Per mezzo della recente sentenza n. 83 del 19 gennaio 2018 il Tribunale di Milano (sezione Lavoro) si è pronunciato con riferimento alla portata da attribuire alla decadenza dall’azione giudiziale (per l’impugnazione del licenziamento) di cui all’art. 32 comma 1 della Legge 4 novembre 2010, n. 183, nello specifico caso in cui si registri una pluralità di impugnazioni stragiudiziali da parte del lavoratore. Il Giudice in questione ha, altresì, chiarito taluni aspetti relativi alla corretta instaurazione del rapporto di mandato tra il dipendente e l’associazione sindacale, allorquando sia la stessa a provvedere ad impugnare stragiudizialmente il recesso datoriale.

In particolare, nel caso di specie, un lavoratore aveva visto intimarsi, da parte della società datrice di lavoro, la massima sanzione del licenziamento per giusta causa, avverso la quale aveva proposto l’azione giudiziale, al fine di accertarne la illegittimità nonché ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro, circa venti giorni dopo la scadenza del termine decadenziale. Orbene, occorre a tal proposito rilevare come a norma del predetto art. 32 della L. 183/2010, come modificato dall’art. 1, comma 38 della Legge 28 giugno 2012, n. 92(c.d. “Legge Fornero”), oltre a sussistere un primo termine di decadenza di sessanta giorni per l’impugnativa stragiudiziale – “anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale” – della sanzione, la stessa risulti poi inefficace se non seguita“entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato”. Ebbene, come riportato dal ricorrente, alla prima lettera di impugnazione ne erano seguite altre plurime e reiterate, con ciò residuando il dubbio se il termine di centottanta giorni dovesse considerarsi decorrente a partire dalla data delle comunicazioni successive (ancorché regolarmente inviate nel primo dei termini decadenziali).

Invero, in assenza di una disposizione normativa espressa sul punto, il Tribunale di Milano ha tentato di fornire un’interpretazione aderente alla ratio stessa dell’intervento legislativo in oggetto. In particolar modo, il Giudice ha rilevato come l’affermazione per la quale detto termine “ricominci a decorrere ogni volta dalla (nuova e successiva) impugnazione” sarebbedel tutto estranea “alle rationeslegis sottese all’introduzione della norma”. Il Legislatore avrebbe inteso, a dire del giudice di merito, addivenire al conseguimento dell’obiettivo di celerità e certezza e l’interpretazione della disposizione operata dal ricorrente sarebbe risultata del tutto contrastante con detta esigenza. La Suprema Corte di Cassazione aveva, infatti, adottato una simile lettura della disposizione, con pronuncia n. 5717 del 20 marzo 2015, chiarendo, in altra e diversa circostanza, come la decorrenza del termine di proposizione dell’azione fosse sussistente a partire dal “momento di spedizione dell’atto” stragiudiziale, appunto per “esigenze di celerità e certezza”, e non dalla scadenza dei sessanta giorni concessi per impugnare.

Quanto al secondo dei profili esaminati dal Tribunale di Milano, occorre osservare come, a dire del lavoratore ricorrente, la trasmissione dell’impugnativa sarebbe stata operata autonomamente dal sindacato – e, per di più, sottoscritta solo dall’esponente dell’organizzazione –  senza ricevere idonea autorizzazione da parte del dipendente né avvisando lo stesso dell’intenzione di procedere in tal senso.  Ebbene, al riguardo, il Giudice ha chiarito come la semplice circostanza per la quale il soggetto decida di rivolgersi ad un sindacalista ai fini di ricevere una generale assistenza con riferimento al rapporto di lavoro – e al relativo recesso – possa di per sé equivalere “al conferimento di”un vero e proprio mandato al rappresentante, idoneo a “fondare il potere del sindacalista al compimento di ogni iniziativa ritenuta opportuna a presidio dell’interesse del lavoratore in relazione al licenziamento” e, con ciò, anche alla proposizione di impugnazione extragiudiziale. Infatti, detto atto rappresenterebbe la prima delle azioni poste in essere per realizzare un’effettiva tutela del lavoratore in casi di recesso datoriale. Ciò vale, come precisato nella sentenza in commento, esclusivamente ove il dipendente si astenga dall’impartire specifiche “direttive di senso contrario” all’associazione sindacale, posta, per converso, l’indubbia invalidità di eventuali azioni del sindacato in palese contrasto con la volontà del lavoratore. A ben vedere, già il Tribunale di Venezia, con sentenza del 17 aprile 2014 si era espresso con riferimento ai limiti – e al relativo adempimento – di tale mandato professionale, chiarendo che “per il rapporto di mandato non è richiesta la prova scritta, né è richiesta procura o ratifica affinché l’organizzazione sindacale possa interrompere il termine di decadenza per proporre impugnazione al licenziamento ex art. 6 l.n. 604/1966”. L’applicazione di tale orientamento è, altresì, rinvenibile dapprima nella sentenza n. 189 del 2016 del Tribunale di Modena e, con riferimento alla stessa controversia, nella n. 1003 del 2016 della Corte d’Appello di Bologna, per mezzo delle quali i giudici dei due gradi di giudizio, nel pronunciarsi su un’azione tardiva in virtù di una lettera del sindacato della quale il lavoratore non era stato edotto, hanno affermato come l’associazione sindacale sia da intendersi quale rappresentante ex lege, con ciò non potendosi intendere inficiata la validità della lettera al netto dell’assenza della sottoscrizione del dipendente.

A tali premesse è conseguito il rigetto del ricorso del lavoratore, come detto, per avvenuta decadenza.