In questa sede s’intende analizzare la sempre più attuale emersione, nell’ambito del rapporto di lavoro, del tema relativo alla geolocalizzazione dei veicoli aziendali effettuata dal datore di lavoro nei confronti del dipendente che si ritrovi ad utilizzare detti mezzi per lo svolgimento dell’attività lavorativa. Trattasi, in particolare, di un monitoraggio che, per mezzo di apparecchiature satellitari installate all’interno dei veicoli, permette di individuarne l’esatta posizione.

Risulta necessaria, in tal senso, una ricognizione dei principi, sia di matrice prettamente giuslavoristica sia relativi alla tutela della privacy, che possono limitare il potere di controllo del titolare. A tal proposito, da un’iniziale prospettiva di divieto assoluto di effettuazione di controlli sull’attività del prestatore che, a vario titolo, potessero definirsi “a distanza” a norma dell’art. 4, Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970), dapprima la giurisprudenza e, successivamente, il Legislatore hanno inteso parzialmente discostarsi anche – e soprattutto – in virtù dell’avanzamento del progresso tecnologico registrato negli ultimi decenni. In tale quadro, anche il Garante della privacy, per mezzo dei propri provvedimenti, ha progressivamente acquisito un ruolo centrale nella valutazione della liceità di qualsivoglia trattamento dei dati personali inerenti il lavoratore, prevedendo particolari limiti, nonché predisponendo una serie di adempimenti formali cui subordinare l’effettuazione dei controlli.

I controlli a distanza: la disciplina originaria

L’art. 4, legge n. 300/1970, nella sua formulazione originaria, ha da sempre rappresentato una disposizione cardine a tutela della libertà e della dignità del lavoratore. In particolare, con la perentoria previsione di cui al comma 1 (“è vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”) tale preclusione doveva intendersi alla stregua di un divieto in senso assoluto, riconoscendosi al datore di lavoro esclusivamente il diritto a procedere ai c.d. “controlli preterintenzionali”, ossia la possibilità di installazione delle predette apparecchiature dettata da “esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro” (art. 4, comma 2). Ove i dispositivi installati fossero potenzialmente idonei a permettere un monitoraggio della prestazione lavorativa in senso stretto, la relativa installazione risultava subordinata al raggiungimento di un accordo con le rappresentanze sindacali aziendali (o, in mancanza delle stesse, “con la commissione interna”), dovendosi intendere, in ogni caso, preclusa l’utilizzazione delle eventuali risultanze della sorveglianza a fini disciplinari.

L’interpretazione della giurisprudenza: i c.d. “controlli difensivi”

Al fine di superare, almeno parzialmente, la rigidità dell’assetto normativo in materia, nonché di adeguare l’interpretazione della norma sopra richiamata all’evoluzione del progresso tecnologico (si pensi, a titolo meramente esemplificativo, allo sviluppo di internet e della posta elettronica, nonché degli strumenti di telefonia mobile) e alle sopravvenute esigenze aziendali l’elaborazione giurisprudenziale aveva via via ristretto l’ambito di applicazione del divieto ex art. 4, ammettendo, a vantaggio del datore di lavoro, la legittimità dei c.d. “controlli difensivi”. Per mezzo della sentenza n. 4746/2002, cui erano seguite numerose decisioni in senso conforme, infatti, la Suprema Corte di cassazione aveva ritenuto estranei al predetto divieto “i controlli atti ad accertare condotte illecite del lavoratore” e limitato la totale  preclusione alla relativa effettuazione con riferimento diretto all’attività lavorativa in senso stretto. Invero, nelle more di un intervento legislativo che rivedesse integralmente una disciplina a dire di taluno ormai “anacronistica”, l ’orientamento sopra richiamato, seppur con un seguito rilevante, non era riuscito a caratterizzarsi in senso unanime, lasciando ampio margine a pronunce maggiormente garantiste nei confronti del lavoratore. In tal senso, giova segnalare la sentenza n. 16622/2012, in virtù della quale, con specifico riferimento ad un sistema informatico idoneo a rilevare il numero di telefonate effettuate dai dipendenti, il giudice di legittimità si era espresso nei seguenti termini: “la possibilità di effettuare tali controlli incontra un limite nel diritto alla riservatezza del dipendente, tanto che anche l’esigenza di evitare condotte illecite dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore”, conseguendone, tra gli altri, l’effetto dell’inutilizzabilità dei relativi dati riscontrati al fine di provare l’inadempimento contrattuale del dipendente.

