Per mezzo della sentenza n. 27436 del 20 novembre 2017, le Sezioni Unite della Cassazione sono intervenute a risolvere un contrasto interpretativo sorto in seno alla giurisprudenza di legittimità stessa, con specifico riferimento ai meccanismi estintivi del rapporto, nonché alla tutela applicabile nei confronti dei soci lavoratori di società cooperative.

Preliminarmente, va rilevato come in capo a tale peculiare figura coesistano due diverse tipologie di rapporto contrattuale: quello lavorativo da un lato (trattandosi solitamente di lavoro subordinato o parasubordinato) e quello associativo dall’altro. I contrasti giurisprudenziali registrati si giustificano sulla base della non uniforme interpretazione cui può darsi luogo con riferimento al peso da attribuire all’uno o all’altro rapporto. In altri termini, a seconda che si riconosca una preminenza alla specialità che contraddistingue il rapporto cooperativo ovvero allo schema della subordinazione le conclusioni cui pervenire, in merito alla “giustiziabilità” del licenziamento e della delibera di esclusione dalla società, appaiono profondamente differenti.
In particolare, con un primo orientamento, offerto dalla sentenza n. 3836 del 2016, la Suprema Corte di Cassazione aveva statuito come, “al cospetto di esclusione e licenziamento”, ai fini dell’ammissibilità di un’impugnativa di quest’ultimo risultasse necessario preventivamente opporsi alla delibera societaria di esclusione. Qualora il socio lavoratore avesse provveduto solamente ad impugnare il licenziamento comminatogli, tale azione sarebbe sempre risultata, a dire della Corte, inammissibile per difetto di interesse.
In altre circostanze, invero, il giudice di legittimità era pervenuto a conclusioni meno perentorie. Dalle pronunce n. 6373 e n. 24795 del 2016, infatti, era emerso come in casi particolari di inefficacia della delibera di esclusione (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, alla mancata notificazione al socio lavoratore interessato) potesse riconoscersi, in ogni caso, una tutela avverso il licenziamento “nonostante l’omessa impugnazione della prima”.

Rendendosi necessaria la risoluzione di una simile divergenza, le Sezioni Unite hanno, peraltro, colto l’occasione per effettuare una ricostruzione generale dei principi posti a fondamento del rapporto che lega il socio lavoratore alla cooperativa. Primariamente, la sentenza in commento ha chiarito come la natura del legame cooperativo debba ricondursi alla stregua di “una categoria contigua e interdipendente a quella del lavoro subordinato” e, con ciò, equiparabile ai rapporti ex art. 409 c.p.c.. La cessazione del rapporto di lavoro, continua la Corte, sia “per recesso datoriale, ma anche per dimissione del socio” non implica automaticamente il venir meno di quello associativo, ben potendo il soggetto partecipare in ogni caso alla vita dell’impresa e alle relative scelte, dovendosi, invece, per converso ritenere che la cessazione del rapporto associativo trascini “ineluttabilmente con sé” il legame lavorativo. Tale assunto trova, peraltro, un esplicito riferimento legislativo nell’art. 2533 c.c., in forza del quale, ove l’atto costitutivo non preveda diversamente, “lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti”.
Orbene, il predetto nesso di collegamento tra i due rapporti determina una necessaria interdipendenza delle relative vicende estintive, tuttavia la Corte si è preoccupata di specificare come, ad ogni modo, non possa “oscurarsi” la rilevanza della cessazione del lavoro e la relativa, seppur parziale, autonomia. Gli atti estintivi delle due situazioni si prestano, infatti, a ledere, “sia pure per le medesime ragioni”, beni della vita distinti: lo status socii da un lato e il rapporto di lavoro dall’altro.

Sulla base di tali premesse, le Sezioni Unite sono giunte ad affermare come, in caso di recesso, il socio lavoratore non debba rimanere privo di protezione, anche allorquando ometta di impugnare la delibera sociale di esclusione; sussiste, tuttavia, una significativa differenza in termini di tutela. Più precisamente, nella circostanza in cui lo stesso si opponga all’esclusione e a ciò consegua l’invalidazione della delibera, il rapporto societario si intende ricostituito, così come, al tempo stesso, l’ulteriore rapporto di lavoro; viene, così, garantita una tutela di stampo restitutorio. Laddove, invece, continua la Corte, “s’impugni il solo licenziamento”, non potendosi “prescindere dall’effetto estintivo del rapporto di lavoro prodotto dalla delibera di esclusione”, può in ogni caso determinarsi un danno cui l’autorità giudiziaria è chiamata a porre rimedio per mezzo della tutela risarcitoria ex art. 8 della L. 604/1966 (l’importo dell’indennità risarcitoria, occorre ribadire, è “compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità” dell’ultima retribuzione). Dalla pronuncia in commento emerge, altresì, come, in caso di accoglimento dell’eventuale domanda di risarcimento, gli effetti della precedente delibera di esclusione non vengano travolti e continuino, in ogni caso, a dispiegarsi: “ciò perché la domanda ha per oggetto il diritto ad un ristoro per il fatto che la cessazione del rapporto di lavoro ha cagionato un danno e l’ha provocato illegittimamente”.

In definitiva può concludersi, sulla base del sopra citato passaggio argomentativo, che le conseguenze della impugnazione delibera non possano identificarsi con quelle dell’impugnazione del licenziamento.
La soluzione interpretativa così individuata dalla Suprema Corte si presta ad assumere tratti particolarmente garantisti nei confronti del socio lavoratore e ciò appare quanto mai opportuno, considerata la situazione di “sottoprotezione”, che le stesse Sezioni Unite hanno richiamato nelle proprie riflessioni introduttive e che spesso ha caratterizzato tali particolari figure di prestatori.