 e, con essa, gli espliciti limiti quantitativi alle prestazioni. I c.d. “mini-co.co.co.” (questa era la definizione generalmente utilizzata dagli interpreti per distinguere tali collaborazioni dalle ulteriori ipotesi del contratto a collaborazione continuativa e del contratto a progetto) vedevano, infatti, nell’art. 61 comma 2 del predetto decreto la propria tipizzazione. In particolare, con il concetto di “prestazioni occasionali” venivano intesi i rapporti  “di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente”, con l ’ulteriore limite di un compenso massimo percepibile, nel medesimo anno solare, pari “a 5 mila euro”. Continua ancor oggi, invece, a trovare applicazione l’obbligo di iscrizione alla Gestione Separata Inps, ai fini previdenziali, in caso di superamento della soglia di esenzione di 5.000 euro. Va chiarito che l’imponibile previdenziale è da intendersi costituito, ove i compensi siano maggiori di 5.000 euro, solo dagli importi eccedenti la soglia (con deduzione delle eventuali spese sostenute dal committente).

Sotto il profilo fiscale, il lavoratore autonomo è chiamato al rilascio, in favore del committente, di una ricevuta (da considerarsi non fiscale e fuori dall’ambito di applicazione dell’Iva) che funga da vera e propria certificazione dell’avvenuto pagamento da parte dello stesso, all’interno della quale indicare obbligatoriamente:

• generalità del prestatore, nonché del committente;

• la data di emissione;

• il numero progressivo della notula;

• il compenso lordo concordato tra le parti;

• il compenso netto;

• la ritenuta d’acconto;

• la marca da bollo.

Quanto alla categoria fiscale di riferimento, a norma dell’art. 67, lett. a), D.P.R. n. 917/1986 (Tuir), gli importi derivanti dalle prestazioni in oggetto devono senz’altro ricondursi alla residuale categoria dei “redditi diversi”.

Il lavoro parasubordinato

La, invero, più “problematica” figura di lavoro autonomo è senz’altro rappresentata dal c.d. lavoro parasubordinato, intendendosi con tale espressione la forma contrattuale per la quale il lavoratore può dirsi giuridicamente qualificabile come autonomo ma di fatto non del tutto indipendente nei confronti del committente. La problematicità di tale tipo di collaborazione consta, in particolare, nella difficoltà di sancire uno stretto confine tra l’organizzazione operata dal committente e l’eterodirezione vera e propria (tipica del lavoro subordinato), con ciò residuando il rischio del ricorso a pratiche elusive.

Ad ogni modo, con l’espressione “parasubordinazione” l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha individuato una vera e propria categoria a sé stante che trova il proprio principale fondamento giuridico nell’art. 409 c.p.c. In particolare, detta norma, così come più volte modificata, specificando le controversie cui applicare il rito speciale del lavoro prevede, tra le altre, i “rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. Dalla stessa disposizione emerge, altresì, come per “collaborazione coordinata” debba intendersi la circostanza in cui, “nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”. Ebbene, a dimostrazione del carattere “ibrido” di simili collaborazioni, va detto che, al netto delle novità introdotte dalla legge n. 81/2017 che si avrà modo di richiamare, ai rapporti di c.d. co.co.co (collaborazione coordinata continuativa) sono state a più riprese estese talune forme di tutela, tipiche della subordinazione. Tra queste può citarsi il sistema previdenziale che, grazie all’istituzione della Gestione separata Inps (a partire dalla legge 8 agosto 1995, n. 335), permette di garantire anche a tali collaboratori alcune tipologie di prestazioni; si pensi, in questo senso e a titolo meramente esemplificativo, alle indennità di malattia, alle indennità di maternità, alla pensione di invalidità e vecchiaia.

Per di più, in via residuale, si registra l’estensione al co.co.co. dell’ambito di applicazione dell’art. 2113 c.c. (trattasi dei casi di invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore), nonché dell’art. 429 c.p.c., ove consente al giudice di condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno “eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione del valore del suo credito”, nonché al pagamento degli interessi legali. Da ultimo, si segnala l’applicazione alle collaborazioni coordinate, ove sussistano i requisiti, delle “Disposizioni in materia di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali” di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38. Ciò premesso, può dirsi che, dalla lettura della norma di riferimento, il lavoratore in regime di co.co.co. deve ritenersi libero nello stabilire sia il luogo ove rendere la prestazione sia le tempistiche della stessa e, allo stesso tempo, è chiamato a determinarne autonomamente le modalità di esecuzione, seppur coordinandosi con l’organizzazione propria del committente.