Controlli difensivi e geolocalizzazione

In tale quadro, caratterizzato da un apprezzabile grado di disomogeneità interpretativa, il Supremo Collegio aveva avuto modo di pronunciarsi, tra gli altri, sul tema dei controlli del datore di lavoro nello specifico caso della geolocalizzazione dei veicoli aziendali. Per mezzo della sentenza n. 20440/2015, infatti, era stata riconosciuta la legittimità del licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore all’esito di un’attività di monitoraggio comprendente l’individuazione dell’esatta posizione del veicolo in dotazione allo stesso durante l’adempimento della prestazione lavorativa. In particolare, nel caso di specie, il dipendente (addetto al coordinamento di un gruppo di operatori ecologici) si era più volte allontanato dalla sede aziendale, recandosi e trattenendosi in maniera prolungata in bar e tavole calde con i colleghi. Il titolare aveva avuto modo di riscontrare tali inadempienze servendosi, oltre che dell’ausilio di un investigatore privato, di un sistema di localizzazione satellitare Gps (Global positioning system) posizionato all’interno dell’autovettura di proprietà dell’azienda e allo stesso assegnata per lo svolgimento delle proprie mansioni. Con la sentenza in oggetto, la Corte di cassazione, pronunciandosi sulla bontà del provvedimento espulsivo, ne aveva riconosciuto la legittimità, richiamando, in particolar modo, la tesi dei c.d. “controlli difensivi”. A dire del Collegio, il divieto ex art. 4, legge n. 300/1970 avrebbe riguardato “il controllo sui modi di adempimento dell’obbligazione lavorativa” ma non anche gli eventuali “comportamenti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale”, ricomprendendosi, in tal modo, nell’ambito della legittimità, oltre al monitoraggio per la verifica relativa alla perpetrazione di illeciti, qualsivoglia controllo diretto a “rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa”. A maggior ragione, l’utilizzo di simili strumenti sarebbe risultato aderente alla disposizione predetta, continua la Corte, ogni qual volta le mansioni del prestatore dovessero eseguirsi al di fuori dei locali dell’impresa, in considerazione della maggior facilità con la quale lo stesso potesse avere modo di rendersi protagonista di una “lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell’immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore”.

Jobs Act e controlli a distanza

Con l’approvazione del D.Lgs. n. 151/2015 il legislatore è intervenuto a ridisciplinare, tra le altre, la materia dei controlli da parte del datore. All’art. 23, predetto Decreto è, infatti, riscontrabile una modifica dell’art. 4, Statuto dei lavoratori. In particolare, il Jobs Act ha provveduto ad abrogare l’espresso divieto di controlli a distanza dell’attività lavorativa. Giova, tuttavia, rilevare come la Suprema Corte di cassazione abbia affermato come tale preclusione sia venuta meno solo “apparentemente”, in quanto con la nuova formulazione si sarebbe inteso adeguare “l’impianto normativo alle sopravvenute innovazioni tecnologiche”, tenendo fermo “il divieto di controllare la prestazione lavorativa del dipendente”. A norma del nuovo art. 4, comma 1, gli strumenti “dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”.

