Per mezzo della sentenza n. 27093 del 15 novembre 2017 le Sezioni Unite della Suprema Corte sono intervenute, al fine di risolvere un dubbio interpretativo sorto in seno alla Cassazione stessa, a chiarire, in particolare, la distinzione tra “trasferta” e “trasfertismo”. La questione in esame era stata precedentemente rimessa alle Sezioni Unite con l’ordinanza interlocutoria n. 9317 del 18 aprile 2017 (Corte di Cassazione, sezione Lavoro), al fine di individuare correttamente il regime contributivo applicabile a coloro i quali svolgano la propria prestazione lavorativa al di fuori della sede aziendale.

Occorre preliminarmente rilevare come all’art. 51 comma 6 del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) il legislatore abbia stabilito che le indennità di trasferta, da riconoscersi ai lavoratori che “per contratto” svolgano la propria attività lavorativa “in luoghi sempre variabili e diversi” (c.d. “trasfertismo”), concorrano a formare reddito, con le relative conseguenze contributive, nella misura del 50%. Per converso, le “indennità percepite per le trasferte o le missioni fuori del territorio comunale” disciplinate dal comma 5 del predetto articolo risultano esenti da contribuzione, ove non eccedenti la soglia dimensionale predeterminata dalla legge. Nell’ambiguità della formulazione della norma e nella concreta difficoltà di stabilire con precisione la differenza esistente, in termini di presupposti, per l’applicazione dell’una o dell’altra fattispecie, il legislatore è intervenuto, per mezzo dell’art. 7 quinquies del decreto legge 22 ottobre 2016, n. 193 (c.d. “Decreto Fiscale”), convertito nella Legge n. 225/2016, a fornire un’interpretazione autentica delle norme richiamate. In particolare, in forza della disposizione citata, affinché possa parlarsi di trasfertismo, con conseguente applicazione del comma 6, risulta necessaria la sussistenza di specifiche condizioni: “la mancata indicazione, nel contratto o nella lettera di assunzione, della sede di lavoro”, “lo svolgimento di un’attività lavorativa che richiede la continua mobilità del dipendente”, nonché “la corresponsione al dipendente, in relazione allo svolgimento dell’attività lavorativa in luoghi sempre variabili e diversi, di un’indennità o maggiorazione di retribuzione in misura fissa, attribuite senza distinguere se il dipendente si è effettivamente recato in trasferta e dove la stessa si è svolta”.

Il dubbio interpretativo che le Sezioni Unite erano chiamate a dirimere riguardava, in particolare, la natura della disposizione richiamata con specifico riferimento alla relativa retroattività. In altri termini, posto che in caso di interpretazione autentica da parte del legislatore non v’è incertezza nella configurazione dell’effetto della retroattività, a dire della sezione Lavoro della Suprema Corte, sulla base di quanto ricavabile dalla relativa ordinanza interlocutoria, la specifica previsione inerente la corresponsione delle indennità e delle maggiorazioni “in maniera fissa e continuativa”, in quanto estranea a qualsivoglia significato attribuibile al comma 6, avrebbe presentato un carattere non interpretativo bensì innovativo.

In primo luogo, il Collegio ha avuto modo di ribadire, sulla base dei propri precedenti, come il compenso riservato al lavoratore in trasferta possa presentare caratteristiche differenti. In particolare, a dire della Corte, l’indennità può caratterizzarsi in senso risarcitorio, allorquando “riguardi le spese dal lavoratore sostenute per recarsi temporaneamente in un luogo diverso da quello in cui l’impresa svolge la sua attività”, per converso si ritiene abbia carattere retributivo ove sia riscontrabile la peculiarità “della abituale collaborazione richiesta al dipendente, consistente nell’obbligo di espletare la propria attività in luoghi sempre differenti”. In quest’ultima ipotesi, continua il supremo giudice, l’emolumento finisce per divenire un “elemento non occasionale e predeterminato nella retribuzione” da ricomprendersi, tra gli altri, nella base del computo del TFR e assume rilevanza anche in materia contributiva (in questo senso, si leggano anche Cassazione, sentenza n. 18479 del 2014, sentenza n. 27826 del 2009, nonché sentenza n. 3278 del 2004). Stanti i predetti principi, prima dell’intervento di interpretazione autentica, risultava necessario, al fine della corretta individuazione dell’una o dell’altra natura in ipotesi concrete, un accertamento di natura fattuale nonché una verifica delle effettive pattuizioni contrattuali (cfr. Cassazione, sentenza n. 16142 del 2014, nonché sentenza n. 18269 del 2010).

Nell’affermare l’effettiva natura interpretativa dell’intervento legislativo, le Sezioni Unite hanno ritenuto non contestabile la relativa retroattività, posto che l’obiettivo, a dire della Corte “conforme ai principi costituzionali”, di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo, ove “si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e quindi riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario”, ben può prestarsi a regolare situazioni pregresse (in questo senso, particolare rilievo assume la recente pronuncia della Corte costituzionale n. 150 del 2015). Per di più, si legge nella sentenza in commento, in virtù dell’alleggerimento del carico fiscale e contributivo ricavabile dall’interpretazione autentica, il potere discrezionale del legislatore può ritenersi correttamente esercitato in quanto è risultato idoneo a produrre “effetti favorevoli sia per i datori di lavoro sia per i lavoratori”.