Soprattutto di recente i fari sono stati puntati sul concetto della parità di genere e ciò soprattutto a seguito della presentazione del disegno di legge che, prima in Camera dei Deputati e poi al Senato della Repubblica, ha ottenuto parere favorevole alla sua adozione, permettendo oggi di avere pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge 5 novembre 2021, n. 162. Si tratta di una norma che cerca di portare avanti la situazione italiana in ambito di rispetto della parità di genere e che ha come scopo ultimo di rendere più trasparenti i rapporti di lavoro, più accessibili le tutele a ciò preposte, e meno ampio il divario del trattamento riservato a uomini e donne sul luogo di lavoro. A tale norma, tuttavia, si è arrivati a seguito di un lungo percorso storico, sociale e normativo, iniziato quando, nel 1945, per la prima volta le votazioni elettorali sono state aperte a tutta la popolazione italiana, senza distinzione di sesso.
In quest’ottica si inserisce anche il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che supporterà la ripresa e la capacità di adattamento a seguito dell’impatto economico e sociale causato dalla pandemia attraverso l’utilizzo dei fondi stanziati dall’Unione europea nell’ambito del programma Next Generation EU con un programma volto sia a favorire la partecipazione femminile al mercato del lavoro, direttamente o indirettamente, sia a correggere gli squilibri che ostacolano le pari opportunità.

Discriminazioni e parità di genere: stato dell’arte
Il concetto di discriminazione è chiarito agli artt. 25 e 26 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. n. 198/2006). In particolare, viene qui offerta un differenziazione tra discriminazione diretta ed indiretta, laddove le prime sono quelle immediatamente identificabili destinate ad un particolare dipendente a causa di una sua caratteristica peculiare (orientamento religioso, sessuale, politico, genere o etnia); le seconde, invece, vengono integrate ogni qualvolta sia adottato un comportamento nei confronti di un lavoratore che, per sue personali condizioni, dovrebbe essere differenziato da quello usato verso la totalità degli altri dipendenti. Oltre alle novità apportate dalla nuova normativa (legge n. 162/2021) e di cui si dirà meglio nei paragrafi successivi, ai sensi del previgente dato legislativo sono già considerate discriminazioni i trattamento meno favorevoli in ragione dello stato di gravidanza, maternità o paternità anche adottive, le molestie e, in generale, le condotte indesiderate che siano adottate in ragione del sesso o di attività in qualsiasi modo ricollegabili alla sfera sessuale del soggetto che ne sia destinatario le quali si traducano in atteggiamenti manifestati tramite espressioni sia fisiche che verbali. Ancora, sono tipicamente considerati quali discriminazioni i trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice (o anche da un lavoratore) a seguito dell’aver ricevuto le molestie di cui si è appena detto ed averle declinate – le condotte tenute come una sorta di reazione avversa, dunque; su questa stessa scia, il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna ritiene, infine, che siano vere e proprie discriminazioni anche i trattamenti sfavorevoli attuati da parte del datore di lavoro e che costituiscano una reazione ad un reclamo o ad una azione volta ad ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento tra uomini e donne.
È bene chiarire, inoltre, che in combinato disposto con l’art. 3 del D.Lgs. n. 215/2003, esistono delle eccezioni al divieto di discriminazione, applicabili laddove le loro finalità siano assolutamente legittime e necessarie e nel caso in cui, per natura o per contesto in cui l’attività lavorativa viene svolta, il riferimento al sesso dei dipendenti diventa un requisito essenziale e determinante per la prestazione dell’esecuzione lavorativa. In tal senso, la normativa prevede delle ipotesi tassative in cui la differenza tra uomo e donna diventa rilevante ai fini dell’attività produttiva dell’azienda (o, in ogni caso, del luogo di lavoro): tali sono assunzioni nelle attività dell’arte, della moda e dello spettacolo). Altre eccezioni vengono formulate in contesti molto diversi da quelli appena elencati, e riguardano la tipologia dell’attività lavorativa oggetto della prestazione: le mansioni particolarmente pesanti e pericolose che giustificano tali decisioni sui dipendenti sono tipizzate all’interno del Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro (Ccnl) di riferimento. Per poterne fruire senza subire conseguenze negative, per il datore di lavoro corre l’obbligo preventivo di dimostrare la necessità, e non semplicemente la convenienza o l’opportunità, di assumere un uomo piuttosto che una donna o viceversa al fine di una prestazione lavorativa ben precisa.
A tutela di coloro i quali potrebbero subire discriminazioni sul luogo di lavoro sono preposti una serie di soggetti, cioè: il Comitato nazionale per l’attuazione dei principi di parità; gli Ispettorati Territoriali del Lavoro (ITL) e gli Ispettorati Nazionali del Lavoro (INL); i Consiglieri di parità (operanti anche a livello regionale, delle Città metropolitane, degli Enti di area vasta). Queste ultime figure, in particolare, si occupano di promuovere e controllare l’attuazione dei principi di pari opportunità e non discriminazione tra uomo e donna sul luogo di lavoro. Gli ITL e INL sono invece organi di vigilanza e di controllo, i quali operano in stretta collaborazione con gli altri soggetti indicati. La base giuridica su cui poggia la tutela della parità di genere in Italia è il D.Lgs. n. 198/2006, denominato «Codice delle pari opportunità tra uomo e donna». Si tratta di un testo normativo che ha lo scopo di assicurare l’accesso al lavoro senza discriminazioni di alcuna sorta, indipendentemente dal settore di attività o dalle modalità di assunzione; inoltre, esso si occupa di fare in modo che sia riconosciuto lo stesso trattamento retributivo alla totalità dei lavoratori a parità di mansioni, nonché la classificazione professionale (l’attribuzione, dunque, di qualifiche e mansioni, la progressione nella carriera, l’accesso alle prestazioni previdenziali e le forme pensionistiche complementari). Con particolare riferimento al concetto dell’accesso al lavoro, esso si riferisce a qualsiasi riferimento allo stato matrimoniale, di famiglia o gravidanza, o maternità o paternità anche adottive.

D.Lgs. n. 198/2006
Oltre agli elementi appena visionati (e degli altri che saranno approfonditi nel prosieguo della presente trattazione), il D.Lgs. n. 198/2006 si occupa anche di segnalare delle azioni positive nonché delle sovvenzioni alle aziende al fine di raggiungere l’obiettivo dell’annientamento delle discriminazioni di genere sul luogo di lavoro.

Uguaglianza sostanziale
In particolare, gli artt. 42 e 43 del testo normativo di cui in argomento segnalano alcune attività volte a favorire l’occupazione femminile e alla realizzazione di condizioni di uguaglianza sostanziale tra i dipendenti di diverso sesso. Pertanto, con la finalità ultima di eliminare ogni elemento che si ponga quale ostacolo alla realizzazione di una condizione di totale parità, il D.Lgs.
n. 198/2006 prevede progetti per eliminare le disparità nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa nonché per favorire
la diversificazione delle scelte professionali delle donne, il loro inserimento in settori in cui sono sottorappresentate, la conciliazione tra il lavoro e la famiglia. Il compito di provvedere all’ideazione e, successivamente, alla predisposizione nonché all’organizzazione pratica di tali attività, è riservata ai soggetti di cui si è detto ai paragrafi precedenti, e cioè ai Consiglieri nazionali e regionali (o delle Città metropolitane o delle Aree vaste) di parità, agli ITL ed INL, ma anche agli stessi datori di lavoro, ai Centri per l’impiego, alle organizzazioni sindacali nazionali e territoriali, ai Centri di parità e per le pari opportunità a livello nazionale e locale. A tali scopi, e per assicurare la possibilità di provvedere in tal senso anche alle realtà più piccole e con minori capacità economiche, le figure organizzatrici appena indicate hanno la facoltà di richiedere accesso a dei finanziamenti, a condizione che chi avanzi tali domande riesca ad assicurare ai propri dipendenti condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori iniziative volte alla loro forzione al fine di prevenire il verificarsi di episodi spiacevoli quali le molestie sul lavoro o, più in generale, di tutti quei trattamenti meglio esplicitati supra.

Strumenti processuali
Particolarmente interessante è il capo III del D.Lgs. n. 198/2006, il quale si occupa delle tute le di carattere processuale apprestate ai lavoratori che ritengano di essere stati ingiustamente discriminati. Segnatamente l’art. 36, rubricato «legittimazione processuale» prescrive che chi intenda agire in giudizio perché venga dichiarata la natura discriminatoria delle condotte tenuti nei loro confronti «può promuovere il tentativo di conciliazione ai sensi dell’articolo 410 del Codice di procedura civile o, rispettivamente, dell’articolo 66 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, anche tramite la consigliera o il consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente». Tali figure, la cui competenza viene identificata in base al territorio, hanno facoltà
di ricorrere innanzi al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro o, per i rapporti sottoposti alla sua giurisdizione, al Tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti, su delega della persona che vi ha interesse, o anche di in tervenire nei giudizi promossi dalla medesima. Il successivo art. 37 si occupa invece della legittimazione processuale a tutela di più soggetti, e prevede che, laddove le Consigliere o i Consiglieri di parità regionali e/o nazionali a seconda della rilevanza del caso, rilevino l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori diretti o indiretti di carattere collettivo, anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto le lavoratrici o i lavoratori lesi dalle discriminazioni, prima di promuovere l’azione di cui si è
detto al paragrafo precedente possono chiedere all’autore della discriminazione di predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni accertate entro un termine non superiore a centoventi
giorni. Tale possibilità è riconosciuta a seguito di audizione, laddove si tratti di discriminazioni poste in essere da un datore di lavoro, delle Rappresentanze sindacali aziendali maggiormente rappresentative (in loro mancanza, sì darà ascolto alle associazioni locali aderenti alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale). A condizione di valutazione positiva del piano così presentato, ove esso sia ritenuto idoneo alla rimozione delle discriminazioni, la Consigliera o il Consigliere di parità promuove il tentativo di conciliazione ed il relativo verbale, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del Tribunale in funzione di Giudice del lavoro. Ove, invece, si raggiunga la fase della discussione della causa dinanzi il giudice adito, quest’ultimo ha facoltà, oltre che di accertamento delle eventuali discriminazioni avvenute, anche di provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, ordinando all’autore della discriminazione di definire un piano di rimozione delle stesse, con l’ausilio delle Rappresentanze sindacali aziendali (o degli organismi locali aderenti).
Nella sentenza il giudice fissa i criteri, anche temporali, da osservarsi ai fini della definizione ed attuazione del piano. Laddove sia necessario e le circostanze lo richiedano, la Consigliera o il Consigliere regionale e nazionale di parità possono proporre ricorso in via d’urgenza davanti al Tribunale in funzione di Giudice del lavoro o al Tribunale amministrativo regionale territorialmente competenti. «Il giudice adito, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, ove ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, con decreto motivato e immediatamente esecutivo oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento pregiudizievole e adotta ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti delle discriminazioni accertate, ivi compreso l’ordine di definizione ed attuazione da parte del responsabile di un piano di rimozione delle medesime».
Infine, con specifico riferimento alle discriminazioni, l’art. 38 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna prescrive una serie di provvedimenti che si possano intraprendere contro le condotte la cui natura sia accertata essere, appunto, discriminatoria. In questi casi, su ricorso del lavoratore (o, in sua vece tramite sua delega delle organizzazioni sindacali o della Consigliera o
del Consigliere di parità provinciale o regionale territorialmente competente) «il tribunale in funzione di giudice del lavoro del luogo dove si sia verificato il comportamento denunciato, nei due giorni successivi, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritenga sussistente la violazione di cui al ricorso, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno anche non patrimoniale, nei limiti della prova fornita, ordina all’autore del comportamento denunciato, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti»