Dalla lettura della disposizione emerge un accorpamento tra l’antecedente divieto di controllo e il c.d. controllo preterintenzionale; l’utilizzo degli strumenti predetti viene subordinato, da un lato alle già richiamate esigenze organizzative e di sicurezza e viene, per di più, aggiunta la categoria relativa alla tutela del patrimonio aziendale, fatta salva la necessaria sussistenza di un accordo sindacale ovvero di un’autorizzazione amministrativa. Si registra, inoltre, in maniera inedita, un espresso richiamo al Decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. Codice della privacy), alla luce del quale sono ricavabili specifici obblighi e adempimenti, di natura anche informativa, sulle modalità di utilizzo dei dati raccolti per mezzo di detti strumenti. La previsione di tale esplicito riferimento al Codice della Privacy parrebbe, in qualche modo, dimostrare la reale finalità del legislatore di affrontare l’intera questione in maniera organica, al netto di discrepanze. Occorre sottolineare come, una volta rispettati i vincoli ex art. 4 nonché gli obblighi di riservatezza predetti, i dati raccolti possano essere utilizzati anche a fini disciplinari, ai sensi del comma 3 (“le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”). Giova, a tal proposito, sinteticamente richiamare taluni principi dettati dal Garante della privacy in tema di legittimità del trattamento dei dati.

Dall’intervento del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali del 13 gennaio 2016 emerge, in particolare, la necessaria sussistenza delle seguenti condizioni:

• obbligo, per il datore, di informare i lavoratori delle modalità e delle condizioni di utilizzo degli strumenti aziendali messi a disposizione;

• informativa relativa ai controlli che si riserva di effettuare;

• informativa relativa alle eventuali conseguenze delle violazioni sul piano disciplinare;

• necessità del rispetto dei principi di necessità, correttezza, pertinenza e non eccedenza.

L’eccezione: gli strumenti da lavoro

Tra le novità previste dal c.d. Jobs Act merita di essere segnalata l’innovativa previsione di cui al comma 2, che esclude dall’ambito di applicazione  dei limiti sopra citati gli “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” nonché gli “strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”. Una delle conseguenze rilevanti registrate all’indomani dell’entrata in vigore della norma ha riguardato la notevole incertezza, in capo agli interpreti, relativa all’esatta portata da attribuire al concetto di “strumenti di lavoro”, espressione totalmente inedita in ambito giuslavoristico. Un simile dubbio interpretativo ha reso necessaria una valutazione caso per caso delle fattispecie da parte degli operatori, cosicché sono stati ritenuti, a titolo meramente esemplificativo, in linea con la definizione legislativa “i pc, i tablet, i cellulari” (Min. lav., nota 10 maggio 2016); diversamente, possono definirsi estranei al comma 2 sistemi informatici e software non strettamente necessari all’adempimento della prestazione lavorativa (si legga, in questo senso, il Provvedimento del Garante della privacy n. 303 del 13 luglio 2016).

Sistemi di geolocalizzazione: sono strumenti di lavoro?

La predetta incertezza definitoria comporta ricadute rilevanti con riferimento al tema in oggetto, posto che l’installazione di apparecchiature di localizzazione satellitare Gps, qualora effettuata all’interno dei veicoli di proprietà aziendali, rappresenta indubbiamente un’ipotesi limite. Invero, ai fini della corretta qualificazione di tali mezzi, occorre verificare, nel caso concreto, se il Gps risulti o meno caratterizzato da un legame funzionale con la prestazione lavorativa. Una prima interpretazione sul tema è riscontrabile nel Parere espresso dalla Direzione interregionale del lavoro di Milano il 10 maggio 2016 (n. 5689). Esprimendosi con riferimento all’installazione di un ’apparecchiatura satellitare all’interno di un veicolo ad utilizzo promiscuo assegnato ad un dipendente con mansioni da venditore, la DIL si è spinta sino ad affermare come “l’auto fornita in uso ai dipendenti per eseguire la propria prestazione lavorativa” sia indubbiamente uno strumento di lavoro e, ove sia dotata di rilevatore Gps per “esigenze assicurative e/o per esigenze produttive e/o di sicurezza” e lo stesso tracci gli spostamenti del veicolo, i due strumenti (autovettura e apparecchiatura satellitare) debbano considerarsi “inscindibilmente e unitariamente” serventi  l’attività del lavoratore. A tale premessa conseguirebbe, a dire della Dil, la non necessaria sussistenza del preventivo accordo sindacale ovvero della preventiva autorizzazione ministeriale, fatto salvo il rispetto degli “obblighi di legge afferenti la normativa in materia di privacy del lavoratore”.