Non risulta più necessaria, ai fini della legittimità del contratto di collaborazione, l’individuazione di uno specifico progetto cui finalizzare il rapporto. Con il D.Lgs. n. 81/2015 (c.d. Jobs Act), infatti, il Legislatore ha espressamente abrogato la disciplina di cui al D.Lgs. n. 276/2003. Tale decreto prevedeva, invero, una specifica e rigida formula contrattuale: il contratto di lavoro a progetto (co.co.pro.). Al fine di scongiurare l’eventuale instaurazione di rapporti di lavoro fittiziamente autonomi e, quindi, con un obiettivo antielusivo, il D.Lgs. 276/2003 richiedeva la definizione, al momento della stipula, di uno specifico progetto (individuato direttamente dal committente e riportato per iscritto nel contratto) che il collaboratore avrebbe poi gestito del tutto autonomamente. A norma dell’art. 62, Decreto, in particolare, il progetto doveva trovare una compiuta definizione e individuazione “nel suo contenuto caratterizzante”, posto che, in caso di assenza di un esplicito riferimento, sarebbe conseguita la sanzione della trasformazione “in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti” (art. 69, comma 2). Va da sé che, in seguito a detta abrogazione e al conseguente alleggerimento in capo al committente, i contratti di co.co.co. risultano ad ora stipulabili al netto del rispetto di particolari formalità.

Lo smart working

Una modalità di esecuzione della prestazione lavorativa totalmente innovativa e, invero, in continua e costante espansione è senz’altro rappresentata dallo smart working. Trattasi di una tipologia di rapporto idonea a riconsiderare i confini tra la subordinazione e le prestazioni in forma autonoma e resa possibile dall’incessante progresso delle tecnologie digitali. A ben vedere, pur rappresentando formalmente una peculiare ipotesi di lavoro subordinato, il c.d. “lavoro agile” si caratterizza per un’accentuata flessibilità di organizzazione dell’attività, tipica, appunto, dei rapporti autonomi. Tale modalità ha ricevuto un espresso riconoscimento a livello legislativo e, con esso, una propria disciplina giuridica per mezzo dell’approvazione della legge 22 maggio 2017, n. 81 (il c.d. “Jobs Act autonomi”), delle cui principali novità si dirà più approfonditamente in seguito. In particolare, a norma dell’art. 18 lo smart working viene definito come una “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti”.

È proprio lo specifico e strutturato accordo tra le parti a definirne i confini e, con essi, il maggior o minor grado di flessibilità che, ad ogni modo, tende a distanziarsi in maniera rilevante dai canonici elementi della subordinazione vera e propria. È lo stesso Legislatore, peraltro, a definirne esplicitamente gli obiettivi, coerentemente con le finalità individuate in sede di riforma delle fattispecie contrattuali con il Jobs Act:

•“incrementare la competitività”;

•“agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

A venire, in particolare, meno rispetto al classico rapporto subordinato è la necessaria predeterminazione di specifici vincoli di orario e di luogo della prestazione, purché la stessa non ecceda la durata massima dell’orario di attività stabilita a livello legislativo ovvero dalla contrattazione collettiva. Il datore di lavoro viene, con ciò, agevolato nella gestione dei costi dell’impresa e, nello specifico, di buona parte delle spese inerenti la sede di lavoro e la relativa manutenzione, a ciò accompagnandosi l’indubbio vantaggio conseguito dal prestatore, come detto, nella gestione del proprio tempo.

Taluno, in questo senso, ha individuato possibili rischi e svantaggi, consistenti nell’eventualità che lo smart worker, in un’incerta definizione delle tempistiche, possa ritrovarsi costantemente “connesso” agli strumenti di lavoro e al progetto di propria competenza in maniera continua nel corso della giornata, con possibili pregiudizi per la propria salute psico-fisica. Invero, può dirsi come detto pericolo debba ritenersi scongiurato ove l’accordo delle parti definisca in maniera chiara e puntuale le condizioni di svolgimento. Alla libera definizione delle parti del contratto (necessariamente in forma scritta) è, tra le altre, demandata la scelta sulla forma di organizzazione che – ancora a norma dell’art. 18, legge n. 81/2017- può avere luogo:

• per fasi;

• per cicli;

• per obiettivi.

Quanto al luogo della prestazione, la legge dispone che la stessa debba eseguirsi “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno” e, in ogni caso, senza una postazione fissa di lavoro. La sede esterna (che il più delle volte tende a coincidere con l’abitazione del lavoratore) può sì costituire parte integrante dell’accordo, ma senza significativi vincoli in tal senso. Occorre, poi, porre l’accento sui poteri in capo al datore di lavoro nel corso del rapporto. Ebbene, questi è chiamato ad esercitare le proprie attribuzioni – ancora una volta – sulla base di quanto stabilito in sede di pattuizione. Tra gli elementi fondamentali dell’accordo rientra, infatti, la disciplina del potere esercitabile sulla prestazione resa all’esterno dell’azienda (fatti salvi i limiti nel controllo a distanza di cui alla legge n. 300/1970 e successive modificazioni), posto che non sussistono significative differenze con il rapporto tradizionale quanto all’attività resa internamente.

