Con la sentenza n. 652 del 27 luglio 2017 il Tribunale di Prato si è pronunciato con riferimento all’ipotesi del riconoscimento di un figlio infraquattordicenne nato al di fuori del rapporto coniugale, allorquando l’altro genitore si rifiuti di prestare il consenso. Occorre preliminarmente rilevare come, ai sensi dell’art. 250 comma 4 del Codice civile, in caso di mancato raggiungimento del quattordicesimo anno di età, la procedura di riconoscimento non possa avvenire “senza il consenso dell’altro genitore”, fatto salvo il diritto di ricorrere al giudice competente per l’assunzione dei provvedimenti opportuni.

Nel caso di specie, il padre aveva richiesto al Tribunale di provvedere in sostituzione del mancato consenso della madre, nonché di pronunciarsi relativamente all’affidamento e al mantenimento della minore. Ai sensi dell’art. 262 c.c., poi, lo stesso pretendeva di attribuire il proprio cognome alla figlia. Opponendosi al riconoscimento, la donna lamentava di essere stata vittima di un comportamento violento durante la relazione intercorsa tra i due, cui era conseguito l’avvio di un procedimento penale, al punto da ritenere concreto il rischio di pregiudizi per la serena crescita della bambina.
Riprendendo l’orientamento di una costante giurisprudenza in materia di rifiuto del consenso al riconoscimento, per il quale a venire in rilievo sono esclusivamente motivi talmente gravi da “compromettere lo sviluppo psicofisico del minore” (Cassazione civile, sentenza n. 4/2008), il giudice di merito ha negato la sussistenza di una simile condizione, anche, e soprattutto, in ragione della positiva interazione dell’uomo con la minore e dell’interesse per la stessa dimostrato. A tale premessa, ritenuto illegittimo il rifiuto del consenso al riconoscimento, è conseguito l’accoglimento delle domande del padre, con l’aggiunta del cognome paterno a quello della madre (in virtù, data la tenera età, “dell’inesistente attitudine identificatrice del cognome materno”). Disponendo in merito all’affidamento, poi, il giudice non ha rilevato cause ostative all’applicazione della regola generale dell’affido condiviso, ritenuta idonea a salvaguardare il “diritto del minore alla bigenitorialità consacrato negli artt. 315 bis e 337 ter c.c.”, prevedendo, inoltre, in capo al ricorrente la corresponsione di un assegno mensile finalizzato al mantenimento.

La sentenza assume un certo rilievo in considerazione del dubbio relativo all’esatta interpretazione da attribuire all’art. 250 comma 4 c.c.. Il tenore letterale della norma in questione (ai sensi della quale “con la sentenza che tiene luogo del consenso mancante, il giudice assume i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento e al mantenimento del minore”) permetterebbe, secondo il giudice toscano, di adottare i provvedimenti in oggetto pur in assenza dell’effettivo riconoscimento, al quale la parte sarà chiamata successivamente a dar corso.
L’assunto si pone in netto contrasto con quanto precedentemente affermato dal Tribunale di Milano che, con sentenza del 16 aprile 2014, aveva escluso di poter operare un’equiparazione tra l’autorizzazione a riconoscere il minore e il riconoscimento vero e proprio. Il provvedimento del giudice avrebbe dovuto limitarsi a contenere statuizioni parziali, precludendosi in tal modo una pronuncia sulle ulteriori domande antecedentemente alla conclusione dell’iter da parte del genitore. In caso contrario, lo stesso sarebbe rimasto in uno stato di “efficacia quiescente rimessa alla volontà discrezionale della parte”, situazione considerata “non compatibile con l’efficacia propria dei provvedimenti giurisdizionali” nonché pregiudizievole per l’interesse del minore.

Superando tale impostazione, il Collegio pratese ha ritenuto sussistere lo status di figlio, idoneo a rendere il padre titolare della responsabilità genitoriale, già a partire dal momento della procreazione, cosicché l’atto formale del riconoscimento finirebbe per condizionarne esclusivamente la valenza rispetto ai terzi. Se così non fosse si svilirebbe la portata della riforma della filiazione, con la quale il legislatore ha inteso sopprimere qualsiasi distinzione tra figli naturali e figli legittimi all’interno dell’ordinamento, abrogando, in particolare, l’art. 261 del Codice civile (a norma del quale “il riconoscimento” comportava “da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti” al pari dei figli legittimi). Il diritto del minore ex art. 148 ad “essere educato e mantenuto” non potrebbe, in definitiva, essere subordinato al preventivo riconoscimento.

Nelle more della risoluzione del contrasto interpretativo da parte della Suprema Corte di Cassazione, risulta opportuno rilevare come l’impianto argomentativo del Tribunale di Prato appaia maggiormente in linea con il dato letterale della disciplina, oltre a prestarsi ad offrire maggiori garanzie economiche ed affettive nei confronti del minore. Per quanto il rischio, paventato dal giudice milanese, di un disinteresse del genitore successivo all’autorizzazione che arrechi pregiudizio al figlio “con l’introduzione nella sua vita di una figura che poi non lo riconosce”, sia dotato di un buon grado di concretezza, non pare pienamente sufficiente a giustificare una simile posticipazione per il minore della titolarità dei propri diritti.