Ispettorato Nazionale del Lavoro, circolare n. 2/2016

In senso diametralmente opposto, rispetto a quanto affermato dalla Direzione interregionale per mezzo del parere richiamato, si inserisce la recente circolare n. 2/2016 emanata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro e finalizzata a fornire agli operatori una corretta lettura dell’art. 4, Statuto dei lavoratori, come novellato dall’art. 23, D.Lgs. n. 151/2015, con specifico riguardo agli impianti di geolocalizzazione. Premettendo come, in termini generali, possano definirsi “strumenti di lavoro” quegli “apparecchi, dispositivi, apparati e congegni” che costituiscano “il mezzo indispensabile al lavoratore per adempiere la prestazione lavorativa dedotta in contratto” e che, per il soddisfacimento di tale esigenza “siano stati posti in uso e messi a sua disposizione”, l ’INL ha chiarito come i sistemi di localizzazione satellitare debbano inquadrarsi alla stregua di “elementi aggiunti”, rispetto agli strumenti di lavoro veri e propri. In particolare, con l’utilizzo degli stessi il datore di lavoro intenderebbe, sulla base di quanto affermato nella Circolare, rispondere ad esigenze ulteriori “di carattere assicurativo, organizzativo, produttivo” e di “sicurezza sul lavoro”, rispetto all’esecuzione del contratto. In altri termini, nell’ambito della prestazione lavorativa, questi non parrebbero finalizzati “in via primaria ed essenziale” all’adempimento dell’obbligazione, dovendosi, con ciò, affermare, continua l’INL, che l’installazione di simili apparecchiature sia subordinata all’accordo con la rappresentanza sindacale, ovvero “previa autorizzazione da parte dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro”.

Lo stesso Ispettorato ha, invero, evidenziato come in talune – e particolari – circostanze la natura del Gps possa valutarsi in senso diverso, “trasformandosi” gli stessi in strumenti di lavoro ogniqualvolta:

• i sistemi siano installati al fine di consentire “la concreta ed effettiva attuazione della prestazione lavorativa”, intendendosi con ciò come la stessa attività “non possa essere resa senza ricorrere all’uso di tali strumenti”;

• i sistemi siano installati poiché richiesti espressamente da disposizioni legislative ovvero regolamentari (a tal proposito, la circolare ha richiamato, a titolo esemplificativo, l’“uso dei sistemi Gps per il trasporto di portavalori superiore a euro 1.500.000,00”).

Provvedimento del Garante privacy n. 138/2017

All’interno del quadro sin qui tratteggiato si inserisce la recente decisione del Garante della privacy che, per mezzo del Provvedimento n. 138 del 16 marzo 2017, esprimendosi riguardo ad una richiesta di verifica preliminare ai sensi dell’art. 17, D.Lgs. n. 196/2003, ha colto l’occasione per offrire agli interpreti una generale ricognizione delle singole procedure da espletare ai fini del corretto utilizzo dei sistemi di localizzazione satellitare.

Nel caso di specie, una società intendeva procedere all’installazione di un apparecchio all’interno dei veicoli aziendali che, per mezzo di una connessione Gsm/Gprs era idoneo ad elaborare dati e raccoglierli all’interno di un sistema informatico centrale, cui gli incaricati appositamente designati avrebbero potuto accedere per verificare, in particolar modo, i percorsi effettuati dal mezzo. Tale strumento permetteva, altresì, di registrare le tempistiche di carico e scarico merci, la velocità media del veicolo, nonché i relativi tempi di percorrenza. A dire della società richiedente, l’impianto del sistema sarebbe stato finalizzato, soprattutto, a risolvere tempestivamente eventuali guasti, a garantire la sicurezza dei dipendenti, a gestire determinati rapporti contrattuali, ad impartire direttive comunicando con il personale conducente in caso di urgenze, a provvedere a taluni adempimenti formali correlati al rapporto di lavoro (si pensi, a titolo esemplificativo, al computo delle ore di lavoro prestate), nonché per tutelare il patrimonio aziendale, ricostruendo agevolmente le dinamiche dei sinistri stradali e rilevando l’esatta ubicazione dei mezzi in caso di furto.

