Il diritto di critica del lavoratore
Il diritto di critica, in forza del quale i dipendenti possono assumere posizioni critiche nei confronti del datore di lavoro, trova fondamento innanzitutto nell’art. 21 della Costituzione “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
Nell’ambito dei luoghi di lavoro, il diritto di critica è sancito dall’articolo 1 della Legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. “Statuto dei lavoratori”) che ha riconosciuto ai lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, “il diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Quando il diritto di critica è esercitato nell’ambito del rapporto di lavoro, al limite costituzionale che impone la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, se ne aggiungono altri, connessi alla libertà di iniziativa economica del datore di lavoro e alla salvaguardia del rapporto fiduciario sotteso alla relazione lavorativa, che può risultare irrimediabilmente compromesso da un comportamento idoneo ad incrinare in modo insanabile il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro fino ad integrare un illecito disciplinare (Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., 27/04/2018, n. 10280).
Il diritto di critica del dipendente postula quindi un necessario bilanciamento tra la libertà di manifestare il proprio pensiero e la tutela dell’onore e della reputazione dell’azienda (Cassazione civile, Sez. lavoro, Sent. 18/01/2019 n. 1379) e deve rispettare i canoni contrattuali generali di correttezza e buona fede, di cui agli artt.1175 e 1375 c.c. e quelli specifici di fedeltà aziendale, di cui all’art. 2105 c.c.
Si è così stabilito che il comportamento del lavoratore che divulghi fatti e accuse che, ancorché vere, siano idonee a ledere l’onore e la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, e può configurare un fatto illecito e consentire il recesso del datore di lavoro, ove l’illecito stesso risulti incompatibile con l’elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che non trovi, per modalità e ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione.
Il limite della continenza formale postula che l’esposizione della critica debba avvenire con modalità espressive che possano dirsi rispettose di canoni, generalmente condivisi, di correttezza, misura e civile rispetto della dignità altrui. Pur essendo ammissibili espressioni astrattamente offensive e soggettivamente sgradite al datore di lavoro, il dipendente deve quindi evitare di utilizzare frasi denigratorie, scurrili e diffamatorie. Il dissenso può essere manifestato anche mediante la satira purché non travalichi il limite della tutela della persona umana.
In base al limite della continenza sostanziale, ove la critica si traduca nell’attribuzione di condotte che si assumono come storicamente verificatesi, i fatti narrati devono corrispondere a verità, sia pure non assoluta, ma corrispondente ad un prudente apprezzamento soggettivo di chi dichiara gli stessi come veri. Viene quindi in rilievo l’atteggiamento anche colposo del lavoratore.
Ha cura di sottolineare la Corte come l’osservanza di tale canone attenui la sua cogenza nel caso in cui la critica si sostanzi propriamente in un’espressione di opinione, che per la sua natura meramente soggettiva ha carattere congetturale e non si presta ad una valutazione in termini di alternativa vero/falso: mentre l’esistenza di un fatto può essere oggetto di prova, l’espressione di un’opinione non può esserlo perché non si può dimostrare la verità di un giudizio che implichi opzioni di valore.
Quanto al terzo limite, la pertinenza è intesa come la rispondenza della critica ad un interesse meritevole in confronto con il bene suscettibile di lesione. La manifestazione del pensiero deve quindi essere funzionale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante del lavoratore che, nell’ambito di un rapporto di impiego, è quello che si relaziona direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le di rivendicazioni di carattere lato sensu sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti il contratto di lavoro.
Sono invece suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro afferenti alle sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità.
Il superamento di tali limiti, anche uno solo di essi, rende la condotta lesiva dell’onore datoriale non scriminata dal diritto di critica e suscettibile di rilievo disciplinare, in quanto contraria al dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c..
Un aspetto particolarmente delicato concerne l’esercizio del diritto di critica in ambito sindacale, ove il confronto delle opinioni può essere caratterizzato da toni oggettivamente aspri e polemici dovuti al fatto che si tratta di lavoratori che si confrontano con la controparte datoriale al fine di tutelare gli interessi della categoria.
Al riguardo, la Cassazione ha in più occasioni precisato che il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all’attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione. Detta attività, afferma la Suprema Corte, è espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall’art. 39 Cost. e non può, in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, essere compressa dai poteri datoriali.
Si configura la scriminante dell’esercizio del diritto di critica sindacale e politica nel caso in cui l’espressione del pensiero sia manifestata, ad esempio, attraverso la pubblicazione di articoli contenenti invettive volte a stigmatizzare gli atteggiamenti e la complessiva condotta di sfruttamento dei lavoratori, purché la critica risulti funzionale alla disapprovazione della condotta stessa e non trasmodi nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione (Cass. pen., Sez. V, Sent., 04/05/2022 n. 17784).
Posto che non è configurabile in assoluto una “scriminante sindacale” che legittimi in ogni caso il comportamento svolto all’interno dell’impresa dal lavoratore nell’ambito dell’attività sindacale, pur costituzionalmente tutelata, l’esercizio del diritto di critica incontra quindi i limiti della correttezza formale e sostanziale attinente alla veridicità (pur valutata secondo il parametro soggettivo della verità percepita dall’autore) dei fatti denunciati. Qualora tali limiti vengano oltrepassati mediante l’attribuzione all’impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore potrà essere legittimamente sanzionato in disciplinare.
Sempre più aziende sono costrette a confrontarsi con le critiche pubblicate dai propri dipendenti sui social network.
Se è lecito scrivere un post commentando fatti realmente accaduti con un linguaggio moderato, la giurisprudenza non ammette invettive personali e attacchi ingiustificati.
Così, la Cassazione ha ritenuto sussistere giusta causa di recesso, in quanto inidonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su Facebook di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per l’attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.
A diverse valutazioni possono condurre i commenti postati nelle chat private e nei gruppi chiusi.