Con sentenza del 10 novembre 2017, n. 26679 la Suprema Corte di Cassazione (sezione Lavoro) è tornata a pronunciarsi in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa comminato ad un lavoratore, alla luce di comportamenti esterni alla sfera contrattuale.

In particolare, nel caso di specie, un dipendente si era visto intimare il recesso datoriale in virtù di una condotta penalmente rilevante. Lo stesso, infatti, era stato sorpreso dalle Autorità a detenere un’ingente quantità di sostanze stupefacenti (hashish), tale da farne presumere, unitamente a contatti abituali tenuti in un locale pubblico nei pressi dell’ufficio, una possibile messa in circolazione. Nel procedimento penale che ne era scaturito, il lavoratore aveva patteggiato una pena di un anno e quattro mesi di reclusione, oltre a 3.000 euro di multa, vedendosi, poi, comminare un licenziamento per giusta causa immediatamente consequenziale alla sentenza di patteggiamento.

In seguito al rigetto del ricorso in primo grado, la Corte d’Appello di Trento aveva dichiarato l’illegittimità del provvedimento espulsivo, ritenendo la condotta non strettamente interferente con le mansioni ricoperte all’interno dell’azienda, in considerazione del fatto che lo stesso fosse chiamato ad operare al computer, per l’indirizzo e lo smaltimento di prodotti postali non prioritari, senza alcun contatto diretto con la clientela e al netto di particolari attribuzioni di responsabilità.

Investita della questione, la Cassazione ha, dunque, colto l’occasione per ribadire le proprie interpretazioni inerenti la rilevanza dei fatti idonei a costituire giusta causa di licenziamento. Occorre preliminarmente osservare come, ai sensi dell’art. 2119 c.c., al datore sia concesso di recedere senza alcun preavviso dal contratto di lavoro allorquando “si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”. Un consolidato orientamento giurisprudenziale, a tal proposito, interpreta la predetta prescrizione alla stregua di una clausola elastica, cui far ricomprendere, oltre ad un grave inadempimento della prestazione riferibile al contratto, anche “condotte extra-lavorative che,tenute al di fuori dell’azienda e dell’orario di lavoro” appaiano, in ogni caso, idonee a “ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti” (si veda, a titolo meramente esemplificativo, Cassazione, sentenza n. 17166 del 2016). Tuttavia, per mezzo della sentenza in commento, la Corte ha chiarito come, affinché tale vincolo possa dirsi leso, le condotte debbano in ogni caso avere un riflesso oggettivo, seppur potenziale, sul rapporto di lavoro; in particolar modo, il giudice è chiamato a verificare se effettivamente i comportamenti riconducibili alla vita privata del prestatore possano compromettere “le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività” esercitata. Allo stesso modo, continua il giudice di legittimità, integrano giusta causa le condotte che violino particolari obblighi di protezione: il prestatore deve, infatti, ritenersi tenuto, oltre al corretto adempimento della prestazione, al rispetto di un obbligo accessorio consistente nel divieto di “porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamentitali da ledere gli interessi morali e materiali del datore”, dovendosi con ciò ritenere necessaria, ai fini della giusta causa, la sussistenza di una gravità tale da “scuotere irrimediabilmente la fiducia” del titolare e da arrecarvi pregiudizi anche di ordine non squisitamente economico (dello stesso tenore, come indicato dalla stessa Corte, le sentenze n. 776 del 2015, n. 16286 del 2015 e n. 15654 del 2012).

Sulla base dei sopra citati passaggi argomentativi, a venire in rilievo, ai fini della valutazione del giudice sulla bontà del recesso, sarà quindi, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, prestando particolare attenzione agli eventuali profili di intenzionalità, dall’altro la proporzionalità tra i medesimi e la sanzione inflitta dal datore. Con specifico riferimento alla controversia in oggetto, la Cassazione, basandosi sugli accertamenti di fatto condotti in sede d’appello, ha ritenuto di dover negare la sussistenza di una lesione del rapporto fiduciario di entità tale da giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare.

A parziale dimostrazione di come una simile ponderazione, che l’Autorità Giudiziaria è chiamata ad effettuare, residui di un discreto grado di incertezza, risulta necessario richiamare altre pronunce, alla luce delle quali, al cospetto di situazioni similari, la stessa Cassazione ha ritenuto sussistere i presupposti per la giusta causa. Invero, la Corte ha riconosciuto la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore sottoposto a procedimento penale “per detenzione illegittima di fucile a canne” nonché di “munizionamento da guerra” (si legga, in questo senso, Cassazione, sentenza n. 15919 del 2000). Analogamente, per mezzo della pronuncia n. 14457 del 2000, il Supremo Collegio ha rilevato il “venir meno della fiducia tra datore e prestatore” nel caso di una condanna per detenzione e spaccio abituale di cocaina. Orbene, occorre concludere come i criteri offerti dalla giurisprudenza si prestino a condurre a conclusioni differenti caso per caso, posta la difficoltà di pervenire a regole generali univoche con riferimento a taluni elementi puramente fattuali.