I dati giudiziari sulla persona del lavoratore sono particolarmente tutelati nel rapporto di lavoro e possono assumere una notevole rilevanza sia in fase di assunzione, sia durante l’adempimento della prestazione lavorativa, sia in fase di recesso dal contratto. Può il datore trattare e richiedere liberamente informazioni sui procedimenti penali a carico del dipendente? Può procedere al licenziamento sulla base dei dati giudiziari?

Su questo fronte rilevano le norme dello Statuto dei lavoratori (in particolare l’articolo 8 e il relativo divieto di indagini), disposizioni di rango costituzionale (l’articolo 27 della Costituzione e la presunzione di non colpevolezza) ma anche – e forse soprattutto -la disciplina a tutela della privacy. I dati giudiziari del dipendente rientrano a pieno titolo fra i cosiddetti dati sensibili o “categorie di dati particolari” ai quali l’articolo 9 del nuovo Regolamento europeo sulla privacy (2016/679) attribuisce una tutela particolarmente rinforzata.

La Cassazione è intervenuta con la sentenza 19012 del 17 luglio 2018 sul certificato dei carichi pendenti e ha stabilito che la richiesta di questo documento al momento dell’assunzione è illegittima. Il datore di lavoro può solo limitarsi, se questo è esplicitamente previsto dalla contrattazione collettiva, a chiedere l’esibizione del certificato penale, posto che, in base al divieto di indagini pre-assuntive ex articolo 8 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970) e sul principio stabilito dall’articolo 27 della Costituzione, per valutare l’attitudine professionale del lavoratore rileva solo “l’esistenza di condanne penali passate in giudicato“.

Ulteriori limiti sono individuabili con riferimento al periodo di esecuzione della prestazione. Infatti, anche in questa circostanza, l’ordinamento considera il trattamento dei dati giudiziari con particolare sospetto. Il datore è chiamato a una preventiva autorizzazione da parte del Garante per la protezione dei dati personali, che dovrà fare una compiuta valutazione sulla legittimità del trattamento. Bisogna verificare che, in primo luogo, il trattamento sia giustificato da un’idonea base giuridica (legge, normativa UE o regolamenti) e, in particolare, che sia “indispensabile per adempiere o esigere l’adempimento di specifici obblighi o eseguire specifici compiti” (si veda il provvedimento 267 del 15 giugno 2017 del Garante per la protezione dei dati personali). In ogni caso, anche ad avvenuta autorizzazione da parte dell’Autorità, il datore deve trattare questi dati con estrema cautela ed evitare di diffonderli e renderli conoscibili ai terzi, compresi gli altri lavoratori alle sue dipendenze, fatto salvo in caso contrario il diritto del lavoratore al risarcimento dei danni.

Quanto alla possibilità di fondare un licenziamento per giusta causa sulla base dell’esistenza di un procedimento penale a carico del lavoratore è utile fare una valutazione caso per caso. Ove la responsabilità penale sia accertata con sentenza passata in giudicato (cui si equipara, per costante giurisprudenza, la sentenza di patteggiamento) il datore può recedere provando il venir meno del vincolo fiduciario e ciò purché le condotte penalmente rilevanti messe in atto abbiano un riflesso “sia pure soltanto potenziale ma oggettivo” sulla funzionalità del rapporto “compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa” (Cassazione, 26679/2017). In altri termini, la rilevanza dell’illecito comportamento, di per sè del tutto esterna, può estendersi all’interno del rapporto di lavoro solo se può essere messa in dubbio la corretta esecuzione della prestazione. Il licenziamento può avvenire in casi eccezioali anche senza il passaggio in giudicato della pronuncia. Il giudice sarà chiamato a una valutazione particolarmente rigorosa, posto che si tratta di una possibilità limitata a circostanze “di estrema gravità”.

ILLEGITTIMA LA RICHIESTA DELLO STATO DI FAMIGLIA AL COLLOQUIO DI LAVORO

In fase di colloquio di lavoro e nell’ampio margine concesso al “potenziale” datore di richiedere informazioni e documentazione, sussistono, in ogni caso, ingenti limiti a tutela della riservatezza dell’aspirante dipendente. E’ opportuno conoscere quali possano essere i comportamenti da evitare in fase pre-assuntiva, ai fini della legittimità dell’instaurazione del rapporto.

La norma di riferimento è rappresentata dall’articolo 8 della legge 300/1970. Nello specifico, è fatto espresso divieto (sia in fase di assunzione che nel corso del rapporto) “di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore” e questo vale altresì per ogni fatto non rilevante “ai fini della valutazione professionale del lavoratore“. Dalla disposizione emerge in primo luogo l’assoluta illegittimità di domande sull’eventuale appartenenza (o sostegno) a un partito politico o a una confessione religiosa. In particolare, poi, il datore non può tentare di acquisire informazioni in merito all’organizzazione sindacale cui il candidato aderisce – o intende aderire una volta instaurato il rapporto di lavoro – posto che la tutela nei confronti del lavoratore è, peraltro, rinforzata dall’art. 15, comma 1, lettera a) per cui è nullo ogni “patto o atto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale“.

Al netto delle ipotesi richiamate, il divieto deve estendersi a qualsivoglia richiesta legata alla sfera personale del lavoratore e sempre che non possa configurarsi un’attinenza – o una necessità in tal senso – con il rapporto di lavoro. Se, ad esempio, la richiesta sul possesso della patente di guida può inquadrarsi nell’ambito delle informazioni strettamente personali, l’illegittimità della richiesta viene meno ove l’utilizzo di un veicolo sia necessario al futuro svolgimento delle mansioni. Allo stesso tempo, è legittimo sottoporre il soggetto a test attitudinali purché tramite professionisti qualificati ed esclusivamente se, ancora, la relativa effettuazione sia richiesta dalla particolare natura delle mansioni. Lo stesso discorso vale per qualsiasi informazione sui titoli di studio acquisiti dal candidato e sulle pregresse esperienze lavorative.

Si ritiene, invece, sempre affetto da illegittimità il comportamento datoriale volto a indagare l’orientamento sessuale, la nazionalità e, soprattutto, la situazione familiare o i progetti futuri del candidato su questo fronte e, in tal senso, non c’è dubbio che sia assolutamente preclusa la richiesta dello stato di famiglia.

Il datore di lavoro deve, con ciò, prestare particolare attenzione alla predisposizione delle domande e alla configurazione del colloquio, posto che, alle sanzioni in cui lo stesso può incorrere in forza della violazione della privacy, si aggiunge la possibile violazione delle norme antidiscriminatorie per alcune delle ipotesi richiamate, nell’ambito delle quali, l’articolo 27 del D.Lgs. 198/2006 assume una certa rilevanza, stabilendo il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro.

Contributo pubblicato su “IL SOLE 24 ORE”