Nell’ammettere la richiesta del datore di lavoro, il Garante ha subordinato il trattamento dei dati in questione al ricorrere di precise condizioni e modalità di raccolta. In primo luogo, risulta necessario, in caso di dispositivi satellitari, adeguare i tempi di conservazione dei dati rilevabili alle finalità effettivamente perseguite, individuando, a dire dell’Autorità, esclusivamente le risultanze in concreto pertinenti, in ossequio al già richiamato principio generale di necessità, pertinenza e non eccedenza riscontrabile nel Codice. Sussiste, a tal proposito, la necessità che, in caso di sinistri stradali, il datore conservi i dati per un tempo ragionevolmente breve, strettamente necessario “per la ricezione e la valutazione della denuncia di sinistro da parte del personale addetto”. Ove, invece, il trattamento sia atto a tutelare il datore in merito ad eventuali violazioni amministrative, dal provvedimento emerge l’individuazione di un termine di 90 giorni, accompagnato dalla predisposizione di un meccanismo di cancellazione automatica delle informazione al relativo spirare.

Il Garante ha altresì fissato in 5 anni la durata di conservazione con riferimento alla commisurazione del rapporto di lavoro con il dipendente, negandone, altresì, la legittimità al di fuori delle specifiche necessità richiamate ed escludendo, in particolar modo, la possibilità per il datore di monitorare e tracciare i percorsi effettuati dal mezzo. Ciò premesso, gli adempimenti che il datore, sulla base del provvedimento, è chiamato a porre in essere possono così riassumersi:

• rilevazione della posizione geografica del veicolo limitata alle predette finalità;

• configurazione di un sistema di accesso ai dati che permetta il relativo trattamento al solo personale incaricato;

• predisposizione di credenziali di autenticazione “differenziate per ogni incaricato” ed assegnate in via limitata;

• adozione di strumenti di cancellazione automatica in seguito al decorso dei termini stabiliti;

• predisposizione di misure atte a garantire l’anonimato in caso di utilizzo dei dati a fini statistici.

A tali accorgimenti si accompagna la necessaria sussistenza degli adempimenti espressamente previsti dal Codice della Privacy e che, in questa sede, occorre sinteticamente ribadire:

• notifica al Garante ai sensi dell’art. 37, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 196/2003 (la disposizione citata prescrive, infatti, tale adempimento ogniqualvolta il trattamento riguardi “dati genetici, biometrici o dati che indicano la posizione geografica di persone od oggetti”) mediante una comunicazione elettronica;

• comunicazione ai dipendenti coinvolti dal trattamento di un’idonea informativa, in via orale ovvero scritta, circa le finalità del trattamento, la natura “obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati”, le conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere, l’elenco dei soggetti che possano entrare in contatto con i dati (art. 13);

• predisposizione delle misure di sicurezza di cui all’art. 31 del Codice (tra cui, a titolo meramente esemplificativo, accorgimenti idonei a prevenire il rischio “di accesso non autorizzato”);

• garanzia, in favore del dipendente, dell’esercizio dei diritti ex art. 7 del Codice (tra i quali, il diritto di opporsi, per motivi legittimi, “al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta”.

Come precedentemente rilevato, la decisione del Garante in oggetto, seppur con riguardo ad una specifica richiesta, appare idonea a fungere da vero e proprio schema di riferimento per la liceità dell’impianto di sistemi di Gps sul fronte della tutela della riservatezza e, se letta in combinato disposto con quanto recentemente affermato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro in merito ai profili giuslavoristici ex art. 4 dello Statuto, permette agli operatori di disporre (in un contesto di disomogeneità e incertezza interpretativa) di un quadro organico dei limiti che all’utilizzo di tali strumenti possano e debbano porsi.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO & PRATICA DEL LAVORO DI IPSOA