Alle parti è, altresì, demandato di stabilire liberamente “le condotte”, connesse all’esecuzione della prestazione, “all’esterno dei locali aziendali, che danno luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari” (art. 21, comma 2, legge n. 81/2017). Non sussistono limiti legislativi nemmeno con riferimento alla durata contrattuale, ben potendo datore e lavoratore instaurare un rapporto sia a tempo determinato che indeterminato, avendo riguardo di considerare come nella seconda ipotesi il preavviso di un eventuale recesso non debba essere inferiore a trenta giorni (novanta giorni in caso di lavoratore con disabilità), salvo giustificato motivo. Ad ogni modo, il trattamento retributivo spettante al prestatore, a norma dell’art. 20, deve risultare in linea con quello “complessivamente applicato… nei confronti dei lavoratori che svolgono le medesime mansioni esclusivamente all’interno dell’azienda”. Appare ancora prematuro dare luogo ad una valutazione relativa ai primi mesi dall’introduzione e, in particolare, se lo strumento si sia ad ora rivelato idoneo ad adattarsi al mutamento sociale e alla generale trasformazione dei modelli organizzativi incrementando la produttività o – ancora se lo stesso si presti a possibili forme di abuso. Ciò non toglie che la predetta necessità di adeguamento goda di un’inevitabile e indiscutibile concretezza.

Le nuove tutele ex lege n. 81/2017

Con il c.d. Jobs Act del lavoro autonomo (legge 22 maggio 2017, n. 81) il Legislatore ha, altresì, tentato di offrire, in un’ottica di complessivo riordino del quadro normativo italiano in tema di lavoro, un impianto di tutele in favore dei lavoratori non subordinati e, in particolare, anche dei liberi professionisti, dei collaboratori occasionali e dei lavoratori parasubordinati. In altri termini, la platea interessata alla misura comprende qualsivoglia rapporto instaurato ai sensi dell’art. 2222 c.c. e ss. e dell’art. 2229 c.c. e ss., rimanendo fuori dal campo di applicazione i piccoli imprenditori. In primo luogo, grazie a quello che taluno si è spinto a definire lo “Statuto del lavoro autonomo”, il professionista che stipuli un contratto di incarico con un committente vede attribuirsi ex art. 3, comma 2 il diritto a pretendere su apposita richiesta la forma scritta.

Allo stesso tempo – ancora una volta a tutela del lavoratore – la legge sancisce l’inefficacia di qualsivoglia clausola atta a garantire al committente la possibilità di intervenire successivamente ad una modifica unilaterale delle condizioni del contratto, ovvero di procedere ad un pagamento posticipato (oltre i 60 giorni dal ricevimento della fattura). Si registra, altresì, una sottrazione dalla base imponibile del professionista di quanto percepito a titolo di rimborso spese, oltre alla garanzia di totale deducibilità di qualsivoglia onere sostenuto al fine di assicurazione avverso i mancati pagamenti. Ad ogni modo, le novità di rilievo riguardano la materia dei congedi. In particolare, a norma dell’art. 13, è prescritta l’estensione ai lavoratori autonomi dell’indennità di maternità a prescindere dalla sospensione dell’attività e l’aumento della durata del congedo parentale da tre a sei mesi (con garanzia di un trattamento economico del 30% rispetto a quanto precedentemente percepito) e fruibile entro il compimento del terzo anno di età da parte del minore. In forza dell ’art. 14, poi, ove la prestazione sia continuativa, è escluso che i casi di malattia, infortunio e gravidanza comportino l’estinzione del contratto, ma, al più, una sospensione del rapporto (non superiore a 150 giorni).

Il quadro di interventi risulta, invero, particolarmente ampio. Giova, con ciò, da ultimo citare talune delle previsioni marginali, quanto alla relativa portata, contenute nella legge e, in particolare:

• equiparazione dei liberi professionisti alle piccole imprese ai fini dell’accesso ai piani operativi regionali e nazionali;

• integrale deducibilità dei costi sostenuti dal professionista per la propria formazione professionale (e, quindi, le spese, anche di trasporto e di alloggio, per la partecipazione a corsi, convegni, master), nel limite di euro 10.000 annui;

• estensione ai lavoratori autonomi delle tutele per abuso di dipendenza economica, destinate ai sub-fornitori, di cui all’art. 9, legge n. 192/1998 (“si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi”);

• previsione di un risarcimento del danno a carico del committente ove si rifiuti abusivamente di stipulare il contratto in forma scritta;

• attribuzione dei diritti di utilizzazione economica di eventuali invenzioni del lavoratore esclusivamente in capo allo stesso (salvo che l ’attività inventiva costituisca l’oggetto del contratto).

Come è evidente, le garanzie offerte dall’intervento legislativo in oggetto appaiono ancora del tutto lontane dalla reale configurazione di un compiuto sistema di tutele in favore del lavoratore autonomo, ma rappresentano senz’altro un primo – e ancora debole – passo verso una possibile e tendenziale parificazione con il lavoro subordinato in termini di protezione.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA