Parità di genere
Per la legge 162/2021 anche un atto organizzativo può penalizzare una categoria.
I giudici bocciano condotte «neutre» che non tengono conto delle differenze.

L’orario di lavoro o il suo cambiamento possono diventare un elemento di discriminazione nei confronti di particolari categorie di lavoratori. È il principio contenuto nella legge 162/2021, che ha modificato l’articolo 25 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (Dlgs 198/2021), con effetto dal 3 dicembre scorso: «si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purchè l’obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
E in base al nuovo comma 2-bis dell’articolo 25, costituisce discriminazione ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età, delle esigenze di cura personale o familiare, può mettere il lavoratore o la lavoratrice in posizione di svantaggio rispetto agli altri lavoratori.
Oltre a modificare il Codice delle pari opportunità, la legge 162/2021 ha introdotto dal 1° gennaio 2022 anche la certificazione della parità di genere nelle aziende, per attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere.
Tra i parametri minimi per conseguire la certificazione da parte delle aziende, la legge 162/2021 cita, oltre alla retribuzione e alle opportunità di progressione in carriera, anche la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, e ciò anche riguardo ai «lavoratori occupati di sesso femminile in stato di gravidanza».

Le tutele già esistenti
Il tema dell’orario di lavoro a tutela della lavoratrice madre, ad esempio, è già oggetto di disposizioni normative. Il lavoro notturno (cioè quello svolto, per un totale di almeno 7 ore, a cavallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino) è precluso alle dipendenti il cui stato di gravidanza sia stato accertato e sino al compimento del primo anno di età del bambino, in base agli articoli 11 e 15 del Dlgs 66/2003.
Ancora, per le madri lavoratrici dipendenti a tempo determinato e indeterminato sono previsti periodi di riposo per l’allattamento, fino al primo anno di vita del bambino o entro un anno dall’ingresso in famiglia del minore adottato o in affidamento. I permessi per allattamento spettano nel rispetto dei seguenti limiti: due ore al giorno (anche cumulabili) in presenza di un orario giornaliero pari o superiore a sei ore; un’ora al giorno se l’orario giornaliero è inferiore a sei ore. I periodi di riposo sono considerati ore lavorative agli effetti della durata e della retribuzione del lavoro, e comportano il diritto della lavoratrice madre a uscire dall’azienda.
Il Codice dei contratti (Dlgs 81/2015) all’articolo 8, comma 7, prevede la possibilità per i lavoratori genitori, di poter richiedere per un determinato periodo, in sostituzione del congedo parentale, la trasformazione del rapporto da fulltime a part-time. Il datore di lavoro non può sottrarsi ed è tenuto a procedere alla trasformazione in part-time entro 15 giorni dalla richiesta.

La giurisprudenza
Recentemente, la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha avuto modo di prendere decisioni importanti rispetto alla parità di trattamento, esprimendosi sulla distinzione fra discriminazioni dirette e indirette (articolo 25 del Dlgs 198/2006): le prime sono quelle immediatamente riconoscibili, ad esempio, l’assegnazione a un orario di lavoro diverso da quello di norma seguito dalla totalità dei dipendenti. Le discriminazioni indirette, invece, si configurano quando sono messe in atto condotte apparentemente uguali per tutti, ma tale parità di trattamento non tiene conto delle differenze sostanziali tra un lavoratore e un altro e ciò di fatto crea discriminazione. L’assegnazione a un orario di lavoro che crei particolare svantaggio alla lavoratrice madre, ad esempio, è configurabile quale discriminazione indiretta.
La prova della natura discriminato ria di una certa condotta grava sui lavoratori ma è una prova attenuata: cioè può essere data anche solo attraverso presunzioni precise e concordanti, dopodiché l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione passa in capo al datore di lavoro.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU IL SOLE 24 ORE