Nuova legge n. 162/2021
La nuova legge 5 novembre 2021, n. 162 consta di soli sei articoli, i quali riportano modifiche sostanziali nonché rilevanti integrazioni al D.Lgs. n. 198/2006. La prima tra le innovazioni inserite è quella all’art. 20 del D.Lgs. n. 198/2006, il quale viene interamente sostituito da una nuova disposizione che in prima istanza mantiene la previsione secondo cui la Consigliera o il Consigliere nazionale di parità debba presentare al Parlamento, ogni due anni, una relazione contenente i risultati del monitoraggio sull’applicazione della legislazione in materia di parità e pari opportunità nel lavoro e sulla valutazione degli effetti delle disposizioni della nuova normativa vigente; a ciò aggiunge che tale relazione debba essere presentata entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 162/2021.
L’art. 2 della norma de quo va poi a modificare l’art. 25 del Codice delle pari opportunità, rubricato «Discriminazione diretta ed indiretta». Tra le varie integrazioni, viene qui inserito il nuovo
art. 2-bis ai sensi del quale «costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».
Il successivo art. 3 della legge n. 162/2021 si occupa, invece, dell’art. 46 del D.Lgs. n. 198/2006 («Rapporto sulla situazione del personale»). Oltre ad apportare cambiamenti semantici ad alcune
espressioni ivi presenti, la citata disposizione sostituisce i commi 2 e 3 del testo normativo. Innanzitutto, esso precisa che il rapporto che le aziende che occupino almeno cinquanta dipendenti (in precedenza le dimensioni richieste erano di cento lavoratori) debba essere redatto in modalità telematica, attraverso la compilazione di un modello reperibile sul sito internet del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, e che sarà trasmesso anche alle Rappresentanze sindacali aziendali in modo da renderlo disponibile per la collettività dei lavoratori in forze alle aziende che rispettino i parametri indicati. Dal momento della vigenza della norma, il rapporto dovrà essere redatto non più «almeno» ogni due anni, ma nel preciso rispetto di tale tempistica. I dati che attraverso di esso verranno reperiti saranno poi gestiti dai Consiglieri regionali di parità.

Certificazione della parità di genere
Venendo all’elemento centrale dell’odierna trattazione, ciò che della nuova legge n. 162/2021 qui davvero rileva sono gli artt. 4 e 5, il primo dei quali è rubricato «Certificazione della parità di genere», il quale inserisce un nuovo art. 46-bis al Codice delle pari opportunità (D.Lgs. n. 198/2006) prescrivendo così l’introduzione, dal 1° gennaio 2022 e per le aziende con almeno cinquanta dipendenti, della certificazione della parità di genere «al fine di attestare le politiche e le misure concrete adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale a parità di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità». Il nuovo articolo prescrive che saranno uno o più Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per le pari opportunità, a stabilire i parametri minimi per il conseguimento della certificazione in argomento relativi alla retribuzione corrisposta, alle opportunità di professione in carriera e alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, anche con riguardo alle dipendenti in stato di gravidanza. Inoltre, sarà sempre attraverso tali strumenti normativi che verranno stabilite le modalità di acquisizione e monitoraggio dei dati necessari alla certificazione, i quali saranno trasmessi dai datori di lavoro. Parti importanti del processo in esame saranno, come sempre, le Rappresentanze sindacali aziendali, nonché i Consiglieri e le Consigliere di parità regionali delle Città metropolitane e degli Enti di area vasta. Al fine di assicurare completamente la buona riuscita di questo nuovo istituto, la nuova legge prevede altresì l’istituzione di un Comitato tecnico permanente sulla certificazione di genere nelle imprese, presso il Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri; esso sarà costituito da «rappresentanti del medesimo Dipartimento per le pari opportunità, del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, del Ministero dello sviluppo economico, delle consigliere e dei consiglieri di parità, da rappresentanti sindacali e da esperti, individuati secondo modalità definite con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato per le pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro dello sviluppo economico».

Sgravio contributivo
Il successivo art. 5 della legge n. 162/2021 si occupa, poi, delle conseguenze positive per le aziende private che impieghino almeno cinquanta dipendenti e che riescano ad ottenere la certificazione della parità di genere alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento. In particolare, a partire dal 2022 sarà concesso a queste ultime un esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico del datore di lavoro, restando tuttavia ferma l’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.

Punteggio premiale
Sempre in un’ottica di premialità di parità (titolo, peraltro, dell’art. 5 cui si sta facendo riferimento) a queste stesse aziende sarà «riconosciuto un punteggio premiale per la valutazione, da parte di Autorità titolari di fondi europei nazionali e regionali, di proposte progettuali ai fini della concessione di aiuti di Stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti. Compatibilmente con il diritto dell’Unione europea e con i principi di parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza e proporzionalità, le amministrazioni aggiudicatrici indicano nei bandi di gara, negli avvisi o negli inviti relativi a procedure per l’acquisizione di servizi, forniture lavori e opere i criteri premiali che intendono applicare alla valutazione dell’offerta in relazione al possesso da parte delle aziende private, alla data del 31 dicembre dell’anno precedente a quello di riferimento, della certificazione della parità di genere (…)”.

CONTRIBUTO PUBBLICATO SU DIRITTO&PRATICA DEL LAVORO