Con la recente ordinanza n. 2056 del 29 gennaio 2018 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata in merito ai requisiti per il riconoscimento della voce di danno esistenziale, intervenendo, in particolare, a negare che la mera sussistenza di ansie in capo alla vittima di fatto illecito sia idonea all’ottenimento del risarcimento.

Orbene, occorre premettere come la citata categoria di danno risarcibile sia stata introdotta all’interno dell’ordinamento ad opera dell’elaborazione giurisprudenziale. Dapprima la Corte di Cassazione, con sentenze n. 8828 e n. 8827 del 31 maggio2003, e, successivamente, la Corte Costituzionale, con la storica pronuncia n. 233 dell’11 luglio 2003, avevano provveduto ad offrire una specifica forma di tutela avverso la lesione di diritti o interessi (costituzionalmente garantiti) prettamente legati alla persona umana e, tuttavia, differenti dalla normale lesione della salute. Trattasi, in particolare, di pregiudiziche rivestono una portata tale da sconvolgere complessivamente le attività (seppur a-reddituali) poste normalmente in essere dal soggetto danneggiato e possono inquadrarsi nell’ambito del danno morale, “aggiungendosi e sovrapponendosi” allo stesso nella sua tradizionale accezione “di sofferenza acuta” (Cassazione, sentenza n. 8827 del 2003).  Taluno ha, in proposito, offerto diverse definizioni: “danno alle attività realizzatrici della persona umana”, “perturbamento dell’agenda quotidiana”, “rinuncia forzata ad occasioni felici”; in ogni caso, in termini generali può definirsi come un peggioramento (non strettamente legato alla salute) della qualità della vita.

Nel caso di specie, un medico di base ricorreva in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che, accertando l’illegittima formazione e approvazione di una graduatoria finalizzata alla copertura di un posto di medico di base in convenzione con un Comune emiliano, si era limitata a riconoscere allo stesso un importo a titolo di risarcimento in virtù della sussistenza di un danno patrimoniale da lucro cessante e aveva, invece, negato la configurabilità, in tale circostanza, di un danno non patrimoniale nella sua forma di danno esistenziale. A dire del ricorrente, il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto adeguatamente conto dei relativi rilievi. In particolare, in seguito alla predetta – e illegittima – formazione della graduatoria cui il soggetto in questione non risultava adeguatamente posizionato, lo stesso si era ritrovato, a suo dire, in una situazione di stress, stato depressivo e trauma psicologico, registrando altresì diverse difficoltà e disturbi nel sonno.

Investita della questione, la Corte ha in primo luogo escluso la possibilità di valutare il danno in re ipsa, al netto di un’effettiva prova di cui alla regola generale ex art. 2697. All’avviso del Supremo Giudice, infatti, il ricorrente non avrebbe fornito adeguata dimostrazione delle pretese sofferenze patite e un’eventuale pronuncia scevra da tale prova, quand’anche fosse in gioco una lesione dei valori della persona, avrebbe finito per “snaturare” la funzione propria del risarcimento. In particolare, continua la Corte, si sarebbe incorsi nella concessione di una riparazione “non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno bensì quale pena privata” – estranea all’ordinamento giuridico italiano – “per un comportamento lesivo”.Tale orientamento, peraltro, può ritenersi del tutto unanime in giurisprudenza (si leggano, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 26972, nonché n. 26973, n. 26974, n. 26975 del 2008).

Ciò detto, il Collegio ha, in ogni caso, negato la configurabilità, nella controversia in oggetto, di una forma di danno esistenziale, la cui prova, alla luce di quanto sopra, non può “risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico”. Tale categoria di danno non patrimoniale necessita, ai fini del relativo riconoscimento, di un radicale cambiamento di vita, dell’”alterazione/cambiamento della personalità del soggetto”, ovvero nello sconvolgimento dell’esistenza, dovendosi, per converso, negare la tutela risarcitoria allorquando si registri un mero “sconvolgimento dell’agenda”, la perdita delle proprie abitudini quotidiane o semplici “disagi, fastidi, disappunti, ansie, stress o violazioni del diritto alla tranquillità”(si leggano, in questo senso, anche Cassazione, sentenza n. 1361 del 2014, sentenza n. 16992 del 2015, nonché sentenza n. 19641 del 2016). Concludeva la Corte Suprema, con la sentenza in commento, evidenziando che i presunti pregiudizi patiti dal ricorrente, peraltro, non avrebbero permesso – quand’anche dimostrati – di ritenere sussistente un effettivo sconvolgimento della vita dello stesso, trattandosi di circostanze più confacenti alla fattispecie del c.d. danno biologico, “che pure compendia la categoria generale del danno non patrimoniale”, specificatamente riferibile alla generalità delle lesioni psico-fisiche della persona idonee a comprometterne talune attività vitali.