La Corte Suprema, con la recente sent. n. 15966 del 27 giugno 2017, è tornata ad affrontare una questione più volte sottoposta all’attenzione dei Giudici del Lavoro in sede di impugnazione dei licenziamenti disciplinari:  la sussistenza o meno del diritto del lavoratore, in sede di procedimento disciplinare, di accedere e di visionare la documentazione aziendale afferente l’addebito mossogli,  al fine di predisporre le sue difese, e, conseguentemente, l’illegittimità o meno del licenziamento intimato dal datore di lavoro che abbia negato al lavoratore tale accesso, per violazione dell’art. 7 comma 2 della L. 300/70.

La conclusione a cui è pervenuta la Corte con la sentenza in oggetto è che: “La L. n. 300 del 1970, art. 7, non prevede, nell’ambito del procedimento disciplinare, l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati… Il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa; ne consegue che, in tale ultima ipotesi, il lavoratore che lamenti la violazione di tale obbligo ha l’onere di specificare i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria al predetto fine“.

Si tratta di una pronuncia in linea con la giurisprudenza maggioritaria (tra le tante: Cass. n. 6337/2013; Cass. 23304/2010), la quale si è trovata a dover mediare tra due opposti interessi: da un lato le esigenze del lavoratore, per il quale l’invocato diritto di accedere alla documentazione interna all’azienda concernente gli addebiti contestatigli, si evincerebbe dal principio costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa ex art. 24 Cost., nonché dai canoni generali di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto ex artt. 1175 e 1375 c.c.; dall’altro, il diritto del datore di lavoro di esercitare un potere disciplinare, di natura sanzionatoria, a fronte di comportamenti del lavoratore che costituiscano inosservanza degli obblighi contrattuali. Potere disciplinare il cui fine è quello di tutelare l’organizzazione aziendale ed il rispetto degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, con la esigenza, altresì, di garantire la riservatezza aziendale.

Al riguardo si evidenzia che il potere disciplinare del datore di lavoro è disciplinato dall’art. 2106 c.c. che prevede la facoltà di questi di adottare provvedimenti sanzionatori nei confronti del lavoratore, in caso di inosservanza degli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. e, più in particolare, nel caso in cui il lavoratore tenga comportamenti non consentiti, la cui concreta determinazione si trova generalmente nei contratti collettivi o nei regolamenti aziendali predisposti dal datore di lavoro stesso.

Si tratta di un potere che si fonda, come noto, sul principio di subordinazione del prestatore di lavoro; un potere che è posto a presidio dell’adempimento corretto, da parte del lavoratore, della sua obbligazione contrattuale, e che, in ogni caso, è assoggettato all’osservanza dei limiti e delle procedure di cui all’art. 7 della L. 300/70, volte a tutelare la parte debole del rapporto contrattuale, il lavoratore, ed evitare abusi da parte del titolare dell’azione disciplinare.

Per quello che in questa sede rileva, in diversi casi giunti all’esame dei Giudici della Corte Suprema, la questione che si è posta è stata quella di giudicare se la previa contestazione disciplinare al lavoratore di cui all’art. 7 comma 2 della L. 300/70, includa anche il diritto del lavoratore raggiunto dalla contestazione di poter visionare i documenti aziendali su cui si fonda l’addebito e, quindi, la Corte si è pronunciata in merito alla legittimità o meno del licenziamento disciplinare comminato dal datore di lavoro che abbia negato al lavoratore la consultazione di tali documenti.

Esemplificativo in questo senso è il caso su cui si è pronunciata la Corte Suprema il 27 giugno scorso, che ha riguardato il ricorso presentato da un lavoratore che svolgeva mansioni di piazzista, al quale era stato addebitato di essersi appropriato di merce aziendale mediante falsa indicazione dei resi. Nello specifico, la società datrice di lavoro aveva accertato che i resi consegnati al magazziniere e riportati in fattura non corrispondevano per difetto ai dati relativi ai resi contenuti nel palmare in dotazione al lavoratore e, pertanto, risultando compromesso irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti, aveva comminato al dipendente un licenziamento per giusta causa ex art. 2119 c. c..

Il lavoratore aveva quindi impugnato l’irrogato licenziamento, adducendo, tra gli altri motivi, violazione dell’art.7 comma 2 della L. 300/70, in quanto, a fronte delle sue reiterate richieste, si era visto negare dal datore di lavoro la possibilità di visionare la documentazione interna all’azienda afferente l’addebito mossogli, con conseguente lesione del suo diritto di difesa.

Sul punto si evidenzia che alla luce dell’interpretazione letterale dell’art. 7 cit., interpretazione che nel nostro ordinamento è regolata dall’art.12 comma 1 delle Preleggi, nell’ambito del procedimento disciplinare non è previsto l’obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore, nei cui confronti sia stata elevata una contestazione di addebiti di natura disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati.

Inoltre, anche richiamando i principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto, si  evidenzia che tali principi possono solo svolgere una funzione integrativa di diritti esistenti, senza poterne creare di nuovi, quali il preteso diritto del lavoratore di consultare, in sede di procedimento disciplinare, la documentazione aziendale relativa ai fatti a lui contestati.

Si precisa, ancora, che la procedura di contestazione di cui al citato art. 7 va pur sempre ricondotta nell’ambito di una controversia che vede contrapposte parti portatrici di interessi nettamente divergenti: da un lato il diritto del lavoratore, parte debole del rapporto contrattuale, a predisporre compiutamente la sua difesa; dall’altro il diritto del datore di lavoro di esercitare un potere disciplinare di natura sanzionatoria a fronte di comportamenti del lavoratore che costituiscano inosservanza degli obblighi contrattuali. Potere disciplinare il cui fine è quello di tutelare l’organizzazione aziendale ed il rispetto degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, con la conseguente esigenza di garantire la riservatezza aziendale.

Infatti, nell’ambito della procedura di contestazione, il datore di lavoro non opera come un Giudice terzo e imparziale, incaricato a presiedere all’obiettivo accertamento, in fase pregiudiziale, della sussistenza dell’addebito disciplinare; ma ha esclusivamente l’obbligo, in tale fase, di rendere noto preventivamente e specificamente al lavoratore l’addebito posto a fondamento della sanzione che intende comminare.

Va infine evidenziato che in base al disposto dell’art. 210 c.p.c., in ogni caso resta ferma la possibilità per il lavoratore di ottenere, nel corso del giudizio ordinario di impugnazione del licenziamento irrogato all’esito del procedimento ex art. 7 L. 300/70, l’ordine del giudice di esibizione della documentazione stessa, qualora sia ritenuta necessaria la sua acquisizione al processo.

La Corte Suprema con la sentenza in oggetto, facendo applicazione dei principi sopra citati, ha  rigettato il ricorso proposto dal lavoratore finalizzato ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento per violazione dell’art. 7, comma 2, L. 300/70.

Non solo: la stessa Corte Suprema è andata oltre, precisando le condizioni in presenza delle quali, l’esigenza di riservatezza del datore di lavoro, nonché di tutela dell’organizzazione aziendale e di garanzia del rispetto degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, dovranno cedere il passo al diritto del lavoratore di accesso ai documenti aziendali su cui si fonda l’addebito nei suoi confronti e che sono quelle di seguito specificate:

  • il datore di lavoro “è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali solo in quanto e nei limiti in cui l’esame degli stessi sia necessario al fine di una contestazione dell’addebito idonea a permettere alla controparte un’adeguata difesa”. Ciò che potrebbe verificarsi nell’ipotesi in cui la contestazione disciplinare sia particolarmente complessa, contenuta in diverse pagine o riferita a diversi atti e comportamenti del lavoratore ritenuti irregolari, o, ancora, qualora non descriva in modo dettagliato le condotte ascritte al lavoratore, non fornendogli le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati, e, pertanto, per il dipendente sia assolutamente necessario accedere a quei documenti per predisporre compiutamente le sue difese (si veda n. 6337/2013).
  • in secondo luogo, il datore di lavoro ha l’obbligo di cui sopra solo qualora il lavoratore abbia specificato ed identificato “i documenti la cui messa a disposizione sarebbe stata necessaria” ai fini di una sua compiuta difesa dagli addebiti oggetto della contestazione. Ne consegue che, affinché il datore sia tenuto ad offrire tale documentazione, non è sufficiente che il dipendente sostenga che la mancata esibizione di documenti gli abbia impedito di approntare una valida e consapevole difesa contro il licenziamento, dovendo, come detto, lo stesso lavoratore anche specificare quali siano i documenti la cui messa a disposizione, negata dal datore di lavoro, sarebbe stata necessaria per poter predisporre un’adeguata difesa, e motivare tale necessità.

Ebbene, nel caso su cui si è pronunciata la Corte lo scorso 27 giugno, non ricorreva alcuna delle condizioni sopra indicate e ritenute idonee a giustificare l’invocato diritto di accesso del lavoratore.

Infatti, la contestazione disciplinare descriveva in modo dettagliato le condotte ascritte, facendo anche riferimento ad un allegato contenente il prospetto analitico degli ammanchi riscontrati.

D’altra parte, il ricorrente nel caso di specie non aveva neppure prospettato l’esistenza di discordanza tra i prospetti allegati alla contestazione e le risultanze documentali, né altre ragioni in forza delle quali la mancata consultazione dei documenti aziendali avesse potuto in qualche modo compromettere l’esplicazione da parte sua dell’attività difensiva.

Ciò ha indotto la Corte a ritenere che nessuna lesione del diritto di difesa del lavoratore poteva ritenersi in concreto realizzata a seguito della mancata ottemperanza alla richiesta di produzione documentale, e che, pertanto, sotto questo profilo, il licenziamento intimato doveva ritenersi legittimo.

La giurisprudenza, con la sentenza in commento, è così pervenuta ad una soluzione che rappresenta il giusto compromesso tra il diritto, inviolabile, alla difesa del lavoratore, e le esigenze di riservatezza aziendale: l’accesso ai documenti aziendali è un diritto solo nella misura in cui è necessario al dipendente per impugnare il licenziamento, ciò in quanto la contestazione disciplinare non sia stata dettagliata e specifica, e a condizione che il lavoratore chiarisca quali documenti sarebbero stati indispensabili per la sua difesa nonché le specifiche ragioni in forza delle quali la mancata consultazione dei documenti abbia compromesso il suo diritto di difesa.